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Aquarela do Brasil: stili di gioco del Paese verdeoro e il “dinizismo” del Fluminense

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Immagine di copertina: giocatori del Fluminense

Ogni Paese vive le proprie battaglie culturali e sportive: in Italia, sin da tempi remotissimi, imperversa il confronto tra “pratici” e “giochisti”, che prosegue tuttora e che vede i due schieramenti separati da un solco meno profondo di quanto si pensi, e che però si lanciano occhiatacce e accuse reciproche (la nota querelle tra Allegri e Adani è solo uno dei tanti capitoli di una diatriba di cui si trovano tracce già nella stampa degli anni ’30 e che raggiunge il culmine, forse negli anni ’60); la nostra contrapposizione si rispecchia in quella più radicale che separa in due fazioni gli appassionati e gli addetti ai lavori argentini, che dagli anni ’60 si dividono tra resultadisti e ammiratori quasi fanatici della Nuestra.

In Brasile, dopo il tonfo dei mondiali inglesi del 1966, si è sviluppata la teoria europeista: le difficoltà incontrate dai fuoriclasse brasiliani, che escluso Pelé erano però tutti fuori tempo massimo o quasi, al cospetto delle più coriacee e aggressive formazioni europee, indusse parte della critica e dei tifosi a denunciare la scarsa dotazione agonistica dei verdeoro, tutti votati ai trucchetti da strada del loro calcio bailado e incapaci di reggere l’urto contro i più organizzati e possenti giocatori del Vecchio Continente. Il trionfale mondiale messicano di quattro anni dopo fu da un lato la sublimazione del calcio samba e dall’altro però, forse in maniera da noi sottovalutata, anche un primo passo verso la modernità europea: il sardonico Saldanha preparò in maniera specifica, sul piano fisico, i suoi fuoriclasse, e studiò accuratamente anche come farli coesistere al meglio (alcuni testi e il documentario dedicato a Pelé sono sul punto molto chiari). Nei decenni successivi, il Brasile ha continuato a dividersi tra coloro che invocano la massima fedetà ai canoni del calcio brasiliano classico, il fútbol bailado, e coloro che invece reputano indispensabile un’evoluzione in ottica europea: da una parte Telê Santana (1982 e 1986), in buona misura Tite, in parte la squadra vista in campo 21 anni fa in Giappone e Corea del Sud; dall’altra, Dunga, in buona misura Carlos Alberto Parreira, e soprattutto Cláudio Coutinho, CT della nazionale verdeoro nel 1978, colui che definì il dribbling “una manifestazione del nostro complesso di inferiorità” e che, da buon gerarca militare, valorizzò al meglio la disciplina, la preparazione fisica e l’aggressività.

Carlos Dunga

La dolorosa eliminazione subita ai quarti dell’ultimo mondiale, che fa il paio con la sconfitta subita in finale di Coppa America nell’estate del 2021, ha soffiato sul fuoco delle polemiche.

Se noi, da europei, rimproveriamo ai verdeoro una certa mancanza di cattiveria nel momento chiave, la mancanza di una certa prepotenza atletica, e soprattutto quei cali di concentrazione che spesso i brasiliani hanno pagato a caro prezzo, in Brasile Roberto Rivelino e in parte anche Zico, ovvero due totem, hanno rimproverato a Tite, paradossalmente, un eccesso di europeismo. Rivelino, in particolare, ha puntato il mirino contro un’organizzazione offensiva che a suo parere è stata troppo rigida e canonica, mentre Zico, pur compiacendosi della fine della Neymar-dipendenza che ha caratterizzato per anni la nazionale invero abbastanza mediocre di inizio anni ’10, ha storto il naso davanti all’incapacità di tutti i talenti offensivi di esprimersi al meglio.

Joao Saldanha

Anche in ottica rinnovo del CT, c’è chi invoca l’europeismo malleabile e intelligente del totem Carlo Ancelotti e chi invece invoca il nome di Fernando Diniz, tecnico del Fluminense classe 1974 che da tempo, in patria, fa luccicare gli occhi a tutti gli esteti. Navigando in rete e sul tubo, dopo essermi guardato qualche gara e un po’ di materiale sul Fluminese, ho scoperto che nel paese sudamericano si parla di dinizismo e che la stampa e i tifosi, more solito, sono divisi sul calcio praticato dalla squadra di Rio.

Qui è doveroso aprire una breve parentesi, i cui contenuti sono stati condivisi con il nostro Francesco Domenighini: in Italia siamo abituati a pensare al calcio brasiliano come a un blocco unico, con caratteristiche uniche, ma nei fatti stiamo parlando di un paese di dimensioni continentali che ha quasi 215 milioni di abitanti, e che è da tempo, peraltro, il laboratorio mondiale di una sorta di superlega: i vari campionati statali regalano al Brasileirao, campionato che rimane tra i più affascinanti e tecnicamente ricchi del mondo, una sorta di Premier League del Sudamerica, le squadre migliori, e sono poi queste formazioni a giocarsi il titolo nazionale.

Ecco, i campionati statali hanno tutti caratteristiche specifiche: a Porto Alegre si pratica un calcio vicino a quello dei paesi europei, almeno quelli della penisola iberica; a San Paolo vige un sistema ibrido, e forse non è un caso che i maggiori successi sia nazionali che internazionali siano appannaggio delle squadre della la città più popolosa e importante del paese e forse dell’intero emisfero australe (pensiamo ai cicli del Santos e del San Paolo stesso, ma anche a quelli di Corinthians e Palmeiras); Rio de Janeiro, seconda città del paese per abitati e importanza anche economica, ma prima per bellezza e iconicità nell’immaginario collettivo planetario, è invece la città (e lo Stato) dove si pratica il calcio più idiosincratico in assoluto, tanto che la maggioranza dei calciatori che arrivano in Europa dal Brasile provengono dagli altri due Stati. Rio è la città degli esteti, del vezzo, della ricerca della giocata individuale elevata a valore assoluto, quasi la traduzione concreta del concetto di malandrismo, e tra le squadre di Rio, ancora più del Flamengo, la squadra votata pressoché interamente alla ricerca della giocata, del divertimento, la squadra che ama specchiarsi e i cui tifosi sono estremamente esigenti sul fronte estetico, è il Fluminense. Eccoci al dunque: Diniz, allenatore del Fluminese dal 2022, si è inserito con disinvoltura nella tradizione bailada del Fluminese, forse la più radicale e inattaccabile del mondo, e l’ha espasperata, inserendovi però alcuni correttivi.

Il Fluminense gioca in un modo tutto suo, che è figlio di una specifica tradizione brasiliana e che ha mutuato alcune idee dal gioco posizionale europeo, per però tradurle in qualcosa di diverso. E la cosa sorprendente è che il suo gioco sta funzionando: la squadra di Rio ha vinto il campionato statale e si è classificata al terzo posto in quello nazionale; ha iniziato la Libertadores con il botto, come dimostrano i 5 gol rifilati al River Plate regalando spettacolo. Chiaramente è presto per tirare le somme, ma siamo davanti a un raro caso di pura ricerca dell’estetica che si declina anche nel raggungimento di risultati di spessore, o che almeno porta la squadra a fare un salto di qualità e a giocarsela con le grandi del suo continente.

In cosa consiste questo dinizismo che sta facendo innamorare parte del pubblico brasiliano e invece storcere il naso alla sua fronda europeista, che alcuni chiedo di portare in nazionale e che altri invece marchiano come un’eresia che impedirà al Brasile di tornare, finalmente, in cima al mondo?

Per prima cosa, per quanto mi consta, il dinizismo non è una novità vera e propria, perché recupera la grammatica del calcio brasiliano e anzi sarebbe meglio dire carioca: Diniz è un ammiratore di Santana e la cosa si nota, in quanto la sua tendenza è schierare in campo tutti i giocatori di qualità – tra i quali spiccano un redivido Ganso, che da dieci mobile è tornato in auge, e il giovane André, mezzala di gamba e qualità – e farli convivere. Ci sono poi alcuni tratti del gioco del Fluminense che arrivano dal calcio posizionale europeo: anche la squadra di Rio domina il pallone e il possesso, tende a giocare alta (anche se meno alta di un Arsenal), gioca molto di prima, applica in maniera naturale la cosiddetta costruzione dal basso (che per il Fluminense è parte del patrimonio genetico, nulla di nuovo); queste somiglianze con i vari Barcellona, City, Arsenal e in parte Ajax e oggi anche United mi porta a coniare un brutto neologismo e a parlare di tiki-takao, e del resto il titolo del video linkato qui sotto rivela che non sono stato il primo a vedere analogie importanti, che sono appunto piuttosto evidenti.

Ci sono però alcune differenze sostanziali rispetto al calcio posizionale del nostro continente, messe in luce peraltro dallo stesso Diniz, il quale si proclama ammiratore del Manchester City, ma dice anche di giocare un calcio diverso. Il concetto chiave è quello di posizione: il Fluminese mette in pratica una sorta di cruijffismo/guardiolismo disarticolato e ancora più anarchico e votato alla sola osservanza dei principi.

Il calcio di Cruijff e Guardiola, come abbiamo osservato più volte, è molto libero nell’interpretazione, è un calcio che evoca un’orchestra jazz, ma prevede nel suo costante movimento delle rotazioni specifiche. Quando Alves saliva nella metacampo avversaria, c’erano alcuni accorgimenti che dovevano compensare le sue volate (la difesa di fatto si schierava a tre, accentrando Abidal); quando Zinchenko o Stones diventano mediani/registi aggiunti, la difesa si riposiziona. Chiaramente non tutto viene programmato e anzi è stato proprio Busquets a dire che nel loro calcio un 40% viene studiato a tavolino e un 60% è frutto del talento dei singoli, delle varie situazioni della partita e dell’improvvisazione del momento, ma ciò che le squadre posizonali, a partire dai grandi Ajax e Olanda, cercano di non perdere mai è il controllo dello spazio. La gestione dello spazio, la tendenza ad allargarlo e a occuparlo in maniera scientifica rappresentano la parte più rigorosa dei quel tipo di calcio, che per il resto è invece molto libero sul piano interpretativo. E d’altra parte, in Europa, funziona così: anche le squadre che si preoccupano più di contenere gli avversari, come la Juventus o la Roma, e in parte anche l’Inter, studiano la gestione dello spazio, ma in chiave restrittiva. La cosa fondamentale che provano a fare (e ci riescono a volte in maniera superlativa: penso alla Roma di Leverkusen o all’Inter del Camp Nou) è chiudere gli spazi, stringerli, trasformare i corridoi in vicoli ciechi, anche aggredendo gli avversari sulle seconde palle etc..

Il Fluminense, figlio di una tradizione molto libera, porta invece il tiki taka all’interno di uno spartito diverso, rivelando peraltro una cosa che io e altri sosteniamo da tempo: c’è molto Sudamerica nel calcio posizionale, ci sono numerose analogie e del resto si tratta di qualcosa che, pur arrivando dalla Scozia e trovando nell’avanguardia olandese l’esito definitivo, affonda le radici nel calcio iberico e quindi, di riflesso, sudamericano. Nessuna novità, quindi: il fraseggio di prima fa parte della cultura brasiliana e per i carioca è quasi un dogma. Rio è un’isola separata dal resto del Brasile, figuriamoci dal resto del pianeta, ed eleva la delicatezza dei piedi e il palleggio insistito a valori universali.

La sostanziale diversità rispetto al calcio di Cruijff ed epigoni consiste però proprio nella gestione dello spazio: ho trovato su internet un video intitolato “Fluminense plays the weirdest tactics in the world“, e al di là della bruma retorica che sempre circonda considerazioni di questo tipo, il video ha confermato una mia impressione di fondo: la squadra di Rio ha codifica un gioco votato all’estetica (ma che sta anche portando risultati) tutto suo, un tiki-takao che però del calcio europeo conserva solo alcuni principi e si libera dell’idea posizionale, diventando aposizionale.

I giocatori del Fluminense tendono (non sempre, ovviamente, ma molto spesso) ad ammassarsi nei pressi del pallone, senza quindi occupare in maniera “scientifica” lo spazio, e poi a giocare tutto di prima e in velocità, tentando spesso l’uno contro uno come da tradizione carioca. Si assiste a una specie di torello anarchico che a un certo punto libera uno più giocatori e porta a verticalizzare, ma più che di occupare lo spazio i giocatori di Diniz si preoccupano di fare rete. La differenza fondamentale, figlia del felice anarchismo dei Saldanha e Santana declinato in chiave moderna, è l’assenza di una struttura che si preoccupi di gestire lo spazio: il grande giornalista inglese Hamilton ha parlato di relazionismo per definire questo stile di gioco che si basa su principi solidi, quelli del calcio carioca classico e posizonale, ma di fatto li priva della grigia tattica del calcio europeo.

Questo non significa ovviamente che la squadra non sia organizzata: il Fluminese è arroccato intorno ad alcuni principi chiave (si gioca di prima, si triangola, si portano molti giocatori vicini al pallone per cercare di superare gli avversari con una sorta di torello; si vedono inoltre molte volte i giocatori formare una linea verticale per scambiare la palla di prima in velocità; in difesa c’è una sorta di libero staccato) e non vi deroga mai. Ma poi in campo l’impressione è quella di una squadra che si muove a ondate caotiche, che fa densità in maniera non sempre logica in ottica europea ma molto spesso poi efficace. In questo modo, Diniz sta assecondando la vocazione quasi follemente estetica dei suoi tifosi e la ricerca di quei risultati spesso mancati alla squadra di Rio. Un titolo carioca è un primo passo importante su questo fronte, e vedremo come la squadra saprà cavarsela in Coppa. Sarebbe bello poi vedere un tecnico come Diniz, a lungo criticato e bollato come un idealista, accomodarsi sulla panchina più prestigiosa e affascinante del mondo. Per ora, ci gustiamo il suo Fluminense, portavoce di una tradizione carioca rinnovata alla luce di alcuni principi del guardiolismo, e alfiere di un movimento continentale che è in grande crescita da molti anni.

Sintesi della finale del campionato carioca 2023 tra Fluminense e Flamengo

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