Immagine di copertina: Johan Cruijff sulla panchina del Barcellona
A fine 2011, il giornalista Sandro Modeo pubblicava un saggio (intitolato Il Barça) dedicato al recente break estetico-cognitivo rappresentato dal Barcellona 2009-2011, un saggio nell’ambito del quale ricostruiva, con dovizia di particolari, la lunga parabola del calcio totale moderno, puntando i riflettori sull’ovvia e fondativa esperienza olandese e muovendosi poi in lungo e in largo per l’Europa, accomodandosi sulle sponde del Mersey, nella Milano da bere e tra i suoi eccessi (il Milan di Berlusconi), tra gli immensi casermoni delle repubbliche sovietiche – mirabile, in tal senso, il paragrafo dedicato all’esperienza marginale ma significativa dello Spartak Trnava, che fece tremare i polsi al giovanissimo Ajax del 1969, dominandolo con le sue stesse, affilatissime armi.

Nel testo di Modeo, a mio parere, ci sono alcune forzature e alcuni malintesi figli del sacchismo – l’unica vera esperienza totale del calcio italiano, secondo l’autore – e si commette anche l’errore di trascurare quasi completamente la galassia sudamericana, citando quali uniche esperienza leggibili in chiave “totale” l’Estudiantes di fine anni ’60 e la Colombia di Maturana, ammirata tra anni ’80 e ’90 – laddove, a mio parere, il calcio degli olandesi e quello moderno degli spagnoli possiedono invece un’anima profondamente sudamericana, e laddove furono gli stessi olandesi, negli anni ’70, a pronosticare che i calciatori latini, con la loro superiore dotazione tecnica, avrebbero saputo forgiare una versione idiosincratica e molto efficace del football teorizzato e messo in atto dalle parti di Amsterdam.
Al netto di tesi e interpretazioni a mio parere non del tutto condivisibili, il testo di Sandro Modeo rimane un pezzo unico nel panorama letterario sportivo italiano – se non un pezzo unico, uno dei pochi pezzi di un puzzle molto piccolo – in quanto si avventura con convinzione e con una capacità argomentativa/dialettica non comune nel complesso mondo della teoria.
Modeo, peraltro non lesinando riferimenti ad altri sport (Bolt, Federer) e alla cultura più alta (da Orwell a Bolaño, da David Foster Wallace alla musica barocca, passando per i Radiohead, il tutto impreziosito da una postfazione del grande scrittore Irvine Welsh), lavora in termini astratti e prova a definire, secondo me spesso in maniera efficace, le radici culturali e storiche dell’esperienza del calcio totale, un’esperienza che da poco tempo aveva trovato nel Barcellona una mirabile a inaspettata sintesi.
Non è un caso se il Calcio totale è giunto a maturazione nella Amsterdam degli anni ’60 e se poi ha modificato il dna di Liverpool, Barcellona e altre realtà (non del Milan, a onor del vero), secondo Sandro Modeo, e il sottoscritto condivide, ma ciò su cui si vuole focalizzarsi in questa sede è l’essenza astratta e in qualche modo avventurosa delle tesi e delle analisi contenute nel suo saggio.
«Stanno diventando tutti teorici» ha affermato in diretta tv un grande allenatore italiano diversi anni fa, con la consueta schiettezza (anche se ha mancato il bersaglio: i teorici in Italia erano e restano una sparuta minoranza), e quell’allenatore ha avuto il merito di fotografare con maestria la situazione del dibattito sportivo nel nostro paese, un paese nel quale, quando si parla di calcio, si deve parlare soprattutto del contorno, di ciò che avviene al di fuori del rettangolo di gioco, oppure si deve demolire ogni ambizione più alta con la clava della retorica da oratorio, che esalta la giocata del singolo, l’episodio risolutivo, sangue e sudore, la semplicità del football, il successo in quanto tale e a prescindere da come è arrivato.
Arrivo al dunque: a mio avviso, il dibattito culturale-sportivo in Italia è ancora costellato da questo tipo di retorica, personificato dalla guerra ai teorici dichiarata diversi anni fa da uno dei suoi più autorevoli portavoce.
I cosiddetti teorici sono, come dicevo, una sorta di carboneria che sopravvive tenendosi lontana da un dibattito pubblico che l’ha emarginata.
Quando si azzardano disamine ad ampio raggio, che non riducono la storia a una serie di aneddoti e di episodi “mitici”, ma la interpretano in chiave evolutiva e avventurandosi negli scivolosi territori del pensiero astratto, si rischia di essere immediatamente etichettati come “giochisti”, “elitari”, parole che sono solo modi diversi di esprimere lo stesso concetto (la colpa indelebile: essere “teorici”).
Questa prospettiva limitata risulta antiquata, retriva, a mio parere distante da quella – magari non in voga, non “di moda” – ma comunque solida che vige in altri paesi: in rete e sulla stampa si trovano complesse analisi sull’evoluzione del gioco del Liverpool, sui sistemi di gioco introdotti a Barcellona da Flick, sulle fondamenta del gioco del Bayern Monaco e di come si sono consolidate negli ultimi dieci anni, su come Luis Enrique ha implementato ed evoluto il “sistema PSG”, depurandolo da alcuni suoi difetti endemici.
Anche oltreoceano le analisi strutturali e complesse non mancano: gli articoli da noi dedicati al relazionismo e al Fluminense, che dal campionato carioca ha illuminato il cielo con alcune idee radicali, che hanno trovato terreno fertile, in qualche misura, anche in Europa, sono stati ispirati anche dalle disamine di appassionati inglesi e brasiliani, da alcuni canali YouTube che hanno intuito l’originalità del sistema di gioco del club brasiliano e, al tempo stesso, le sue analogie con il calcio praticato nel campionato carioca alcuni decenni fa.
In Italia, è difficile trovare traccia di quanto sopra: ci sono alcuni canali Youtube e, ci permettiamo di dirlo a bassa voce, tra gli altri forse anche il nostro sito, tra le poche realtà che provano ad azzardare teorizzazioni più ampie, riflessioni ad ampio raggio e ipotesi sulle ragioni dell’evoluzione del football in una determinata direzione.
La grande stampa nazionale e il dibattito mainstream sono invece dominati da temi di tutt’altra fattura e scaturigine, e viene quindi facile pensare che gli addetti ai lavori siano i primi responsabili del confinamento della riflessione sportiva entro gli angusti confini della “semplicità”, dell’episodio (spesso arbitrale) e della “pratica” – di frequente, una mera presa di coscienza, a posteriori, di quanto è già avvenuto, interpretato peraltro con le lenti deformanti del tifo.
Riporto alcuni esempi concreti: giusto pochi giorni fa Luigi Cagni, ex allenatore di origini bresciane, ha speso alcune parole sul grande Ajax di Michels e Cruijff, derubricandone l’impatto, come da sempre avviene in Italia, alla mera dimensione atletica e agonistica. «Gli olandesi correvano a duecento all’ora» ha affermato l’ex tecnico, e le sue parole, che i media italiani riciclano come un mantra da decenni, fanno a pugni con quelle di Cruijff, che evidenziava la diversa natura della performance atletica dei suoi, chiamati a correre con maggiore intensità ma, in fin dei conti, a percorrere meno strada degli altri, e chiamati soprattutto a pensare il calcio in maniera radicalmente diversa dagli altri (torniamo sullo stesso terreno minato: quello del pensiero).
Il Liverpool esprime una versione personalizzata del calcio totale sin dagli anni ’60 e, nei fatti, non ha mai davvero mutato pelle né tradito i propri assiomi di fondo – pur dimostrandosi in grado di rinnovarsi con il passare dei decenni e anche a seconda delle caratteristiche dei giocatori. La perseveranza e la solidità dei Reds vengono tuttavia da noi interpretate in chiave extrasportiva (la passione della Kop) o considerate un dato di fatto acquisito e non un merito, il prodotto di un lungo lavoro incessante.
Per il Barcellona o il Bayern Monaco valgono considerazioni analoghe: capita spesso di leggere che vincono perché farlo “con i campioni” sarebbe facile, e, ancora una volta, questa tesi autoassolutoria e semplicistica dimentica che catalani e bavaresi hanno impiegato anni, forse decenni per costruire la propria cultura e la propria identità – cultura e identità che sono forti, solide, orgogliosamente comunitarie e al tempo stesso aperte alla contaminazione, alla crescita, capaci di essere adulterate, lontane quindi da ogni idea di “purezza”.
Quando si prende semplicemente atto della maturazione di un Musiala o di un Pedri, quasi fossero fatti naturali, si offende e sminuisce, forse in maniera inconsapevole, l’enorme lavoro di selezione e di costruzione che questi club portano avanti da tempo. Si dimentica che un Pedri, in molti club italiani, non sarebbe stato selezionato, quando era un ragazzino che pesava sessanta kg, tutto intelligenza e zero muscoli, e che è facile oggi avvedersi della sua grandezza come se fosse solo un regalo del destino, un esito ineluttabile, un colpo di fortuna.
Queste letture semplicistiche sono il prodotto di una cultura che ha chiuso gli occhi davanti all’evoluzione del calcio e forse anche davanti il concetto stesso di complessità, e che l’ha fatto quasi con sdegno, con un gesto irridente, rivendicando la natura episodica dello sport (innegabile) come l’unico vero merito, come l’unica sua essenza – e spesso svalutando così anche la nostra storia, le nostre capacità formative, perché non può essere un caso se l’Italia sforna grandi portieri a getto continuo, se ha per distacco la miglior scuola del mondo nel reparto.
Come dicevamo, non mancano le eccezioni e noi di Game of Goals pensiamo di poter essere annoverati tra di loro, ma questo articolo non vuole mascherare una sorta di autocelebrazione, vuole invece essere un sasso lanciato nel pozzo nero della nostra retorica involuta, semplicistica, individualista, resultadista in maniera superficiale e opportunista. Vuole essere una chiamata alle armi per tutti coloro che credono che il calcio possa essere una forma di cultura e non una mortificazione della cultura, e che possa esserlo in quanto tale, per il suo contenuto sportivo e tecnico, e non solo quando si associa a fenomeni extrasportivi o diventa un pretesto per parlare d’altro.


