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Johan Cruijff vs Arrigo Sacchi: affinità, divergenze e impatto sul calcio contemporaneo

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Credo sia arrivato il momento di affrontare a viso aperto e senza remore una delle questioni maggiormente dibattute e direi anche più scottanti del pianeta football degli ultimi decenni.

Come sappiamo tutti, a fine anni ’80 sul calcio europeo (per il Sudamerica servirebbe una riflessione a latere) cadono due bombe atomiche che hanno le sembianze di due sciamani, di due profeti. Si parla di personaggi con un curriculum molto diverso (la leggenda olandese e l’umile figlio di un artigiano parmigiano) ma accomunati da una convinzione feroce e cieca nelle proprie idee, da una vocazione al nuovo che non conosce compromessi, da una certa dose (sana, ma a volte anche insana) di narcisismo e di egocentrismo e da un gusto per la provocazione, anche verbale, che ha pochi eguali.

Non mancano, anche sul piano caratteriale, differenze significative, perché Johan Cruijff riesce a essere al tempo stesso un intransigente “moralista” e il figlio della cultura libertaria della sua gioventù: il calcio di Johann è l’ultimo singulto delle eversioni sessantottine, spalanca le porte del futuro ed è al tempo stesso profondamente radicato in un periodo che il mondo, fine anni ’80, si è affrettato a cancellare e a demonizzare. Arrigo Sacchi crede a sua volta nel valore dell’etica – nel suo caso, l’aggettivo moralista assume un connotato positivo – e nutre una concezione profondamente collettivista della vita e della squadra, ma culturalmente la sua rivoluzione accompagna come un’eco trionfale l’ascesa del suo Presidente, il Cavaliere Silvio Berlusconi, e quindi si colloca in una costellazione aziendalista e culturalmente yuppie (siamo negli anni ’80) che nasce e prospera proprio sulle ceneri del Sessantotto.

I due profeti, ferme le analogie e anche le profonde differenze culturali e caratteriali che connotano la loro ascesa e la loro personalità, divergono però soprattutto per ciò che propongono in campo, per la loro visione del fenomeno calcio.

La rivoluzione di Arrigo Sacchi

In Italia, si è imposta da decenni una narrazione a mio avviso miope e poco solida che incasella Johann e Arrigo all’interno della medesima galassia, quella del cosiddetto calcio totale. L’accostamento non è chiaramente un’invenzione né del tutto privo di un qualche fondamento: se il legame di Cruijff con la rivoluzione orange non merita di essere spiegato in questa sede, è sufficiente ricordare che Sacchi vive gli anni della sua formazione, quando lavora per l’azienda di famiglia, studiando e prendendo appunti dopo aver osservato all’opera l’Arancia Meccanica di Rinus Michels e più in generale le squadre a vocazione “totalitaria” degli anni ’70, e in particolare quelle forgiate da tre geni della panchina che rispondono al nome di Ernst Happel, Guy Thys e Raymond Goethals.

Un vagabondo austriaco dal viso e dai modi di una durezza quasi sprezzante, un triste cantautore belga mancato (il lato oscuro della luna di Jacques Brel) e un anarcoide, sempre belga, dal look improbabile e dalla lingua velenosa: Happel, Thys e Goethals sono tre menti illuminate che forgiano, nel corso di pochi anni, la propria versione del calcio totale, esportandola in Olanda e soprattutto in Belgio, e sono anche i tre maestri del giovane Arrigo, coloro che svolgono un ruolo pedagogico chiave nella sua breve e intensissima carriera.

Quando debutta come allenatore di alto profilo, vicino ai quarant’anni, Arrigo Sacchi ha maturato alcune convinzioni radicali: si proclama discepolo della scuola a vocazione universale degli anni ’70 e lavora profondamente sul concetto di collettivo, sui sui meccanismi e sul suo funzionamento. Come sappiamo tutti, il suo Parma fa luccicare di meraviglia gli occhi di Silvio Berlusconi, che con un gesto coraggioso lo porta a Milano e decide di affidargli la costruzione della sua squadra dei sogni.

È noto che, nei primi mesi di lavoro, la squadra rigetta i metodi di Sacchi, la sua estrema durezza, il suo autoritarismo senza compromessi, e che tocca al presidente in prima persona difendere le proprie scelte, chiedendo ai giocatori di pazientare. Non è meno noto il fatto che, dopo alcuni mesi di rodaggio, il Milan decolla, domina la serie A, vincendo il titolo anche e soprattutto nelle due partite in cui letteralmente stritola il Napoli di Maradona, e quindi, per due stagioni consecutive, impone la propria egemonia sull’Europa. La grande stampa internazionale, e in particolare L’Équipe, tributa il doveroso omaggio allo squadrone rossonero, scrivendo qualcosa come “esisteva il calcio degli anni ’80 e poi è arrivato il Milan di Sacchi”.

Entriamo nel merito del discorso: in quali termini si connota come innovativo, soprattutto sullo scenario italiano, il calcio di Arrigo, e come il suo impatto ha deviato il corso della storia del football nel Belpaese, nel bene e nel male?

Credo ci siano alcune parole chiave che descrivono piuttosto bene ciò che la proposta di Sacchi ha significato per l’Italia.

Atteggiamento e baricentro

La prima è atteggiamento, cui si lega la parola baricentro. Questa, a mio avviso, è la novità essenziale codificata dall’allenatore di Fusignano. Il suo Milan, con un’operazione di restyling repentina e radicale, alza il baricentro – mi verrebbe da dire – di tutto il calcio italiano, e ne modifica anche l’atteggiamento, recuperando la lezione degli anni ’70 e proiettandola verso gli anni ’90, il decennio del sacchismo.

Le lampanti dimostrazioni di superiorità del Maracana di Belgrado e soprattutto di Madrid, quando i Blancos vengono surclassati per quasi novanta minuti, sono uno spartiacque nella storia del calcio del Belpaese, perché non si era mai vista una squadra italiana mettere in pratica un calcio tanto aggressivo, spregiudicato e feroce su campi ritenuti “impossibili”. Arrigo, nell’arco di un paio di stagioni, ha imposto la sua rivoluzione, e l’ha fatto con le maniere forti ma soprattutto con l’avallo del risultato. Il Milan scende in campo con l’intenzione di dominare gli avversari e di farlo a prescindere da dove si gioca, e riesce nell’impresa, strabiliando il mondo e strappando applausi a scena aperta.

Pressing

La terza parola chiave, a mio parere, è pressing. Olandesi e belgi da tempo utilizzavano il pressing come strumento di difesa “alto” e collettivo, e anche numerose formazioni tedesche e inglesi avevano fatto tesoro del break olandese di vent’anni prima, impostando la fase difensiva come le squadre totali cui si ispiravano.

Nessuno, tuttavia, aveva raggiunto il livello di perfezione nel dettaglio, direi quasi “astratta”, del Milan di Arrigo Sacchi, anche nel ricorso incessante al fuorigioco, il maggiore lascito della scuola belga. Per il tecnico di Fusignano, la fase di non possesso va curata ed elaborata in maniera meticolosa, maniacale, ossessiva: il suo Milan dei momenti migliori soffoca come forse mai era avvenuto nella storia il gioco degli avversari. I malcapitati fuoriclasse del Real, nel 1989, sono spaesati davanti alla furia intelligente e calcolata dei rossoneri nel recupero del pallone, e tutti i grandi tecnici a vocazione totale che sono arrivati dopo Arrigo hanno seguito le sue orme sul fronte pressing.

Ricordo il Bayern di Pep Guardiola impedire fisicamente ai dirimpettai di uscire dalla trequarti palla al piede, ricordo il Borussia Dortmund e il Liverpool di Jürgen Klopp ridurre all’impotenza numerosi avversari grazie a un lavoro coordinato, efficace e ossessivo di tutti i giocatori in fase di non possesso. Lo stesso Klopp ha più volte riconosciuto di essersi ispirato al Milan di Sacchi nella costruzione delle sue squadre (“Devo tutto a Sacchi, è la base del mio lavoro”). L’approccio di Arrigo ha avuto peraltro un’efficacia immediata anche in Italia: i numerosi successi del calcio italiano dei primi anni ’90 sono un legato del sacchismo, e il collettivo ideato da Marcello Lippi a metà anni ’90 è, squadre di Conte permettendo, forse la cosa più sacchiana vista su un campo di calcio dopo il 1990.

Funzionalismo

La quarta parola chiave della filosofia di Arrigo è determinante, e a mio parere è la parola funzionalismo. Il calcio di Arrigo è profondamente funzionalista e sotto questo aspetto presenta un fortissimo legame di sangue con la tradizione italiana, nonostante il Profeta di Fusignano, da decenni, prenda le distanze dal calcio del nostro paese, in una sorta di ansia da influenza da cui non è mai riuscito a guarire del tutto. Esattamente come nella nostra miglior tradizione, ancorché in forme parzialmente diverse, Sacchi è un radicale funzionalista, ovvero crede che a una posizione in campo, a un ruolo, corrisponda una funzione ben specifica. Che poi questa funzione possa connotarsi in termini leggermente diversi da quelli codificati dai geniali neologismi di Brera è un altro paio di maniche che non cambia la natura più profonda del suo calcio: anche in una recente intervista, Arrigo ha dichiarato “Il terzino faccia il terzino e il centravanti faccia il centravanti”, e direi che non servono troppe spiegazioni per comprendere ciò che intende dire.

Nella visione di Sacchi e di tutti i grandi post-sacchiani (in parte Capello, Marcello Lippi, Antonio Conte, tecnici in grado di smussare gli spigoli del sacchismo) il ruolo e la funzione sono essenziali, e per questo il suo calcio è estremamente funzionalista, organizzato e meticoloso. Il corollario di questa impostazione – documentata dall’adorazione per i giocatori in grado ai adattarsi alla sua proposta di gioco, al suo metodo – è l’esaltazione del gregario di lusso, che troverà nella Juventus di Lippi la propria apoteosi: la cosa più importante, per Arrigo, è che un giocatore sappia svolgere alla perfezione il proprio compito, che sia atleticamente preparato al meglio (le sue sedute di allenamento logoranti, riproposte poi da Conte, sono in tal senso esplicative) e che sappia interpretare in maniera chiara lo spartito che gli viene consegnato.

Una simile intelaiatura non deve essere letta come una mortificazione della qualità, perché a mio parere bisogna archiviare la mentalità da oratorio che esalta la giocata e che contrappone singolo e squadra, una visione peraltro opaca all’evidenza della natura rigorosa e collettiva, sul piano tattico, del nostro calcio. Arrigo ha saputo esaltare e valorizzare i gregari di lusso così come i fuoriclasse, armonizzandoli, nei momenti migliori, in un collettivo straordinariamente funzionale, efficace e spettacolare. La forza della sua proposta sta però anche e soprattutto proprio nella capacità di valorizzare al meglio gli atleti polivalenti e in grado di svolgere un compito specifico, e nel suo caso, così come in quello di Gigi Maifredi, il ruolo riveste un’importanza cardinale: ogni singolo giocatore ricopre un compito specifico e deve portare a compimento, nel migliore dei modi, tale compito.

Arrigo Sacchi non ha mai voluto giocatori di scuola sudamericana perché consapevole della loro riluttanza ad adattarsi a un disegno estremamente meticoloso e preciso come il suo. La famosa preferenza accordata a Rijkaard su Borghi, al netto del divario di bravura tra i due giocatori, si può leggere anche così: Borghi nel calcio di Sacchi sarebbe stato qualcosa di peggio di un pesce fuor d’acqua, e il primo a esserne consapevole era il geniale tecnico di Fusignano, che aveva idee estremamente chiare e la convinzione necessaria per dare loro attuazione.

Il culto del rigore, del funzionalismo e la necessità di lavorare in maniera ossessiva sui meccanismi di squadra e sul pressing – tutti fattori che sto proponendo in un’accezione profondamente positiva, del resto gioco e risultati del suo Milan questo dicono senza tema di smentita – si riflettono anche sulla predisposizione tattica del suo Milan e poi della sua Italia. Arrigo opta per il modulo più rigoroso in assoluto, il 4-4-2 classico dominante in Italia al momento della sua ascesa (in alternativa al 5-3-2) e ne fa una sorta di religione alla quale devono piegarsi tutte le altre religioni: anche se nel Milan Donadoni spesso ai accentra a formare quasi un rombo, nella sostanza il leggendario squadrone rossonero applica uno modulo meticoloso e rigorosissimo come lo sono le idee del suo geniale mentore. La squadra è un organismo che si muove in ossequio a una concezione “sinfonica” radicata nella cultura europea e, sotto molti aspetti, anche italiana. Il calcio di Arrigo, da ultimo, cerca molto la profondità e l’aggressione dello spazio, anche grazie allo straordinario bagaglio atletico dei suoi giocatori.

Il metodo di Sacchi, nonostante i suoi risultati straordinari, non era naturalmente scevro da punti deboli: quando affrontava collettivi ben organizzati e capaci di pressare in maniera vigorosa, il Milan a volte si trovava in difficoltà. Inoltre, quando la condizione fisica era meno brillante non riusciva ad esprimere al meglio il proprio gioco e questo ne penalizzava in parte la continuità in campionato.

La rivoluzione di Johan Cruijff

Johann Cruijff inizia ad allenare più o meno in contemporanea con Arrigo e quindi raggiunge l’apice nel corso dello stesso periodo, tra Ajax e Barcellona, le sue due patrie. La decisione di ajacidi e poi catalani di puntare su di lui è quasi un atto dovuto – difficile se non impossibile dirgli di no – e quindi è molto meno clamorosa di quella di Arrigo, perché Sacchi si forma sui campetti di periferia e solo verso i quarant’anni spicca il volo, e lo fa per meriti propri, mentre per Johann tutte le porte si spalancano subito. Anche lui inizia a seminare la propria visione delle cose vicino alla quarantina, quando ha appeso gli scarpini al chiodo da due/tre stagioni.

Se Arrigo ha dovuto fare i compiti a casa ed elaborare la propria concezione del calcio sincretica in solitudine, Johann è cresciuto all’ombra del maestro Rinus Michles, che gli ha lasciato tanti legati dal punto di vista tecnico, legati che il Profeta del Gol personalizza tuttavia subito e declina poi, durante la centrale esperienza catalana, in una chiave tutta sua, più latina rispetto a quella nordica di Michels. I riferimenti di Arrigo e Johann non sono quindi troppo distanti sul piano geografico e temporale: si parla sempre del calcio di Olanda e Belgio degli anni ’70, e forse proprio da questa comune ascendenza derivano le teorie che accostano i due maestri, qualificandoli come epigoni e interpreti della medesima scuola, cosa tuttavia vera solo in parte, come mi appresto a illustrare.

Tecnica

Anche nel caso di Cruijff, possiamo identificare alcune parole chiave, e la prima tra tutte è la parola tecnica. Per il tecnico olandese, la tecnica individuale è da studiare e curare fino all’ossessione (sotto questo profilo, la sua psicologia è profondamente sacchiana), con un lavoro meticoloso da intendere anche in chiave pedagogica. Tutti i giocatori in campo, secondo Cruijff, devono lavorare sulle proprie capacità tecniche e sulla gestione della palla, sia in chiave individuale che collettiva. Questo è essenziale perché il suo calcio possa esplicarsi nel modo migliore e a monte decide della stessa formazione e selezione dei giocatori, che devono essere compatibili con una simile visione delle cose.

Cruijff lavora a sua volta sul pressing, ma in maniera decisamente meno efficace di Arrigo (e cerca molto meno ossessivamente il fuorigioco), in quanto si dedica principalmente alla pars construens, e vuole controllare il gioco non tanto soffocando gli avversari, ma nascondendo loro il pallone: proprio per questo motivo, cerca e porta in Catalogna soprattutto giocatori che possano aiutarlo nel suo progetto. Ecco perché affida le chiavi della difesa e del gioco a un fuoriclasse come Ronald Koeman, cui chiede chiaramente di partecipare alla fase difensiva – Johann proclama che senza un’efficace fase difensiva si rischia di vanificare tutto il lavoro della squadra – ma soprattutto di dettare i tempi del gioco, di avanzare tra i centrocampisti, di azzardare qualche dribbling e di andare a concludere, cosa che Koeman farà splendidamente e con medie da attaccante.

Ecco che si spiega, inoltre, la scelta di schierare a volte Guardiola, colui che sarà sulla panchina il suo più grande epigono, da difensore centrale, con una decisione che Sacchi avrebbe probabilmente trovato incomprensibile e del tutto illogica – Guardiola non eccelleva nelle funzioni del difensore centrale.

Il calcio di Cruijff è pertanto anti-funzionale e votato alla ricerca del controllo tramite il dominio del pallone. Se Sacchi esige atleti straordinari, Cruijff predilige concentrarsi sul fattore tecnico, smentendo le convinzioni tutte italiche che associano la sua Olanda a un calcio votato all’agonismo: secondo Cruijff, infatti, non bisogna correre molto ma correre bene, evitare gli allunghi non indispensabili ed essere bravissimi nel gioco di prima. La posizione è essenziale perché a correre deve essere il pallone, e quindi il suo rimane un calcio molto organizzato, ma organizzato intorno ai principi più che alle funzioni.

Anche sul piano tattico, Cruijff rifiuta il 4-4-2 imperante in Europa a metà anni ’80 e sin dalla prima volta in cui entra nello spogliatoio del Barcellona, quando disegna sulla lavagna un 3-4-3 all’epoca del tutto inusuale, perché ritenuto troppo spregiudicato, specie considerando che i due difensori laterali sono due veri terzini di spinta con licenza di offendere e che il centromediano, impostato quasi da “libero”, è un regista – appunto, Ronald Koeman. Fondamentale, sul piano tattico, diventa il lavoro di Guardiola: giocatore dalla non comune visione periferica, soprannominato Pam da Kiko per la sua abilità nel gioco di prima, Pep scala in difesa quando Koeman avanza, lasciando così libertà di accentrarsi e di costruire la manovra anche ai due laterali (Sergi e Ferrer, nelle stagioni migliori), in una evidente premonizione del laterale di regia che vediamo spesso in campo oggi. Pep è anche il perno basso del “diamante” di Johann, ovvero del centrocampo disposto appunto come un diamante per favorire la rapida circolazione dalla palla.

Posizione

Il concetto chiave è quello di posizione fluida che non coincide con una funzione: Bakero nasce mediano ma agisce spesso come seconda punta, così come è capace di abbassarsi in difesa quando la squadra decide di adottare il 4-3-3 (cosa che avveniva più frequentemente di quanto non si pensi, tanto che molti autorevoli appassionati ritengono che il modulo fosse più un 4-3-3 a geometrie variabili che un vero 3-4-3), mentre Nadal, come dimostra anche la foto sotto riportata, si alza tra i centrocampisti, un po’ come avrebbe fatto Stones qualche decennio più tardi.

Bastano questi pochi esempi per capire che siamo distanti dal funzionalismo sacchiano, ben rappresentato dalle parole “il terzino faccia il terzino”. E, in effetti, nel suo Milan si ritrovano i ruoli classici del calcio italiano e una specifica distribuzione delle funzioni, appena intaccata dai giocatori olandesi, figli di una scuola diversa. Arrigo però vuole il libero (anche se “zonista”) e lo stopper, vuole due laterali classici, un regista e un mediano, due ali, un centravanti puro – da qui, il suo attrito con Marco van Basten, cresciuto nel calcio jazz di Cruijff e maturato nel calcio sinfonico e profondamente mitteleuropeo di Sacchi. La parola chiave, in tal senso, è ruolo: se il calcio di Cruijff si edifica sul parziale superamento del concetto di ruolo, quello di Arrigo è invece la sublimazione di tale concetto.

Laudrup è un altro enigma e un giocatore che nello scacchiere di Sacchi avrebbe trovato enormi difficoltà di collocamento: parte mezzala sinistra con licenza di attaccare, ma spesso finisce per giocare come nove di manovra, o come si sarebbe detto alcuni anni più tardi come falso nove. Hristo Stoičkov è un altro giocatore chiave privo di una precisa collocazione tattica, che gioca come punta esterna come ala o come rifinitore, e che però spesso è l’uomo più avanzato. Il rigoroso disegno di Johann è quindi a maglie larghe, larghissime, tanto da esaltare anche il principe dei malandri, Romário, che da nove piccolo, atipico e che non dà punti di riferimento in area disputa con Cruijff la stagione della vita. Quello di Johann, inoltre, è un calcio che cerca costantemente l’ampiezza, sia con i due laterali-fonti di gioco che con gli esterni, che nel 3-4-3 diventano essenziali nell’allargare il campo e poi nell’attaccare la porta, e anche in questo si differenzia dal calcio di Sacchi, più aggressivo e votato alla ricerca rapida della punta.

Il metodo di Johann, come quello di Arrigo, non era esente da limiti: quando i rischi non venivano calcolati bene, il rischio di subire rovesci diventava reale, e spesso il pressing non così efficace né coordinato era un’arma spuntata. Ciò non toglie che le sue squadre, e soprattutto il Barcellona, abbiano indicato la strada verso il nuovo Millennio e incarnato l’apoteosi sul piano tecnico e della manovra di squadra, esaltando allo stesso tempo giocatori tatticamente poco collocabili se non addirittura anarchici, in un’armonia che è paradossale solo dal nostro punto di vista.

L’impatto e il lascito delle loro idee

Non esiste credo un metodo migliore per vagliare l’impatto di due tecnici rivoluzionari, oltraggiosi e geniali che studiare l’evoluzione del calcio in cui hanno lavorato nei decenni successivi al loro ritiro.

L’Italia degli anni ’90 deve parte della sua egemonia europea ad Arrigo: Torino, Genoa, Cagliari, il Parma e poi anche e soprattutto la Juventus sono eredi del Milan dei fenomeni. Sul piano didattico, l’estremo rigore tattico di Sacchi ha influito relativamente su una scuola che già faceva di tale rigore la propria religione, semmai ne ha modificato l’atteggiamento e ha universalizzato strategie (il pressing di squadra) sino a quel momento neglette o comunque emarginate.

Sul piano pedagogico, purtroppo, credo invece che la lezione di Arrigo sia stata mal interpretata, favorendo la maturazione di atleti molto dotati (grandi e grossi) e polivalenti, che però di fatto si rivelano quasi sempre dei gregari di lusso: penso da ultimo ai Locatelli, Pellegrini, Zaniolo, solo per fare qualche esempio. Per Arrigo la tecnica non era un’ossessione (anzi, era forse la cosa meno importante in un giocatore) e questa lezione, riportata nel grembo del calcio italiano tradizionale e quindi privata della sua innovativa spinta sul piano organizzativo e dell’atteggiamento, ha contribuito a impoverire un vivaio in cui sono diventate essenziali le doti del gregario di lusso, non ultime la mole e le doti di corsa (ricordiamo tutti Giuseppe Rossi scartato perché troppo piccolo ed esile per giocare come punta in serie A?).

La scuola italiana delle ultime tre decadi, descritta alla perfezione da Niccolò Mello e Jo Araf fa qui, è il prodotto dell’impatto del sacchismo sulla tradizione del nostro paese, e a oggi si può dire che la sinergia tra le due filosofie non ha prodotto risultati troppo esaltanti sul piano della qualità individuale: il funzionalismo estremo e il rigore metodologico e tattico di sacchismo e scuola italica tradizionale hanno favorito per l’appunto la proliferazione di generazioni di gregari di lusso, con le felici eccezioni della porta (soprattutto) e della difesa, settori nei quali la nostra capacità pedagogica fortunatamente è rimasta e rimane un’eccellenza planetaria.

La scuola spagnola delle ultime decadi è invece la più felice propaggine del cruijffismo, esaltato da un Guardiola che è il massimo interprete e innovatore del pensiero del suo maestro e un altro profeta del cambiamento. La Spagna ha sfornato e sforna tuttora decine di giocatori tecnicamente eccezionali, e quando vince lo fa perché la regola aurea della tecnica come unico principio chiave le consente di superare gli avversari proprio sul piano della qualità individuale, armonizzata dentro un collettivo posizionale ben organizzato, in un disegno che dà la massima libertà all’estro dei singoli pur incorniciandolo in un principio di gioco preciso.

Se le sinfonie di Sacchi erano appunto profondamente europee, il calcio di Cruijff possiede invece un’essenza ibrida, che media tra l’approccio posizionale nordeuropeo e la libertà di fraseggio del jazz o delle scuole latinoamericane. Anche il cruijffismo ha le sue pecche: i grandi portieri sono pochi e giusto alcuni giorni fa la Spagna ha vinto un Europeo con difensori normali e senza una vera punta, perché ha puntato tutto, more solito, sulla tecnica individuale e di squadra, e quindi essenzialmente sul centrocampo. Non sempre tale impostazione ha funzionato, e anzi sia Barcellona che Spagna hanno subito in numerose occasioni lezioni di concretezza, cattiveria agonistica ed efficacia.

Il profondo solco che separa la nostra scuola, contaminata dal sacchismo, e quella spagnola forgiata sul cruijffismo si rivela in tutta la sua ampiezza anche quando andiamo a vedere quali giocatori si sono adattati meglio al loro calcio e quali al nostro calcio. Come dicevo, Arrigo mal sopportava i sudamericani non certo perché “razzista”, ma perché intelligente e consapevole della natura del proprio calcio, che esigeva giocatori estremamente funzionali e tatticamente avveduti. Nel Barcellona, al contrario, hanno trovato una seconda casa una marea di senza ruolo, e spesso la loro collocazione in campo ha lasciato interdetto persino un cruijffista convinto come me: nel 1999, ho visto un centrocampo a tre composto da Luis Enrique, un giovanissimo Xavi schierato centromediano (!?) e Rivaldo schierato mezzala sinistra, alle spalle di tre punte che erano dei tuttofare.

I sommi malandri anarchici Ronaldinho e Neymar sono un pezzo di storia blaugrana e il rigore posizionale del calcio catalano non solo non li ha penalizzati ma li ha esaltati. Con l’esclusione di Messi, io credo che tutti gli altri grandi dieci blaugrana sarebbero stati invece difficilmente compatibili con il calcio di Sacchi, e questo è sufficiente a mio parere a fotografare la distanza tra le due scuole e il loro impatto sul calcio del presente e del futuro. Significativa, infine, è anche la distanza che separa gli ammiratori di Arrigo da quelli di Johann: i primi sono molto spesso italianisti puri, rivendicano una concezione profondamente europea e “concretista” del calcio e non sono, in maggioranza, dei grandi ammiratori di Guardiola, ovvero dell’incarnazione moderna della filosofia di Cruijff.

Con il contributo di SAMUEL MAFFI

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