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Giochisti e resultadisti, tra principi di calcio e luoghi comuni

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Ci è capitato più volte, in ambienti diversi, di leggere frasi come “i soldatini di Guardiola“, pronunciate sempre con un certo disprezzo, frasi che sottintendono un’idea piuttosto chiara: Guardiola, per bravo che sia, ha l’enorme difetto di “schematizzare troppo” l’organizzazione della squadra, improntandola a un rigore quasi metafisico che vincola i singoli all’osservanza di compiti specifici, e questo a detrimento della “fantasia”, della “libertà”, della possibilità di “improvvisare”. Le critiche rivolte al tecnico spagnolo si estendono a tutto un emisfero del football, quello denominato come “giochista”, con un brutto ma efficace neologismo. I “giochisti”, quindi, pur non non rinunciare ai propri principi base, sarebbero una sorta di orda di fanatici per i quali “lo schema” (qualunque cosa si intenda per “schema”) verrebbe prima dei giocatori, e questa forma di ortodossia sarebbe una delle cause del “declino della fantasia” nel calcio moderno.

Per par condicio, osserviamo che la seconda metà del cielo, quella votata al cosiddetto resultadismo, termine che mutuiamo dall’Argentina degli anni ’60 e ’70, viene spesso accusata dai veri o presunti giochisti non solo di proporre un calcio rinunciatario ed esteticamente povero, ma anche di non organizzare i giocatori al meglio, di essere troppo entropico, di non valorizzare i singoli puntando il focus sulla loro dimensione associativa, sulla loro capacità di giocare insieme.

Noi crediamo che entrambe le posizioni siano il frutto di un malinteso gigantesco, al quale vorremmo in qualche modo porre rimedio.

Prendiamo spunto dalle parole pronunciate da Buffon durante un’intervista che risale ad alcuni mesi fa: Gigi, nel ricordare con rammarico l’esperienza di Parigi (“il più grande rimpianto della mia vita“), rappresentava non solo che il livello tecnico ammirato a Parigi era degno della stratosfera del calcio, ma anche che Tuchel aveva un approccio molto diverso da Allegri, quando si trattava di organizzare la squadra. Tuchel (elogiato come un uomo molto intelligente ed empatico) lavorava benissimo sulla costruzione della manovra e sui singoli (“Il mio compito è esaltare Mbappé e fare in modo che Neymar sia felice“), ma trascurava aspetti del gioco che erano invece il pilastro della filosofia di Max Allegri.

Tuchel e Buffon al PSG

Con poche parole, Buffon ha smentito molti dei luoghi comuni che circolano nelle discussioni sportive: dicendo che “all’estero di tattica se ne fa poca“, Buffon ha sgombrato il panorama argomentativo da molti malintesi, evidenziando che per Allegri lo studio accurato delle marcature difensive, dei meccanismi/automatismi del reparto arretrato, delle distanze tra i reparti, e soprattutto delle palle inattive, sono il cuore della didattica, il compito fondamentale dell’allenatore, mentre Tuchel dava molta più importanza ad altri aspetti del gioco. In sintesi, in ogni caso, il concetto era chiaro e del resto non rappresentava una novità: le nostre squadre sono in media organizzate meglio e in maniera molto più accurata di quelle straniere.

Si tratta di tendenze di fondo, non di dogmi, ovviamente, ma la tendenza di fondo è innegabile e trova molte conferme: Tacchinardi, durante la felice esperienza al Villareal, ha dichiarato che Riquelme avrebbe potuto fare bene solo in Spagna, nel nostro continente, in quanto “Se sei un cane che non ha mai avuto il guinzaglio non puoi indossarlo dopo vent’anni“, alludendo al fatto che il nostro bagaglio di conoscenze tattiche sia di gran lunga superiore a quello spagnolo e si traduca però in una serie di vincoli e compiti specifici cui è molto difficile adattarsi, in età adulta, per chi è figlio di una scuola molto diversa.

Falsi miti

Alla luce di quanto sopra, come si spiegano i consolidati luoghi comuni che dominano le animate discussioni tra appassionati di football, ovvero l’idea per cui il calcio che sfocia nel guardiolismo – e che comprende in realtà molte galassie tra loro eterogenee – sia estremamente rigoroso, eccessivamente sofisticato e “astratto”, mentre il nostro calcio, quello figlio della tradizione italiana, sia molto più “pane e salame”, artigianale, idoneo a esaltare la “fantasia” e le doti individuali, ma anche rusticano ed esteticamente “povero”?

Io credo che questa erronea prospettiva sia il prodotto di due convinzioni che fanno parte del nostro patrimonio culturale e che condizionano pesantemente la nostra visione dello sport.

Da un lato, siamo fuorviati dal cosiddetto calcio posizionale, che raramente ha fatto breccia nel nostro cuore e che raramente abbiamo compreso nella sua essenza.

Vedere i giocatori che assumono una chiara posizione in campo, tendendo ad allargarlo e disporsi a scacchiera, in maniera almeno in partenza molto rigorosa, induce molti appassionati a credere che quel tipo di calcio sia molto, anzi troppo organizzato, e che vincoli i singoli.

Si tratta di considerazioni opache a due evidenze: sul piano della strategia difensiva, spesso il calcio posizionale (e a maggior ragione quello tecnico e aposizionale dei sudamericani) è meno efficace del nostro; abbiamo spesso la sensazione, osservando anche il miglior Barcellona, che la sua difesa non sia posizionata “bene”, che manchi sempre qualcosa in fase di contenimento, che gli avversari dispongano di troppi spazi, e questo perché non rivediamo nella squadra blaugrana la stessa meticolosa struttura di contenimento delle nostre squadre, anche di quelle meno forti. In sintesi, contraddicendoci, stiamo rimproverando al giochismo di non essere sufficientemente strutturato, quindi una mancanza di organizzazione.

E questo rimprovero diventa una severa predica quando ci accorgiamo delle lacune tattiche di molte squadre sudamericane, che anche per questo motivo tendiamo a snobbare (“in Brasile non difendono“, e in realtà stiamo dicendo “non difendono organizzati bene come lo siamo noi“). Pensiamo alle parole di Brera sull’Olanda del 1974: Giùan, sempre un po’ polemico ma estremamente lucido e poco incline a salire sui carri vincenti, prima della finale di Monaco di Baviera e dopo l’epocale passaggio di consegne di Olanda-Brasile evidenzia che l’Arancia Meccanica non si difende in maniera adeguata, e che sarebbe bastato “il nostro Clerici, senza scomodare Pelé e Garrincha” a punire le gravi lacune e disattenzione organizzative degli orange. Proviamo a sintetizzare il concetto: il calcio posizionale è una griglia disegnata in maniera molto precisa dai suoi ideatori, vuole occupare in maniera razionale e studiata lo spazio, ma sembra poi essere deficitaria in fase di contenimento, il suo assetto non ci convince praticamente mai quando rischia di subire ripartenze a campo aperto.

Gianni Brera, grande difensore del calcio all’italiana

Il ruolo dei singoli

Ed ecco la seconda evidenza: nella galassia “giochista” si sono ambientati a meraviglia e hanno reso al meglio giocatori “anarchici”, quasi senza ruolo e che non fanno certo di una funzione specifica il loro punto di forza: non solo Cruijff, van Basten, i vari brasiliani ammirati in Messico 53 anni fa o anche in molte delle formazioni viste in campo nei decenni successivi, ma anche e soprattutto, nell’epicentro del giochismo come sintesi della scuola europea e latina (Barcellona), giocatori come Michael Laudrup, Hristo Stoičkov, Romario, Rivaldo, Ronaldinho, Neymar e io direi persino sua Maestà La Pulce, Messi. Vi sfidiamo a definire con un ruolo questi giocatori: si tratta di ibridi sui generis spesso di difficile collocazione in una rigorosa griglia tattica, e che proprio per questo si sono trovati a meraviglia nel calcio blaugrana/ajacide, che noi paradossalmente tacciamo di essere “troppo rigido”, poco incline a esaltare la fantasia etc… e lo facciamo perché confondiamo l’assetto posizionale con una rigida organizzazione.

La seconda convinzione è figlia della nostra visione specialistica del calcio, di cui abbiamo già parlato più volte: le nostre grandi individualità (da Pirlo a Rivera, da Baggio a Totti) sono IL Grande Singolo attorno al quale viene costruita la squadra, il grande talento cui viene concessa estrema libertà, ma per il resto pretendiamo una implacabile organizzazione, perché la distinzione tra stelle e gregari è parte del nostro patrimonio genetico. Sette asini che corrono, un macellaio in difesa, un genio a centrocampo, diceva Rocco, e la sua mirabile sintesi spazza via ogni congettura sulla “libertà” del calcio all’italiana, contrapposta al “rigore” del giochismo: la libertà viene concessa solo alla stella che se l’è guadagnata con le sue qualità naturali, ma la forza della squadra sta tutta nella sua composizione precisa e ordinata.

Lo stile italico

Organizzazione non significa calcio posizionale, ma, appunto, un assetto preciso, la distribuzione precisa dei compiti, una lettura attenta e puntigliosa dei spazi e dell’avversario: in questo noi siamo maestri insuperabili e i grandi eredi della tradizione italianista, su tutti oggi Massimilano Allegri, ma anche Simone Inzaghi, sono dei maghi proprio nella costruzione di una strategia difensiva estremamente meticolosa e in grado di imbrigliare gli avversari. La difesa a tre dove si esaltano i gregari Gatti e Darmian è il frutto di un grande e laborioso processo di costruzione, e non è certo figlia del “caso”, della “libertà”, di un calcio poco studiato: a nostro parere è vero l’esatto contrario, non c’è nulla di più studiato e costruito del nostro calcio.

Proprio lo specialismo che ci connota da sempre ci rende indigeste le formule che tendono a parificare i giocatori, a non distribuire le funzioni in maniera chiara: e quindi Xavi è un “regista di sistema” perché nella sua squadra tutti palleggiano e si trovano in una posizione specifica, quindi un regista diventa quasi inutile; che senso ha, poi, schierare come numero nove un giocatore che non lo è affatto (Michael Laudrup)? Che senso ha mettere in campo più giocatori senza ruolo (per noi può essercene uno, il più bravo, il Roberto Baggio di turno) per poi avere la coperta corta quando gli altri ci rubano il pallone e ripartono?

Sono domande implicite nel diffuso disprezzo per un certo tipo di calcio, ma che rivelano qual è la reale fonte da cui scaturisce questa scarsa ammirazione: la disorganizzazione. E aggiungo la carenza di fisicità: Allegri adora giocatori come Pogba e apprezza i Rabiot perché fanno ciò che secondo lui deve fare un centrocampista, ovvero dominare sul piano agonistico e “fare legna”. Un centrocampo molto tecnico non è garanzia di successo, anzi, spesso essere leggerini e poco inclini alla fase difensiva ti rende fragile sul piano difensivo e compromette la solidità della tua struttura, ecco perché un allenatore “pratico”, come si dice con una sfumatura elogiativa, preferisce “gente di sostanza”: la gente di sostanza ti dà molte più garanzie sul piano agonistico e della tenuta strutturale.

L’esperienza argentina

Tutte le possibilità concesse dal gioco venivano previste e preparate in allenamento. I calci d’angolo, le punizioni, le rimesse in gioco, tutto veniva utilizzato a nostro vantaggio nel migliore dei modi

Carlos Bilardo parlando di Osvaldo Zubeldía

Non vanno dunque sottovalutata affatto, nel caso di un calcio come quello di Allegri, le componenti di studio e analisi. Che sono molto approfondite, ma anche molto diverse da quelle di un Guardiola e degli allenatori che vogliono arrivare al risultato attraverso il gioco. Mentre questi ultimi scommettono forte sulla coralità di manovra, sul possesso palla, sull’occupazione del tempo e dello spazio, sulla qualità di palleggio – e allenano i giocatori partendo da questo punto, cercando di inculcare loro un’idea e una visione d’insieme – agli Allegri di turno tutto ciò interessa molto relativamente. I loro allenamenti sono molto orientati sui dettagli, sui particolari, sul ripetere in modo anche ossessivo certi schemi utili per arrivare al gol: non è un caso che la Juve segni sovente su corner o calci di punizione, perché Allegri lavora moltissimo sulla cura e i movimenti nei calci piazzati. Per lui, e per tutti quelli come lui, la vittoria non passa attraverso l’insieme, ma l’episodio. È una scelta voluta, non casuale.

Da questo punto di vista, la parola che abbiamo utilizzato all’inizio del pezzo (resultadismo) suona più che mai azzeccata. Il calcio che emerse in Argentina dopo il flop del Mondiale ’58 (il cosiddetto Maracanaço argentino, esemplificato dal terribile 1-6 subito contro la Cecoslovacchia nel girone) metteva da parte i principi del bel gioco della Nuestra e perseguiva uno stile di gioco totalmente opposto. Uno stile fatto di cattiveria agonistica, garra, solidità difensiva, poche individualità al servizio del bene comune, pragmatismo. Un calcio duro e maschio del quale ne fecero le spese anche le formazioni europee nelle finali Intercontinentali (dal Milan al Celtic Glasgow, fino al Manchester United).

Ma quel calcio non era solo “picchiare selvaggiamente gli avversari e stop”. Si basava anche sulla cura maniacale dei dettagli, e da questo punto di vista era molto simile al tipo di calcio proposto da Allegri alla Juventus. Dal Boca dei primi anni ’60 a quello di metà-fine anni ’70, dall’Independiente di metà anni ’60 all’Estudiantes di fine anni ’60 e in parte all’Independiente dei primi anni ’70, il canovaccio del fútbol albiceleste era pressoché identico.

E viene spiegato anche da uno dei grandi protagonisti di quelle squadre, l’ala mancina Juan Ramon Verón, forse l’unico elemento di caratura internazionale dell’Estudiantes (3 Libertadores e l’Intercontinentale 1968 a corredo) che a proposito della metodologia dell’allenatore Osvaldo Zubeldía disse: «Zubeldía era un uomo molto semplice e il lavoro era la cosa più importante per lui. Gli piaceva molto insegnare, passare parecchio tempo con i suoi giocatori e lavorare con loro. Quando venne nella nostra squadra si fece accompagnare da Argentino Geronazzo, un preparatore atletico che invece era decisamente folle e non rimaneva mai a lungo in una squadra perché finiva sempre con il litigare con qualcuno. Ma quando entrambi arrivarono all’Estudiantes avevano in mente un piano molto preciso, e sapevano perfettamente quello che volevano fare. Venne introdotto un periodo di preparazione al campionato, evento che negli anni precedenti non esisteva proprio. Gli allenatori iniziarono a dedicare tempo e risorse nell’allenamento giornaliero, che prima di allora non faceva parte della nostra routine. Quando Zubeldía arrivò da noi, un’altra novità fu rappresentata dal cercare di concentrarci, tutti noi giocatori, sulla partita che avremmo dovuto affrontare già il giorno prima. E vivevamo al campo di allenamento. Imparavamo tutto sulle tattiche di gioco alla lavagna e poi cercavamo di metterle in pratica sul campo».

Aggiunse Carlos Bilardo, centromediano di quell’Estudiantes e futuro Ct campione del mondo nel 1986: «Tutte le possibilità concesse dal gioco venivano previste e preparate in allenamento. I calci d’angolo, le punizioni, le rimesse in gioco, tutto veniva utilizzato a nostro vantaggio nel migliore dei modi, e devo confessare che ci avvalevamo di alcuni segni segreti e di un linguaggio particolare per confondere i nostri avversari in campo».

Concetti rimarcati su El Gráfico anche dal giornalista Jorge Ventura: «Il calcio dell’Estudiantes viene elaborato nel corso di una settimana d’intenso lavoro in laboratorio, e il settimo gioco esplode con una tale efficacia da consacrare la storia delle posizioni. Perché l’Estudiantes continua a produrre punti proprio come produce calcio: più con il lavoro che con il talento dei suoi giocatori».

Sono frasi che sembrano calzare a pennello anche per il gioco di Allegri e in generale del calcio all’italiana, a conferma che nessuna nazione è un’isola e le commistioni tra le varie scuole sono all’ordine del giorno in tutto il mondo. Sia sul fronte dei giochisti sia quello dei resultadisti.

Articolo a cura di FRANCESCO BUFFOLI e NICCOLÒ MELLO

Zubeldía a colloquio con i suoi giocatori

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