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Max Allegri, il corto muso e i giochisti

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Si è chiuso in modo amaro, in una notte dolce per la Juventus, il secondo ciclo di Massimiliano Allegri sulla panchina del club bianconero.
Un triste finale che però non può cancellare quanto di buono e bello è stato fatto e raggiunto nelle 8 stagioni vissute dal tecnico livornese a Torino. Un lungo viaggio iniziato il 16 luglio 2014 all’indomani dell’inattesa fine del triennio vincente di Antonio Conte che se ne andava alla ricerca di un ristorante d’élite.

Allegri viene accolto alla Continassa in modo tiepido, tra lo scetticismo di molti. Un inizio in salita, quindi, ma quella Juve aveva una difesa – Buffon e la ‘BBC’ Bonucci, Barzagli e Chiellini – ed un centrocampo – Pirlo, Vidal, Pogba e Marchisio – solidissimi e davanti, accanto ad Alvaro Morata, poteva contare sulla ‘garra’ di un certo Carlos Tévez, una rosa completa in ogni reparto. Il quarto scudetto arriva così senza troppe difficoltà e a quello si aggiunge un Coppa Italia, che in casa Juve manca da ben 20 anni, e una finale di Champions League poi persa con il Barcellona di Lionel Messi ma con un risultato bugiardo e a cui i bianconeri arrivano battendo il Real Madrid di Cristiano Ronaldo.

Le successive quattro stagioni – con tanti nuovi campioni come Dybala, Mandzukic, Vidal, Higuain, Dani Alves e altri – aggiungono altri 4 scudetti e 3 Coppe Italia e 2 Supercoppe e una nuova amara sconfitta a Cardiff nel 2017, in finale di Champions, questa volta in modo netto per mano del Real Madrid, dopo aver fatto fuori il Barcellona nei quarti.

L’assenza di un successo in Champions è certamente l’aspetto che colloca Allegri un gradino sotto a Giovanni Trapattoni e Marcello Lippi nella hall of fame dei mister bianconeri più vincenti di sempre. Il primo ciclo Allegri si chiude con una sconfitta nuovamente in Champions, questa volta ai quarti contro l’Ajax. Aggravante, questa volta, l’averla disputata con CR7 – acquistato dalla Juve proprio per raggiungere la ‘coppa dalle grandi orecchie’ – tra le proprie fila. Il mister, fortemente voluto da Andrea Agnelli, dopo 5 stagioni lascia con tanto di conferenza stampa e maglia celebrativa. Un bell’addio.

La società, su tutti Nedved e Paratici, è alla ricerca di altro e l’eccessivo difensivismo, marchio di fabbrica del calcio all’italiana, viene così accantonato alla ricerca di un gioco più spumeggiante ed in grado di unire ai risultati lo spettacolo. Sembra di rivivere una pagina di storia bianconera di alcuni decenni precedenti, quando a inizi anni ’90, a guidare la Juve, era stato chiamato Gigi Maifredi, il ‘profeta del calcio champagne’. Un’esperienza disastrosa durata l’arco di una stagione, e costata alla Signora l’esclusione dalle coppe dopo 28 anni di partecipazioni continue.

La rivoluzione questa volta porta in bianconero Maurizio Sarri prima e Andrea Pirlo poi. Ma il carattere del primo, decisamente ruvido e non in linea con lo stile e l’ambiente Juve, ed un eccesso​ di impazienza nei confronti del secondo, complicano i piani. Il bel gioco non arriva e la nostalgia canaglia spinge Andrea Agnelli, dopo due stagioni sabbatiche, a richiamare Allegri in bianconero.

Il secondo ciclo però non si apre mai. Svariati sono i motivi. Un po’di ruggine accumulata dal mister nei due anni di stop, le complicazioni di bilancio dovute alla pandemia, l’addio di Cristiano Ronaldo, l’infelice decisione di riprendere Pogba – prima infortunato e poi squalificato e quindi mai arruolabile -, quindi la tempesta plusvalenze con le dimissioni dell’intero gruppo dirigente fino alle difficoltà dell’ultima stagione sono le molteplici difficoltà che hanno scortato Allegri sino all’epilogo finale con esonero, senza neppure un ‘grazie’ nel comunicato stampa, che ha sancito la fine della lunga storia con la Signora.

Questa la cronaca, alla quale va aggiunto il duro scontro tra i favorevoli ad Allegri ed i contrari – gli Allegriout – che hanno osteggiato il mister sino alla fine.
L’assenza di risultati del secondo ciclo – la Coppa Italia è arrivata sui titoli di coda – ha riaperto l’eterno dibattito tra i ‘risultatisti’ ed i ‘giochisti’. I primi, guardano in modo pragmatico al risultato e si aggrappano nelle loro argomentazioni al claim di casa Juve, firmato Giampiero Boniperti: “Vincere non è importante è l’unica cosa che conta”. Per questi, il risultato viene prima del gioco ed è proprio del Dna Juve.

L’altra parte della tifoseria non ci sta e, desiderosa di provare a vincere con lo spettacolo, invoca un’apertura al gioco ed un’impostazione più votata ad offendere che a difendere. Allegri è stato per i giochisti, l’emblema del non-gioco, l’allenatore livornese ed il suo calcio difensivista, all’italiana, è stato considerato superato e fuori tempo. Il confronto tra queste due differenti visioni è sicuramente intrigante, stimolante ed infinito.

Il gioco proposto da Allegri è certamente un calcio all’italiana che ha prodotto risultati quando la rosa a sua disposizione – sicuramente nel primo ciclo – era completa in ogni reparto e poteva contare su uomini dotati di tecnica ed esperienza a differenza di quella delle ultime stagioni. D’altra parte che un calcio più spettacolare sia in automatico il lasciapassare per il successo non è sempre detto. La storia del calcio dalla Grande Ungheria di Puskás all’Olanda di Cruijff fino al Brasile di Telê Santana dell’82 è piena di esempi di squadre a cui non mancava il talento, che hanno espresso un calcio delizioso ed innovativo che però hanno raccolto meno di quanto pensato e meritato.

Lo stesso Carlo Ancelotti, che guida un Real Madrid tornato Galactico, non si vergogna, all’occorrenza, di lasciare il possesso palla all’avversario e di giocare di rimessa, e i risultati gli danno ampiamente ragione. Il nuovo corso Juve proverà là dove è riuscito Marcello Lippi, a vincere e convincere. Ma occorrono anche i fuoriclasse. E anche con quelli, le sconfitte e le cocenti delusioni, le finali di Champions perse lo dimostrano, a volte arrivano.

La celebre sfuriata di Allegri dopo la vittoria della Coppa Italia

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