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Utopia ’74: l’Olanda di Michels e Cruijff e quella sconfitta che ha cambiato la storia

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Parlare dell’Olanda calcistica che nel ’74 perse la finale dei Mondiali in Germania contro i panzer padroni di casa mi provoca ancora un acuto dolore dopo quasi mezzo secolo. Io, è bene precisarlo, non ho alcuna particolare simpatia affettiva o di altra connotazione verso il mondo o le genti olandesi, e neppure ostilità ovviamente, ma la mia ammirazione verso quella nazionale orange scaturisce dal fatto che il modo di giocare di quella squadra sembrava incarnare alla perfezione e con la giusta ironica festosità i vivaci mutamenti socioculturali e di costume di quegli anni.

Cruijff e compagni avevano un modo di giocare profondamente innovativo e nello stesso tempo trasgressivo verso la già allora conclamata sacralità del Calcio, e il loro modo quasi poetico di trattare il pallone e di costruire le trame di gioco mostrava un’allegria scanzonata, quasi irriverente. Un’allegria molto diversa da quella brasiliana che è sempre stata legata alla tradizione e alla idolatria del gioco e che, essendo dovuta in sostanza alla certezza di essere superiori, si sbriciola nella sua fragilità producendo dramma e tragedia perfino cruenta nella sconfitta.

Se poi vogliamo accettare, e io sono tra questi, il ’68 come anno spartiacque per il modo di vivere e di pensare di miliardi di persone nel mondo, dobbiamo necessariamente ammettere che i primi anni settanta, vero e proprio ‘dopoguerra’ in senso socioculturale, sono stati anni decisivi per capire da che parte sarebbe andata l’umanità dominante. E pure quella dominata. Dopo gli anni del fermento quindi, ecco gli anni dei frutti, ecco la prova dei fatti e l’inevitabile scontro con i timori, le resistenze ancorate, la paura del nuovo e, soprattutto, la difesa di privilegi. L’Olanda di Rinus Michels, nel microcosmo calcistico, incarnava perfettamente in quegli anni la spinta innovativa e ribelle, la ricerca di strade nuove ma sorrette da consapevolezza e cultura, la sperimentazione che sposta visuale e angolazione e, in buona sostanza, il superamento dei vecchi concetti e stereotipi.

Una precisazione doverosa, che ci verrà utile per capire perfino il fallimento della rivoluzione calcistica, riguarda proprio il fenomeno storico del 68 a livello planetario. Per comodità, succedaneo ben accetto della pigrizia mentale, si è portati a pensare che tutte le rivoluzioni semantiche, dalla liberazione dei costumi alla rivendicazione della giustizia, dalla musica al cinema, dal teatro alle richieste scolastiche di studio e di ricerca, dalla libertà sessuale alla messa in discussione di vecchie gerarchie e privilegi, si siano svolte e abbiano preso fuoco in quell’anno. Ma non è così, o almeno non è solo così. È vero che il ’68, almeno quello europeo, è stato l’anno della mobilitazione di massa giovanile, ma è anche vero che molte delle spinte in ogni ambito di quelli che abbiamo elencati erano nati e in essere da diverso tempo. Alcuni, specie in ambito artistico, addirittura nel decennio precedente, negli anni cinquanta.

E se a tutto ciò si aggiunge il fatto che a fare da miccia, da detonatore o forse anche da bottiglia Molotov di questo vasto movimento è stato il rifiuto, l’opporsi anche fisicamente alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, l’ennesima di ricchi contro poveri, ecco che il quadro del 68 appare, ancora oggi, in tutta la sua connotazione carica di mille possibili esplosioni. Dinamiche, sociali, creative, politiche, psichedeliche. Quell’anno fatidico cambia le connotazioni del mondo non tanto per gli avvenimenti che stavano accadendo, quanto perché mutano improvvisamente i canoni: ciò che era vietato diventa ammesso, possibile e la curiosità che tutto ciò suscita alimenta in modo progressivamente rapido e quasi inarrestabile l’esplorazione del proibito, del nascosto, del segreto. E, in ultimo, visto che a questi nuovi tesori viene consentito l’accesso anche alle classi subalterne e fino ad allora escluse dalla cultura, ecco che il prodotto di queste impensabili vicinanze produce un’accelerazione di idee e costumi praticamente mai vista prima.

Dopo il 68, accadono quindi mille e mille cose difformi in tutto il pianeta e in ogni campo dello scibile. E i primi anni settanta, lo abbiamo già ricordato, sono gli anni decisivi del riposizionamento e della possibile restaurazione. I segnali avversi per chi come me sognava la rivoluzione e il cambiamento erano molteplici. Il 1969 in Italia, per esempio, fu particolarmente cruento inaugurando quella che con il senno di poi avremmo chiamato la ‘Strategia della tensione’, ma che allora centrava perfettamente l’obiettivo di spaventare la gente e orientarla verso un atteggiamento ostile nei confronti di ogni movimento giovanile, di ogni apertura al ‘nuovo’.

Nel mondo del calcio, in quegli anni sorgeva lo scanzonato modo di giocare dell’Ajax, una squadra di scapigliati anarchici di tattica ma di tecnica funambolica capace, sotto la guida di Rinus Michels in panca e di Johan Cruijff in campo, di ubriacare ogni avversario. Proprio nel 1969, il primo segnale della poca robustezza di questo movimento innovativo fu decretato dalla sconfitta degli ‘arcieri’ di Amsterdam per mano del Milan di Nereo Rocco, nella finale di Madrid. 4-1 per i rossoneri di Rivera e Prati, come a dire: per ora comandiamo noi senatori, noi matusa, per voi giovani c’è tempo… E il tempo infatti c’è, passa e in qualche modo rende giustizia. Vedere giocare quell’Ajax, anche con la maglia orange della Nazionale e con l’innesto di altri due zingari geni del pallone come Van Hanegem (dell’odiato Feyenoord) e Rensenbrink, era un piacere per gli occhi e per lo spirito. Pressing, velocità di passaggio, imprevedibilità nei movimenti e nelle conclusioni, apparente anarchia nella disposizione in campo erano alcuni degli ingredienti di quella goduria con i tacchetti.

Una novità che non avevo mai visto e che mi sorprese per la sua genialità era il passaggio indietro, non in fase difensiva come era consueto fino ad allora, ma proprio in fase di costruzione e di rifinitura. Gli avversari, e anche noi spettatori, restavamo stupiti, spiazzati e sul campo risucchiati da questa mossa assolutamente imprevista. Era il cosiddetto ‘calcio totale’, dove i giocatori sapevano fare tutto e che si scambiavano i ruoli disorientando chi li affrontava. Michels inventava il gioco, così come Helenio Herrera, un altro genio innovatore ma di tutt’altra epoca, aveva inventato o comunque portato alla piena maturazione ruoli e concetti che prima di allora avevano una forma diversa: ala tornante, mediano di spinta, terzino fluidificante, trequartista, tanto per citarne alcuni. Prima di questi visionari, ruoli ne calcio erano undici con qualsiasi modo si giocasse, esattamente come i giocatori in campo. Da allora, restando fermo il numero dei calciatori, i ruoli possibili adesso sono 25 o 30 e quasi tutto dipende dal modulo adottato. Paradossalmente, oggi molti atleti del pallone (specie in Italia) sono molto poco duttili, riversato in positivo si dicono ‘specializzati’, ed è raro, per esempio, trovare un centrale di difesa in grado di essere efficace sia nel modulo a tre che a quattro. Detto ciò, Rinus Michels stava scardinando ogni convenzione. Come Luciano Berio, come Philip Glass, come Jerzy Grotowski, come Luis Bunuel.

Il rivoluzionario musicista Luciano Berio

Ma poi arrivò, il 7 luglio del ’74, quella terribile partita. Fu una sentenza. Tanto inaspettata per i valori in campo e per l’avvio della gara, quanto attesa come un sospiro di sollievo per l’ordine delle cose, per il buonsenso, per la misura, per la Buona Pace del Mondo. Per quella mediocrità che già, forse, aveva ricominciato a vincere ma che, dopo quella serata, ha ricominciato anche a pianificare il futuro e ancora lo sta facendo. Già da qualche tempo, i tentacoli di quell’entità astratta ma estremamente concreta che a volte chiamiamo Potere, Sistema, altre Ordine Costituito, altre ancora Buon Senso o Senso Comune, e che in ogni caso serve a non cambiare proprietario alle redini di comando, si erano avvinghiati attorno a tutto ciò che di nuovo e interessante si era presentato sulla scena. La capacità straordinaria di quelle protuberanze perfino suadenti è sempre stata quella di stritolare i contenuti dei catturati, depotenziandoli, e di restituire la forma, ancora più attraente e funzionale al sistema o al Mercato. Anche quella volta, soprattutto quella volta, fu così.

Curiosamente, pure nel calcio sarebbe avvenuta la stessa cosa. Depotenziata e integrata nel Sistema, appunto, l’Olanda, e dispersi nel giro di soldi sonanti i suoi profeti e i suoi zingari capelloni, si sarebbe continuato a celebrarla nella forma molto più che nella sostanza. Tanto più che quattro anni dopo gli orange giunsero ancora in finale, persa ancora una volta al cospetto dei padroni di casa, l’Argentina. E ancora più curiosamente, chiudendo il cerchio nella classica formula tentacolare del Sistema, l’eredità di quella leggendaria compagine di Germania ’74 sarebbe stata raccolta da quello che, a mio avviso, ha gettato solo fumo negli occhi nel calcio moderno: Arrigo Sacchi. Quello che guidava le squadre ricche per battere quelle povere, quello che, utilizzando tre pronipoti dei Cruijff e dei Neeskens, amava mettere gli avversari in fuorigioco, quello che si lamentava che le provinciali andassero a San Siro chiuse in difesa e le accusava (lui!!) di antisportività. Ma lasciamo perdere il tecnico romagnolo ricordando però come anche lui, non a caso berlusconiano fin dalle origini, abbia agito nei confronti degli olandesi come il Potere di cui si diceva: svuotando cioè la sostanza di quel gioco e utilizzando quella forma, quegli attori per combatterne lo spirito originale.

Mi avvio alla conclusione ed è tempo, ahimè, di tornare a quel fatidico 7 luglio 1974 a Monaco di Baviera. La strabordante bellezza del gioco olandese durò quasi due minuti, il periodo nel quale Krol e compagni tennero il pallone, fin dal calcio d’avvio, senza che i tedeschi riuscissero a strapparglielo. Ci volle un fallo in area su Crujiff lanciato a rete per stopparli. Neeskens realizzò il conseguente logico calcio di rigore e al 2’ i tulipani erano già avanti 1-0 sui teutonici padroni di casa. In quel momento, per me, era finita la Storia del Calcio e anche la Storia dell’Utopia, non solo calcistica. Come la cronaca inappellabile riporta, la Germania Ovest vinse il Mondiale e quella partita 2-1 e così mi espressi qualche anno fa, sollecitato sull’argomento:

Fu la più clamorosa sconfitta della logica di tutti i tempi e fu la fine della bellezza del mondo. Quella squadra arancione era poesia: era Cuba, era Woodstock, era erba buona e fantasia al potere, era il ’68 del calcio, era genio musicale, era avanguardia e sembrava inarrivabile e incorruttibile, era sberleffo e magia, disegno sublime e armonia gioiosa, era libertà e rifiuto del potere, sassofono e violino, sesso e godimento, senza retropensieri e colpi di senso di colpa. Piansi al fischio finale perché la nave era affondata e il sole caduto, piansi perché ebbi la sensazione e la premonizione che a un centimetro dal cielo l’ala si era sciolta e che un’ingiustizia, resa giusta da regole e punteggi, avrebbe sempre prevalso su tutto e su tutti noi, senza scampo. Avevano perso Bunuel e i Pink Floyd, i pellerossa di nuovo e Pasolini e alzavano la Coppa del Mondo il generale Custer e la Curia, Krupp e la noia. La vittoria tedesca era e sapeva di restaurazione, di fine del sogno libertario, di fantasia in Serie B. E così fu. Ma vi siete mai accorti che dopo quella sconfitta dell’Olanda il mondo non è più stato lo stesso?

E qui, finalmente, rispondo alla domanda che mi è stata posta: Sarebbe cambiato il Mondo se quella gara l’avesse vinta l’Olanda? Rispondo in due punti.

Avessero vinto gli olandesi nel ’74, il Mondo ci avrebbe messo molto più tempo e fatto molti più sforzi per riequilibrarsi dopo la botta del ’68. Se pensiamo alla portata di quegli sforzi, dal momento che quelli che conosco, il 6 politico depauperando l’istruzione e l’immissione in massa di sostanze psicotrope, forse ci è andata anche bene…

L’esito di quella sfida non ha fatto altro che decretare in modo non più discutibile la sconfitta di quelli che già si stavano arrendendo e che, ormai alla frutta nella cena utopica, forse giustamente ubriachi, avevano affidato al Calcio il rovesciamento delle sorti.

GIUSEPPE RASPANTI

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