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Johan Cruijff, l’uomo orchestra

Veloce, moderno, universale, innovativo, essenziale. Vi portiamo alla scoperta del numero 14 più famoso del mondo. Perché dopo di lui il calcio non è stato più lo stesso

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Era veloce come un lampo. Quando accelerava da fermo poteva lasciare l’avversario sul posto come uno sprinter in prossimità del traguardo. Ma la sua velocità non era fine a se stessa. Era strettamente connessa all’intelligenza, non era mai una corsa a vuoto. Quando serviva, decelerava. Quando serviva, giocava in surplace, da fermo, colpendo il pallone con una carezza d’esterno o aprendo lo spazio per un compagno, sfruttando una visione periferica del gioco. Perché Johan Cruijff era in grado di fare tutto. E soprattutto capiva esattamente quando quel tutto andava fatto. La capacità di dettare i ritmi e i tempi e sempre nel momento giusto – non un secondo prima e non un secondo dopo – era forse la sua risorsa più grande. Nessuno come lui, da questo punto di vista.

Dicono abbia rivoluzionato il calcio, che ci sia un pre-Cruijff e un post-Cruijff, di cui oggi continuiamo a sentirne e viverne gli effetti. Io non credo che una persona da sola, per quanto influente, possa segnare a tal punto uno spartiacque e ritengo che l’evoluzione del gioco segua un percorso fluido, che non ci siano mai cesure nette. Non si può dire con esattezza matematica quando finisce un tipo di calcio e ne inizia un altro. Esattamente come le date che segnano i passaggi nella storia (dalla Scoperta dell’America del 1492 alla Rivoluzione Francese del 1789) sono meramente simboliche. Un cambiamento non avviene mai dall’oggi al domani, ma è il frutto di piccole e continue reazioni a catena.

Esiste però una ricchissima eredità che Cruijff ha lasciato ai posteri. La sua figura e il suo modo di vedere e concepire il calcio continuano a essere dei basilari punti di riferimento per moltissimi: addetti ai lavori, esteti, giocatori. «Giochiamo a calcio come Jimmy Hogan ci ha insegnato» disse Gusztav Sebes, tecnico della Grande Ungheria, a proposito delle lezioni di tattica e filosofia che i magiari (e non solo) avevano appreso dall’allenatore inglese nei primi decenni del ‘900. Oggi moltissimi giocano a calcio come Johan Cruijff ha insegnato.

Hogan e Cruijff. Due figure che hanno un filo conduttore, per altro, perché Hogan è stato anche il padre del calcio olandese, colui che prima di tutti introdusse nei Paesi Bassi concetti come aggressione e occupazione degli spazi, flessibilità e intercambiabilità dei ruoli. Hogan gettò le basi del suo credo nel piccolo Dordrecht e gli effetti si diffusero a macchia d’olio in tutta l’Olanda nel giro di una manciata di anni.

Fu un altro inglese, Jack Reynolds, originario di Manchester, a completare il processo di Hogan all’Ajax. Giunse nel club di Amsterdam alla fine della Prima guerra mondiale e vi rimase per un totale di 32 anni spalmati in tre periodi diversi. Più che per il ricco palmares (8 campionati e una Coppa d’Olanda) il suo contributo era di natura filosofica. Introdusse nuovi metodi di allenamento, che puntavano sia sullo sviluppo della tecnica sia sul miglioramento della forma fisica, sviluppò moltissimo il settore giovanile, propose un calcio offensivo («l’attacco è la miglior difesa» era il suo mantra) imperniato soprattutto sulle ali per aprire il più possibile il campo.

Vic Buckingham, primo maestro di Cruijff

Il lavoro di Reynolds fu proseguito da un connazionale, Vic Buckingham. Restò all’Ajax poche stagioni, ma fece in tempo a vincere il campionato 1959/60 con una media di 3,2 gol a partita e proponendo un gioco offensivo e spettacolare. Buckingham ebbe il merito soprattutto di scoprire e lanciare Cruijff.

Nato povero, orfano di padre a 12 anni, il piccolo Johan era dotato di un talento calcistico non comune e fu grazie a quello che la madre ottenne un lavoro come lavandaia del club ajacide. Fisicamente mingherlino, Buckingham lo potenziò con un lavoro certosino dal punto di vista atletico, forgiando un campione a tutto tondo. A 17 anni lo fece debuttare in prima squadra, due anni più tardi Johan era in nazionale e all’esordio contro l’Ungheria andò subito in rete.

Aveva stretto subito un legame con me, come fosse mio figlio. Mostrava a tutti noi come giocare. Era già maturo. Aveva un’immensa carica vitale. Correva per tutto il campo e poteva fare ogni cosa: creare movimento, volare sull’ala, inserirsi in area, colpire di testa. Piede destro, piede sinistro, e tutto ad alta velocità. Un dono di Dio all’umanità, in senso calcistico. Questo era Johan

Vic Buckingham
Cruijff e Michels ai tempi dell’Ajax
[http://artedelgoal.altervista.org]

Nel frattempo l’Ajax era andato incontro a un’altra rivoluzione. Quella di Marinus Jacobus Hendricus Michels, per tutti Rinus. Seguace delle idee di Reynolds, che era stato suo allenatore all’Ajax nel 1946/47 e che considerava il suo guru, Michels in pochi anni costruì una formazione destinata a cambiare per sempre le coordinate del gioco.
Una rivoluzione atletica, perché quell’Ajax era costruito intorno a principi atletici rigorosi e moderni.
Una rivoluzione tattica e filosofica, perché quell’Ajax giocava a memoria: i ruoli fissi erano aboliti, tutti si muovevano senza palla e – sfruttando appunto una preparazione atletica superiore – pressavano in modo furibondo i portatori di palla avversari nella loro metà campo. E la squadra attuava in modo ossessivo la tattica del fuorigioco.
In una parola, totaalvoetbal (calcio totale). Qualcosa di profondamente innovativo perché prima di allora il pressing era portato solo nella propria trequarti e il fuorigioco era materia per palati fini.
Una rivoluzione culturale perché quell’Ajax divenne lo specchio degli anni ’70, capelli lunghi e anticonformismo, rock and roll e vestiti alla moda, interviste a pagamento e giocatori che smettevano di essere semplici atleti, ma si trasformavano in uomini-immagine, icone del loro tempo, come le star di Hollywood.

Il calcio uscì dal concetto meramente sportivo nel quale era rimasto confinato bene o male fino ad allora. E con quell’Ajax iniziò a diventare un fenomeno di costume, sempre più globale.
L’emblema era ovviamente Cruijff, il giocatore intorno a cui Michels edificò il suo portentoso progetto.
Il nero Pelé era stato il volto degli anni ’60, il decennio della decolonizzazione in Africa e delle rivolte delle minoranze di colore che urlando al mondo la propria condizione di inferiorità pretendevano maggiore libertà e maggiori diritti.
Il bianco e “capellone” Cruijff diventò il volto degli anni ’70 e cavalcò l’onda di una generazione che inseguiva l’emancipazione culturale e sessuale, ascoltava musica pop e rock, indossava enormi occhiali da sole, vestiva con colori sgargianti e motivi floreali e gettò le basi del consumismo, della globalizzazione e della tecnologia su larga scala dei decenni successivi.

Naturalmente però, prima di divenire un’emblema fuori dal campo, Cruijff restava un meraviglioso interprete sul rettangolo di gioco. Un calciatore totale. Ma in maniera differente rispetto alle mezzali a tutto campo come il nostro Valentino Mazzola, l’argentino Di Stéfano, l’inglese Charlton.

Perché Cruijff non era un giocatore che come loro agiva con continuità e nella stessa partita da difensore, da regista, da incursore e da attaccante. Sapeva fare tutto anche lui, ovviamente, ma lo faceva a modo suo, in un modo unico.

Cruijff declinava il suo essere “calciatore totale” a seconda del momento e dell’utilità: appariva e scompariva nelle pieghe di una partita come un lampione intermittente: non sempre era acceso, ma quando illuminava la scena lo faceva come nessun altro. E – come scritto all’inizio – sapeva sempre cosa era meglio per la squadra, se alzare il ritmo o abbassarlo, se passare la palla o dribblare. Centravanti di nome, si muoveva ove più lo portava la contingenza del momento: attaccante, ala, mezzala, regista.

Lui e il suo Ajax sconvolsero il calcio europeo, con tre Coppe dei Campioni consecutive e un gioco magnifico, creato da Michels e perfezionato dal romeno Ștefan Kovács – meno rigido del predecessore e più disposto a concedere maggiori libertà all’estro dei suoi giocolieri.

L’Ajax del 1972. In quell’annata i Lancieri vinsero tutto: campionato, Coppa d’Olanda e Coppa dei Campioni
[https://rudighedini.wordpress.com]

L’Olanda del Mondiale ’74 diventò il naturale prolungamento dell’Ajax e segnò l’apogeo di quella generazione. Nell’undici di base erano sei i giocatori dei lancieri (il centrocampista Haan adattato per l’occasione a difensore; i terzini factotum Suurbier e Krol; il jolly Neeskens; l’attaccante Rep; più Cruijff naturalmente) a cui si aggiungevano il portiere Jongbloed dell’FC Amsterdam; Rensenbrink dell’Anderlecht, ala sopraffina ma caratterialmente un po’ fragile; e tre pedine del Feyenoord, l’arcigno stopper Rijsbergen, lo sgobbone Jansen e il faro van Hanegem.

Una squadra dalle qualità individuali notevoli, che moltiplicò il proprio valore sotto la mano di Michels, ma che si arrese sul traguardo al pragmatismo della più classica e ugualmente formidabile Germania Ovest.
Scambi di posizione, pressing, fuorigioco, gioco lungo e gioco corto come una fisarmonica: era l’apogeo del calcio-orchestra voluto da Michels, personificazione di una nazione il cui territorio è per quasi un terzo sotto il livello del mare e che per vivere ha dovuto occupare gli spazi a disposizione. Non può essere un caso che quel tipo di calcio sia nato proprio nei Paesi Bassi.

Cruijff giocò un Mondiale nel 1974 sontuoso, ottenne voti eccellenti in ogni partita, con il picco del 4-0 all’Argentina in cui segnò due gol e irradiò la scena con giocate sopraffine e una continuità prestazionale disarmante. Steccò nel giorno più importante, contro l’amico-nemico Beckenbauer, portato fuori gara dal mastino Vogts dopo che nel primo minuto di gioco una sua accelerazione bruciante aveva portato al rigore trasformato da Neeskens. Vantaggio immediato. Gioia effimera. La tempra tedesca che non si sciolse, ma anzi si solidificò con il passare dei minuti e vinse la finale con merito.

La meravigliosa Olanda del Mondiale ’74

La sua Olanda restò una splendida cicala, incompiuta. Due anni dopo all’Europeo altra delusione, con Cruijff che più ancora del ’74 sbagliò la semifinale contro la sorprendente Cecoslovacchia. Si divorò alcuni gol e non fu – né sarà – la prima e unica volta. Perché una certa mancanza di lucidità sotto porta è stata probabilmente la sua unica pecca, quasi un paradosso visto che uno dei soprannomi con cui è passato alla storia in Italia è stato “Profeta del gol”, da una felice intuizione del giornalista Sandro Ciotti.

Fece scalpore, dopo nove anni irripetibili all’Ajax, il passaggio al Barcellona, per oltre un miliardo di vecchie lire. In Catalogna Cruijff ritrovò il suo mentore Michels. Quando arrivò la squadra era penultima in classifica ed era già stata eliminata prematuramente dalla Coppa UEFA. Cruijff vestì i panni del leader e riscrisse la storia, il Barcellona iniziò a vincere e rimontò, conquistando un titolo spagnolo che mancava da 14 anni, dai tempi di Luis Suárez e Ladislao Kubala. Cruijff fu la mente e il braccio armato di quel trionfo, segnò 16 reti in 26 presenze, suo miglior bottino nei cinque anni in cui rimase in Spagna.

Purtroppo per lui quella prima annata da sogno rimase una mosca bianca nella sua avventura blaugrana. E il progetto di ricreare il modello Ajax in Catalogna – a cui Michels ambiva – si arenò. Almeno per il momento. Non solo per una questione di risultati, ma pure di stile e contenuti, anche perché intorno a Cruijff la qualità dei singoli non era paragonabile a quella dell’Ajax, nonostante l’arrivo nel 1974 dello scudiero Neeskens.

Highlights della favolosa prestazione di Cruijff contro il Real Madrid nel 1974/1975, quando il Barcellona vinse 5-0

La stagione 1974/75 vide Cruijff trasformarsi e iniziare ad agire sempre più da regista e meno da attaccante. La dimostrazione arrivò dalla Coppa dei Campioni, dove il Barcellona si fermò in semifinale contro il Leeds United. Cruijff disputò una serie di partite eccellenti. Non segnò mai, in compenso distribuì assist a profusione, dei quali ne beneficiarono in diversi: Rexach su tutti, ma anche Asensi e Juan Carlos. Forse Johan capì che sul piano dello smalto atletico e dell’energia aveva perso qualcosa rispetto agli anni d’oro e allora – come tutti i grandi fuoriclasse – ebbe l’intelligenza e l’accortezza di arretrare un poco il suo raggio d’azione scegliendo un modo diverso per rendersi utile e continuare a fare la differenza.

Che Cruijff fosse diventato nella seconda parte di carriera più regista lo dimostrò anche l’amichevole di Wembley del 1977, quando la sua Olanda superò 2-0 l’Inghilterra, la sua quartultima apparizione in nazionale prima dell’addio, poco prima dei Mondiali del 1978. Perché abbia rinunciato alla competizione iridata in Argentina resta un mistero. Alcuni parlano di dissenso nei confronti del regime militare di Videla, altri di scarsa forma, altri ancora di ingerenze della moglie Danny Coster. Il diretto interessato non ha mai chiarito.

A Londra in quel 1977 ad ogni modo Johan dimostrò di essere ancora al top, quando e se voleva. Fu l’uomo dietro le quinte, orchestrò tutte le manovre dei suoi con un’intelligenza calcistica senza pari e avviò entrambe le azioni che portarono ai due gol di Peters.

E a proposito di saper giocare ovunque: nell’ultimo match della sua carriera al Barcellona – la finale di Coppa di Spagna contro il Las Palmas del 1977/78 vinta per 3-1, suo secondo trofeo in maglia blaugrana – Johan arrivò persino a giocare (ottimamente) da centrale difensivo!

Johan Cruijff al Feyenoord e l’ennesimo scudetto
[https://myprivacy.dpgmedia.nl]

I tre anni nordamericani sembravano quelli del tramonto dorato. Non fu così. Cruijff tornò all’Ajax nel 1981 e conquistò due campionati, ritrovando l’antico smalto e svezzando il suo erede, Marco van Basten. Poi il grande sgarbo: il passaggio ai rivali per eccellenza del Feyenoord, un po’ come se Messi firmasse oggi per il Real Madrid. Uno smacco per i tifosi dei Lancieri. Non per Cruijff, che a 37 anni era ancora lucidissimo e disputò una stagione eccellente, come non gli capitava da tempo. Un leader che non si scompose nemmeno dopo il 2-8 con cui il suo Feyenoord perse dall’Ajax nello scontro diretto. E così mentre l’allievo van Basten vinse a nemmeno 20 anni il primo titolo di capocannoniere della sua carriera con 28 gol, Cruijff festeggiò un incredibile double, portandosi a casa scudetto e Coppa d’Olanda.

Ciliegina su una magnifica carriera da giocatore, apripista per quella da allenatore, dove non smise di vincere e incantare. Anzi: riuscì finalmente a portare anche a Barcellona il suo verbo, gettando le basi con il Dream Team dei primi anni ’90 (4 scudetti, 1 Coppa Coppe e un’altra persa in finale, 1 Coppa Campioni e un’altra persa in finale) per le squadre pigliatutto dell’epoca contemporanea, quella di Rijkaard e soprattutto quella di Guardiola, il suo allievo prediletto.

Cruijff in panchina al Barcellona [www.ilpost.it]

Per alcuni addetti ai lavori, Cruijff è ancora oggi il massimo. La IFFHS – federazione di storia e statistica del calcio – lo ha messo al 2° posto tra i calciatori del ‘900 alle spalle di Pelé. Non così assurdo. Tra gli europei è stato probabilmente il più grande. L’unico che può competere con lui è l’ungherese Puskás, maggiormente continuo ai vertici e maggiormente creativo di Cruijff, ma meno universale, meno iconico e meno completo, più primo violino e meno uomo orchestra.

Quando è morto, il 24 marzo 2016, il mondo non lo ha celebrato a livello planetario come successo con Maradona. Questo perché Cruijff non è entrato così tanto nell’immaginario collettivo. Per quanto gli effetti del suo modo di giocare e di pensare abbiano condizionato anche l’extra-campo, la sua figura e i suoi insegnamenti restano legati molto più alla sfera sportiva.

Sublime innovatore in campo e in panchina, fuoriclasse senza tempo e senza bandiere, il suo nome resterà scolpito a caratteri cubitali nella storia del calcio. Perché come disse lui una volta: «Non penso che arriverà il giorno in cui, quando si parla di Cruijff, la gente non saprà di cosa si stia parlando».

SQUADRE DI CLUB

• Ajax Amsterdam (1964-1973)
• Barcellona (1973-1978)
• L.A. Aztecs (1979)
• Washington Diplomats (1980-81)
• Levante (1981)
• Ajax Amsterdam (1981-83)
• Feyenoord (1983-84)
VITTORIE CON I CLUB

• 9 campionati olandesi (1966, 1967, 1968, 1970, 1972, 1973, 1982, 1983, 1984)
• 6 Coppe d’Olanda (1967, 1970, 1971, 1972, 1983, 1984)
• 1 campionato spagnolo (1974)
• 1 Coppa di Spagna (1978)
• 3 Coppe dei Campioni (1971, 1972, 1973)
• 1 Supercoppa Europea (1973)
• 1 Coppa Intercontinentale (1972)
SUCCESSI INDIVIDUALI

• 3 Palloni d’Oro (1971, 1973, 1974)
• 2 titoli di capocannoniere del campionato olandese (1967, 1972)
• 1 premio di MVP del campionato americano (1979)
NUMERI INDIVIDUALI

• 395 gol in 707 partite con i club
• 33 gol in 47 partite in nazionale
CARRIERA DA ALLENATORE

AJAX
• 2 Coppe d’Olanda (1986, 1987)
• 1 Coppa delle Coppe (1987)

BARCELLONA
• 4 campionati spagnoli (1991, 1992, 1993, 1994)
• 1 Coppa di Spagna (1990)
• 3 Supercoppe di Spagna (1991, 1992, 1994)
• 1 Coppa dei Campioni (1992)
• 1 Coppa delle Coppe (1989)
Tributo a Cruijff

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