Immagine di copertina: Lothar Matthäus, Jürgen Klinsmann e Andreas Brehme, pilastri dell’Inter
Il rapporto che c’è stato negli anni tra l’Inter e i giocatori tedeschi, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso è stato costante ma piuttosto raro. Potremmo definirlo perlopiù prudenziale e imparagonabile, per esempio a ciò che riguarda quello con i giocatori argentini. A fronte dei dieci teutonici degli ultimi settant’anni, anche un po’ meno, contiamo ben cinquanta gauchos o anche, per esempio, quarantaquattro brasiliani. È vero che, storicamente, il calcio italiano ha sempre guardato con maggiore attenzione le bancarelle sudamericane di quelle europee al mercato pedatorio e il biscione non costituisce certo un’eccezione in questo senso.
Da Szymaniak a Bisseck, la società nerazzurra ha pescato nel calcio di Germania cum granu salis e certamente non sempre benissimo, anche se, forse un po’ perfino paradossalmente, c’è stata nella storia addirittura una ’Inter tedesca’. Fu quella a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, una squadra che sembrava destinata a incidere parecchio nei campionati nostrani come in Europa e che invece si sciolse come neve al sole tra equivoci tattici e quelle polemiche interne, immancabili nel mondo nerazzurro.
Contestualizzando in chiave storica e teutonica, Giovanni Trapattoni, già giocatore simbolo milanista e allenatore vincente juventino, era approdato sorprendentemente alla panchina interista e compì, nel campionato 88-89 un vero capolavoro sportivo. Con una squadra considerata non di primissima fascia, vinse lo scudetto conquistando 58 dei 68 punti a disposizione, un vero record. Considerando che allora il campionato constava di 18 squadre e che la vittoria valeva 2 punti invece degli attuali 3, l’Inter è come se oggi conquistasse 98 punti con una squadra di buon ma non eccelso livello in un torneo in cui militavano, da favoriti, squadroni come il Milan olandese di Sacchi o il Napoli sudamericano di Ottavio Bianchi e di Maradona.

Il segreto del motore di quella Inter è da ricercare soprattutto in una coppia di giocatori tedeschi arrivati in un modo un po’ rocambolesco e di cui ci occuperemo in modo più approfondito parlando direttamente di loro: Lothar Matthäus e Andreas Brehme. Non erano certo quelle teutoniche le uniche frecce nell’arco del Trap: Zenga, Bergomi, Ferri e il nuovo arrivato Berti erano giocatori di spessore, ma tra di essi il posto più rilevante lo occupò un attaccante argentino umile e preziosissimo: Ramon Diaz. Arrivato in prestito da Firenze dopo essersi messo in mostra ad Avellino, riuscì a formare con Serena una coppia d’attacco magnifica quanto prolifica.
Perché parliamo di Diaz nel contesto dell’Inter tedesca? Perché fu proprio l’innamoramento incontenibile che i dirigenti interisti ebbero per i panzer vincenti di quell’epoca a germanizzare ancor di più la squadra. C’era infatti a Stoccarda un attaccante scaltro, giovane e biondo che sembrava fatto apposta per completare un trio germanico in grado di contrastare ancor meglio quello olandese dei cugini rossoneri: Jurgen Klinsmann, il nuovo Rummenigge.
Come resistere alla tentazione? Come fermare i panzer tedeschi che circondano San Siro e assicurano trionfi a raffica? Arriva il biondo rubacuori simpatico ed estroverso, ma c’è un problema che sembra, ahimè, un problemino: il numero massimo di stranieri tesserabili e impiegabili nel 1990 è di tre… In via Durini hanno pochi dubbi, il sacrificato è Ramon Diaz, che non viene riscattato tornando in viola, e quindi la germanizzazione è inarrestabile e diventerà certamente un marchio di vittoria. Manca solo che il tedesco diventi la lingua ufficiale ad Appiano Gentile…
L’Inter Tedesca, come detto, sarà un flop colossale e anche in quell’estate del 1989 viene commesso uno degli errori tipici e storici della dirigenza interista, da chiunque sia retta. Toccare o, peggio, aver la presunzione di migliorare un meccanismo che funziona perfettamente non può che peggiorare le cose, con il rischio di distruggere opere, in senso sportivo, bellissime. E poco importa se alla fine di un campionato sofferto ed estremamente deludente, la Nazionale tedesca vincerà il Mondiale giocato proprio in Italia. La finale, detto per inciso, fu disputata a San Siro tra la Germania di Matthäus, Brehme e Klinsmann e l’Argentina di Maradona. Sembrava Inter-Napoli, con i panzer che si presentarono in campo con una divisa che echeggiava la seconda maglia dell’Inter tedesca. Decise un rigore di Brehme (leggi qui) il biondo terzino che andò a festeggiare sotto la sua curva pavesata di nerazzurro.

Chi segue le vicende interiste da vicino, come chi scrive, sa che questo del voler migliorare a ogni costo è un vulnus inestirpabile e che il meglio sia nemico del bene rimane un vecchio adagio poco ascoltato. L’ultimo esempio lo abbiamo visto nella stagione appena conclusa. L’Inter veniva da un campionato dominato e vinto con oltre novanta punti nonostante qualche regalo di fine stagione nel tentativo di salvare amiche pericolanti. Il mercato estivo, pur con risorse esigue, ha poi invece portato giocatori quotati a completare una rosa da tutti definita esagerata e stellare. Il risultato? Al di là dei tanti trofei sfiorati ma non vinti, in Campionato l’Inter ha raggiunto a malapena gli 80 punti…
Abbandonando, almeno per un attimo, le tristezze personali, ecco quindi la carrellata completa e ragionata sui giocatori tedeschi che hanno vestito, nella Storia, la casacca neroazzurra.
Horst Szymaniak

Quelli della mia età e che hanno magari avuto la fortuna di essere stati fermodellisti da piccoli, si ricorderanno senza dubbio dei tender tedeschi, che erano piccole locomotive diesel di manovra, in grado di trainare da soli decine e decine di pesanti carri merce. Erano in dotazione anche sulle nostre vecchie FS ed erano dei verri e propri rimorchiatori di terra, possenti e instancabili: i mediani delle ferrovie.
Szymaniak, che tedesco e mediano lo era davvero, era la perfetta edizione calcistica del tender e l’unica immagine chiara che abbiamo di lui, in realtà un disegno camuffato da foto, lo ritrae con lo sguardo arcigno, forse poco intelligente ma molto affidabile, di chi è abituato a obbedire e a occuparsi del ‘lavoro sporco’. In quell’effigie, del 1962, Szymaniak indossa la maglia del Catania, squadra italiana non certo di livello sia pur di Serie A, e il fatto che quel mediano fosse già un nazionale di Germania con la cui casacca bianca aveva già disputato due Mondiali (’58 e ’62) dimostra quanto il campionato italiano fosse ambito all’estero per censo e prestigio. Anche per il Catania. All’Inter, questo Oriali, forse meglio Marini ante litteram, approdò voluto da Helenio Herrera nel 1963/64 come straniero di Coppa dei Campioni per giocare in luogo di Corso, che il mago considerava troppo statico e lento per giocare in Europa.
Il nostro tender tedesco non incise per nulla in realtà in quella stagione e l’unico suo microscopico mattoncino nella conquista della Coppa nella mitica finale di Vienna fu il merito di aver costretto Mariolino a muoversi di più in campo.
Hansi Müller

Bisognerà aspettare 18 anni per vedere un altro tedesco vestire il nerazzurro, ma questa volta si tratta di un giocatore di alto profilo e in grado di accendere fantasia e aspettative dei tifosi. Da Stoccarda, dove è nato venticinque anni prima e dove ha sempre giocato, arriva Hansi Müller, considerato dalla critica un ancor giovane centrocampista destinato a far faville. Certo arriva in luogo dell’atteso Platini che, dopo essersi promesso ai nerazzurri, approda improvvisamente sulla poco amata sponda bianconera, ma i primi vagiti di quel campionato vedono il tedesco cantare e il transalpino balbettare. I tifosi gongolano, ma è un fuoco di paglia. Le Roi sfodera il suo scettro sfavillante mentre il tedesco finisce per litigare sul campo con Beccalossi con cui si pesta i piedi calcando le medesime zolle. I due anni del giovane tedesco dal bel sorriso ma dalla scarsa grinta alla corte interista non lo fanno assurgere tra le figure indimenticabili del firmamento nerazzurro e l’epiteto ingeneroso di ‘tedesco sbagliato’ con cui viene congedato in direzione Como la dicono lunga al riguardo. Il resto della carriera di Hansi Müller in Austria confermerà la convinzione che, Inter o meno che sia, ci si sia trovati di fronte, a proposito di firmamento, di una veloce meteora.
Karl-Heinz Rummenigge

Questa volta nessuna attesa, via un tedesco, eccone subito un altro, e che tedesco! Considerato uno dei più forti attaccanti in circolazione nel mondo, il 29enne Rummenigge viene convinto dal presidente Pellegrini nell’estate del 1984 a schiodarsi dopo dieci anni da Monaco di Baviera e a calcare il prato di San Siro in coppia con un altro goleador di tutto rispetto come Spillo Altobelli. Sembra un Inter capace di dominare il lotto e il neo Presidente, appena subentrato a Fraizzoli, vuole iniziare il suo ciclo con il botto. Kalle ce la mette tutta e la sua generosità sul campo gli permette di far subito breccia nel cuore dei tifosi e anche il rendimento, dopo un inizio un po’ così, sembra andare nel solco giusto. Una doppietta e un assist ad Altobelli nel 4-0 contro la Juve sono un diapason d’armonia con il popolo della curva di San Siro. Ma sono anche uno zenith mai più raggiunto, né in quella stagione né nelle due successive costellate da molte delusioni, qualche sprazzo e tanti, troppi infortuni. Esattamente come quel Müller che gli ha passato il testimone tedesco, anche Rummenigge non riesce a incidere in termini di gol e di rendimento come la fama e le attese del Biscione pretendevano e anche la sua avventura milanese non tocca le tre stagioni piene. Nonostante ciò, il rapporto tra il bomber tedesco e la tifoseria interista rimarrà strettissimo e il piccolo striscione con la scritta ‘Kalle uno di noi’ sotto la sua effigie inconfondibile campeggerà per decenni in Curva Nord.
Lothar Matthäus e Andreas Breheme

Dopo una stagione deludente nonostante la presenza in panca di un allenatore come Giovanni Trapattoni e con una coppia di stranieri formata dall’argentino Passarella e dal belga di origine italica Scifo, la società nerazzurra decide di tornare a fare spesa in Germania. Mette gli occhi su un centrocampista non giovanissimo ma di sicuro affidamento come Lothar Matthäus che, per fortuna, milita nel Bayern, società amica da tempo. La trattativa è però complessa e si sblocca solo quando l’Inter accetta di acquistare anche Brehme, un terzino che i bavaresi ritengono, come si direbbe oggi, fuori dal progetto. I milanesi, che avevano già rinforzato l’attacco con il prestito dalla Fiorentina di Ramon Diaz e l’acquisto dal Porto dell’algerino Rabah Madjer, noto anche come il Tacco di Allah, si troverebbe così, con i due tedeschi, ad avere quattro stranieri in rosa. È vero che il limite regolamentare è appena stato ampliato da due a tre, ma ottenere una deroga per il quarto appare impossibile. Quindi i casi sono due: o interrompere i rapporti con il Bayern o rinunciare a uno tra Diaz e Madjer. Il prescelto per il taglio è quest’ultimo e, anche se è già stato presentato ufficialmente con la nuova casacca, viene trovato un escamotage per risolvere l’intricato problema e si narra sia stato il mitico Avvocato Prisco, eterno vicepresidente interista, a trovarlo. E così, un supplemento di controllo medico trova un’anomalia nel fisico dell’algerino che viene rispedito al mittente e si accaserà poi al Valencia proseguendo la sua onesta carriera.
Due precisazioni riguardanti il caso Madjer ci paiono doverose. Una riguarda il fatto che c’è chi sostiene che furono i timori legati, per motivi socio politici, all’ingaggio di un calciatore magrebino e musulmano a dissuadere la dirigenza nerazzurra, allarmata da chissà quale informativa, dal fare arrivare a Milano il Tacco di Allah. L’altra concerne alcune ricostruzioni che fanno collegare l’acquisizione in prestito di Diaz proprio ai problemi fisici di Madjer. Noi tendiamo a escludere entrambe queste ipotesi e facciamo nostra le tesi secondo cui fu la pervicacia per l’acquisto di Matthäus, correlato obbligatoriamente da un Brehme in omaggio, a disegnare quella fantastica Inter 88/89, quella dei record.
E se Matthäus fu l’indiscusso leader di quella squadra, il biondo connazionale, accolto con diverse perplessità e qualche ironia, costituì una piacevolissima sorpresa. Di Lothar molto si sapeva, moltissimo si sperava e i fatti, per fortuna, andarono tutti nella direzione voluta, ma fu Brehme a sovvertire gerarchie tecniche e affettive dimostrandosi perfino un precursore prezioso sulla fascia. Andreas, infatti, può a nostro parere essere considerato uno dei primi centrocampisti molto esterni della Storia, un quinto negli schemi di oggi. Un quinto a tutta fascia, capace di difendere e di attaccare, di salvare e di segnare, ma anche di essere un punto di riferimento a centrocampo, appunto. Ci sono molte azioni in cui si vede Brehme agire dando le spalle al fallo laterale e guardando il campo da prospettiva orizzontale. Proprio un precursore.
Ma il leader, si diceva, era Lothar Matthäus e quella Inter fece sfracelli lasciando le briciole ad avversari molto più quotati, come Milan e Napoli, e sembrava sul punto di poter aprire un ciclo virtuoso, vittorioso e molto teutonico. E invece…
Jürgen Klinsmann

Invece, come già raccontato, il processo di germanizzazione che sembrava ineluttabile e ulteriormente vincente si tradusse in un fragoroso e rovinoso fallimento. Il sacrificio inevitabile di Ramon Diaz, giocatore sublime quanto sottovalutato e spalla ideale di Serena, fu un errore imperdonabile, ma necessario, visti i regolamenti, per l’approdo di Klinsmann. L’attaccante tedesco aveva una quotazione molto maggiore di quella del gaucho indio e pure un’età decisamente inferiore, tanto che a Milano definirono il suo ingaggio un colpaccio ma soprattutto un investimento. Ma un po’ lo scarso amalgama tra due punte molto simili e poco disposte al privilegio verso il compagno di reparto e un po’ la supponenza di un gruppo che aveva appena annichilito gli avversari e che adesso si sentiva anche più forte, sta di fatto che crepe ogni volta più vistose apparivano inquietanti sulla testa di un motore che perdeva sempre più colpi. E così anche l’Inter tedesca di Matthäus, Brehme e Klinsmann di rinforzo non superò il triennio, come da tradizione di ogni panzer nerazzurro.
Anzi il loro condottiero Trap da Cusano Milanino aveva già abbandonato la nave al termine di un 1990/91 ricco di polemiche e incomprensioni, mentre nell’ultima stagione milanese del trio teutonico al timone si alternarono Corrado Orrico, una scommessa del Presidente proveniente dalla C e una vecchia gloria della Grande Inter come Luisito Suárez. Il primo, definito ‘pittoresco’ dalla stampa sportiva, era un precursore della zona come la si intende ora e non come quella di allora, di Liedholm o di Sacchi. Aveva avuto già un’esperienza in A già una decina d’anni prima a Udine ma era stato allontanato dopo tre mesi. Sotto la Madonnina la sua signorilità, la sua ironia e soprattutto le sue idee ‘astruse’ non attecchirono. Lui se ne rese conto e, appunto da gran signore, si dimise rinunciando a stipendi e buonuscita. La cosa, paradossalmente, gli rovinò la carriera, ma questa è tutt’altra storia… Storiaccia. Il secondo era un allenatore già in pensione ma che, da interista vero, era accorso al capezzale della Beneamata ammalata. Il disastro di quella orribile stagione 1991/92 si compì con l’uscita di scena contemporanea di tutti e tre i baluardi di una Inter molto tedesca ma molto debole.
Matthias Sammer

Il settimo giocatore di Germania che approdò sulle rive del Naviglio fu Matthias Sammer. Arrivò nell’estate proprio del ’92 quando la rivoluzione necessaria nella squadra nerazzurra significò la partenza dopo pochissime stagioni dei tre connazionali che erano giunti, chi tre e chi due anni prima, per colonizzare il Biscione come fosse un hotel dell’Alto Garda veronese. Il centrocampista, preceduto pure lui da un’ottima stampa, passa alla storia del Club per due motivi, uno curioso e l’altro poco positivo. Il primo è il fatto che Sammer è stato il primo giocatore di quella che era stata la Germania dell’Est a giocare in Italia. Vero è che dal 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, le due Germanie uscite dalla II Guerra si erano riunificate, ma ciò non toglie il fatto che Sammer fosse nato a Dresda nel ’67, avesse cominciato a giocare lì e che della Germania Est avesse addirittura vestito la maglia della Nazionale. Il secondo motivo è dovuto alla durata della sua militanza interista, da agosto ’92 a gennaio ’93. Appena sei mesi, preparazione compresa, che costituivano allora il record per tutti i giocatori stranieri in nerazzurro, non solo tedeschi. E pensare che la società l’aveva acquistato già nel ’91… ma dissidi insanabili di ordine tattico con Osvaldo Bagnoli, il nuovo allenatore, portarono a questa drastica decisione.
Lukas Podolski

Bisogna aspettare più di vent’anni e un nuovo millennio per tornare a vedere un giocatore tedesco vestire la maglia dell’Inter. Sarà Roberto Mancini, subentrato in corsa a Mazzarri, a chiamare a Milano dal’Arsenal Lukas Podolski nel gennaio del 2015. L’attaccante esterno, in realtà di nascita polacco ma naturalizzato appunto tedesco, è già un giocatore affermato anche se non un campione e quando sbarca a Linate è già vestito di nerazzurro con tanto di sciarpa e gagliardetti, proclamandosi tifoso interista da sempre. Forse è mossa opportunistica, o paracula, nei confronti della tifoseria, certo è che il suo impegno e il suo apporto non sono sufficienti a raddrizzare una stagione nata storta e finita in pezzi, con una Inter incapace addirittura di centrare una qualificazione in ambito europeo, evento per fortuna rarissimo dalle parti di Appiano. Podolski non viene quindi riscattato a fine stagione e solo per un pelo non batte il record di breve durata per uno straniero, record che rimane a Sammer che aveva giocato 11 gare contro le 17 del Lukas polacco.
Robin Gosens

Il nono panzer della storia dell’Inter è un esterno di tutto campo, il famoso quinto già menzionato con Brehme, che arriva a Milano dall’Atalanta di Bergamo nel gennaio del 2022, solo l’altro ieri… Anche Gosens quindi, come il connazionale predecessore Podolski, è un aggiustamento invernale e arriva a infoltire una rosa, quella di Inzaghi, chiamata a essere competitiva su molti fronti: Campionato, Champions e Coppa Italia. L’ex atalantino si rende utile come può dimostrando, da persona colta e intelligente quale è, di sapere accettare anche decisioni avverse e discutibili da parte di chi lo dirige. Purtroppo, il suo arrivo in casa interista coincide con l’eliminazione in Europa da parte del Liverpool, poi finalista, e soprattutto con la clamorosa rimonta subita dal Milan in Campionato. La consolazione della Coppa Italia, con un suo gol decisivo in semifinale, non è sufficiente… La stagione successiva sarà una delle più contraddittorie dell’Inter, capace di subire ben dodici sconfitte in Campionato, ma di conquistare la finale di Champions e giocarsela veramente alla pari con il Mancity. Tutto ciò però non varrà la conferma di Gosens all’ombra della Madonnina e il suo destino prenderà il treno per Berlino, sponda Union.
Yann Bisseck

Il decimo grande tedesco, o piccolo indiano, dell’Inter è, attualmente, ancora a Milano, ma non sappiamo se vi rimarrà ancora a lungo. Mentre scriviamo queste note è infatti in pieno svolgimento il calcio mercato estivo e le voci che riguardano questo imponente e ancor giovane difensore tedesco si susseguono contraddicendosi continuamente. Bisseck è arrivato a vestire la casacca nerazzurra nell’estate del 2023, proprio mentre partiva Gosens, e in quella stagione, complice un serio infortunio occorso a Pavard, ha potuto giocare molte più gare del preventivato. Si è disimpegnato da par suo, garantendo nel contempo una buona affidabilità difensiva e una buona predisposizione agli adattamenti tattici che il complicato gioco di Inzaghi prevede. Chiuso il primo campionato con uno scudetto che porta anche la sua piccola ma evidente firma, il secondo, quello non da molto concluso, lo ha visto invece, purtroppo, come protagonista spesso negativo. Le sue disattenzioni, specialmente nei minuti finali delle gare, sono costate alla squadra molti punti e, dal momento che alla fine il Napoli campione ha sopravanzato l’Inter di una sola lunghezza… Alla luce di tutto ciò, Bisseck, che rimane comunque un prospetto (di 25 anni…) interessante e dotato di mezzi atletici ragguardevoli, potrebbe anche non rientrare nei progetti di Chivu, neo allenatore, per i nuovi assetti. O forse no. Del resto, il difensore ambidestro, ma più destro, e all’Inter già da due anni, e i tedeschi in nerazzurro sono come il pesce e gli ospiti. Dopo un po’…
Grandi e grossi come Bisseck, compatti come Szymaniack, possenti come Matthäus o scaltri come Brehme, i 10 panzer dell’Inter sono stati però anche fugaci. Sono spariti anche alla svelta, spesso alla chetichella e quasi sempre uno per volta. Come i 10 piccoli indiani, le statuette del famoso romanzo di Agatha Crhistie. E c’è un altro particolare che può confermare un destino che sembra già scritto. Il titolo del film tratto dal racconto della giallista inglese è: ‘E alla fine non ne rimase nemmeno uno’. Vuoi vedere che parte anche Yann Bisseck?


