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Grandezza e limiti di Guardiola… e del guardiolismo

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Alzi la mano chi crede che il dibattito sportivo degli ultimi quattordici anni si sia polarizzato, soprattutto, intorno alla venerazione e/o alla distruzione del totem Josep Guardiola, o meglio della sua visione del gioco del calcio. Credo che se potessi attraversare gli schermi dei pc dei lettori, vedrei un “bosco di braccia tese“.

Personalmente, mi interrogo da anni sulle ragioni che hanno messo il calcio del tecnico spagnolo al centro del dibattito, e giusto per evitare ogni equivoco confesso di essere un sostenitore convinto di ciò che Guardiola ha proposto sin dall’autunno del 2008 (un po’ meno del personaggio). Appartengo a quella schiera di appassionati cui nel 2008 non sembrava vero di poter assistere a una cavalcata trionfale della nazionale spagnola e del suo calcio tutto palleggio e ricerca insistita della bellezza, e cui pareva ancor meno probabile che la stagione seguente il Barcellona incerottato e poco convincente del 2007/2008 risorgesse, fino a sublimare tutti i principi propugnati da tale Johan Cruijff in un collettivo che, salvo pochissime eccezioni, avrebbe lasciato sempre le briciole alla concorrenza, coniugando come forse mai in passato pura estetica e concretezza, ma soprattutto vincendo tutto, letteralmente tutto, facendo ricorso alle armi neglette dal calcio degli anni ’90 e in parte dei primi anni 2000, ovvero alla pura qualità tecnica e al fraseggio nello stretto.

Chiedo un po’ di comprensione e anche di fare mente locale: eravamo reduci da gesta incomprensibili come l’esclusione di Giuseppe Rossi dalla rosa delle nostre squadre migliori in ragione della sua statura non eccezionale, ma soprattutto eravamo fiaccati dalle celebri tonnare a centrocampo in voga da molto tempo, tonnare in cui si erano esaltati giocatori straordinari sul piano agonistico e temperamentale (Keane, Davids, Vieira, Deschamps, Conte, Gattuso, Makelele), un po’ meno però sul piano strettamente tecnico.

Non avevo previsto però, nel 2008, che il guardiolismo sarebbe diventato una sorta di culto, con tanto di fanatici che brandiscono il Vangelo secondo Cruijff e che cercano di arruolarti nella loro legione grazie a numerose sottigliezze teologiche e a una malcelata aria di superiorità intellettuale. Neppure avevo previsto, a dire il vero, che nell’arco di pochi mesi sarebbe divampato il fuoco di un’avversione che in Italia (e in Inghilterra) non aveva precedenti, salva forse qualche scintilla di polemica risalente agli anni ’70 e al caso Olanda, e che tale religione avrebbe a sua volta alimentato un culto senza nome ma fiero di irriducibili; neppure avevo preconizzato la pubblicazione di testi intitolati «Chi ama il calcio odia il Barcellona», né che questo titolo mi avrebbe costretto a grattarmi il capo per un bel pezzo, alla ricerca delle ragioni profonde di una simile e feroce inimicizia.

Le magie del tiki taka

Ho scartato subito l’ipotesi dell’antipatia per il vincente, perché i frequenti tonfi del Guardiola post-Barcellona non hanno addolcito i suoi detrattori ma hanno alimentato il sacro fuoco del loro disprezzo, e perché anche squadre come il Bayern Monaco e soprattutto il Real Madrid hanno vinto molto, anzi più del tecnico spagnolo, dal 2012 a oggi, eppure non hanno suscitato analoghe ondate di spregio. La poca empatia suscitata dal Real Madrid affonda le radici in una polemica sterile da bar, più vincolata a singoli episodi arbitrali, al fascino esercitato dalla maglia bianca, ai successi spesso poco puliti in termini di gioco e chiarezza e quasi sempre molto episodici. Nulla però che riguardasse il gioco del Real, i suoi principi, la visione del mondo dei suoi tecnici, e lo stesso discorso vale per il Bayern Monaco o per il Liverpool. Nessuno ha provocato rigurgiti di ostilità paragonabili alle squadre di Guardiola, e d’altra parte sono anche molto rari gli epigoni convinti del Real Madrid o del Bayern Monaco, squadre molto più “neutrali”.

Cerco di arrivare al dunque: come è maturata una simile contrapposizione, che ha fatto usare e spesso sprecare quintali di inchiostro e polarizzato trasmissioni televisive, giornali, il dibattito di chat, social, forum etc..?

Ebbene credo, cercando di non farmi fuorviare da giudizi di valore, che il guardiolismo (che tra poco definirò) radicalizzi alcuni concetti che non fanno parte del nostro bagaglio genetico e culturale sportivo, e che la sua natura abbia gettato un faro su nuovi mondi possibili per i suoi seguaci e portato invece sulla terra l’Anticristo per i suoi nemici.

Partiamo dalle definizioni: non credo che il guardiolismo esista come entità autonoma, ma che si tratti di una versione riverniciata a nuovo della visione di Cruijff, e il tecnico spagnolo del resto da sempre si riconosce debitore nei confronti del maestro olandese, il cui lavoro si è limitato a perfezionare e aggiornare. Più che di guardiolismo, quindi, sarebbe corretto parlare di cruijffismo. Sotto questo profilo, pertanto, credo che l’impatto sul mondo del calcio di Guardiola sia stato un po’ ingigantito, risultando in fin dei conti meno rivoluzionario di come è stato presentato durante la sua ascesa; d’altra parte, eravamo reduci da un lustro che aveva messo in archivio tutti i dogmi di Johan Cruijff e il loro recupero ha quindi effettivamente battezzato l’inizio di una nuova epoca, e forse si deve a questo lungo interregno di un calcio molto diverso da quello di Cruijff la sensazione di aver assistito a una rivoluzione con l’avvento di Guardiola.

Alla luce anche di tale premessa, ritengo che si possa sintetizzare la nascita e la maturazione di due schieramenti contrapposti, entrambi convinti delle proprie ragioni, intorno alla figura di Guardiola, valorizzando due aspetti cruciali del calcio di quest’ultimo e giustapponendoli alle regole fondamentali del calcio italiano.

Calcio di principio vs calcio che fa di necessità virtù

Per spiegarmi meglio, cerco di focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche essenziali del nostro calcio. Noi non abbiamo principi non negoziabili, fatta eccezione per la ricerca ossessiva del risultato. Se il risultato arriva, il resto passa in secondo e forse anche in terzo piano. L’unico principio di fondo, pertanto, è la capacità di fare di necessità virtù: arrabattati con ciò che hai e sfruttalo nel modo migliore, così che le tue chance di successo crescano. Si spiega così, a mio parere, la coesistenza tra una visione che sbriciola i dogmi fino a ridurli all’essenziale (vincere) e un’applicazione tattica e mentale dotata di un’efficacia e di una ferocia che lascia interdetti. In un’intervista di qualche anno fa, Van Nisterlooj disse che giocare contro le difese italiane significava giocare contro chi non perde mai la concentrazione, né le giuste distanze, né la gestione dei tempi della partita, tutte qualità che sembravano moltiplicare il numero dei giocatori e soprattutto dei difensori in campo. Secondo me il campione olandese aveva ragione: nessuno come noi sa che il calcio è uno sport situazionale e che quindi, per massimizzare il risultato, devi saperti adattare alle situazioni.

I nostri tifosi celebrano e non a caso gli allenatori duttili, ovvero coloro che fanno tesoro di questa regola (fai di necessità virtù) e sanno applicarla nel modo migliore, grazie alle proprie capacità e al proprio intuito. Nel nostro immaginario, l’allenatore migliore è quello che si adatta sempre alla situazione concreta e cerca di cavarne il meglio possibile, facendo sfoggio di una versatilità che ai nostri occhi è la dote chiave. D’altra parte, non perdoniamo le astruserie e le manie di grandezza di un tecnico, perché mal si conciliano con una visione così essenziale del calcio e soprattutto con l’estremo rigore funzionale che ne scaturisce: fare di necessità virtù significa mettere tutti i singoli giocatori al loro posto perché svolgano bene il proprio compito, e solo quello, così risultando funzionali al gioco di squadra. Ecco così che si spiegano da una parte un’estrema libertà da ogni dogma e dall’altra una ferocia funzionale e organizzativa quasi senza pari.

Se ci fermiamo un secondo a riflettere, Guardiola scardina entrambe le regole sopra descritte. Da un lato, il suo calcio si fonda sui principi non negoziabili, esattamente come quello di Cruijff, in primis sulla tecnica come valore supremo, e poi sulla costante ricerca dello spazio, e quindi sulla costruzione al tempo stesso scientifica e artistica del gioco. Le squadre cresciute nel culto del fenomeno olandese mettono sempre e comunque certi valori al primo posto e non vi rinuncerebbero per niente al mondo, anche laddove tali valori non dovessero rappresentare la via più immediata e sicura per il successo: per noi è paradossale adottare una strategia simile ed ecco il primo motivo per cui storciamo il naso davanti alla cerebralità di Guardiola, al suo “gioco della serenità e della filosofia“, per dirla con Klopp. D’altro canto, ancora una volta in contrapposizione con la visione italica del calcio, l’interpretazione delle regole da parte dei giocatori di Cruijff e dei suoi epigoni è di una libertà così estrema che sfiora l’anarchia. Un terzino che diventa una punta, un centravanti che non deve fare il centravanti, un portiere che deve saper usare i piedi, una mezzala che può giocare anche da punta esterna se non da falso centravanti: ai nostri occhi, si tratta di una lunga serie di enigmi indecifrabili, di giochini cervellotici che oscurano l’unica cosa che conta, ovvero fare di necessità virtù e, in sostanza, provare a vincere. Quindi, ricapitolando, abbiamo una fedeltà ai dogmi che lambisce il fanatismo e una loro interpretazione totalmente libera e affine all’improvvisazione del jazz, a quella libertà “controllata” così ben descritta dal grande regista greco-americano John Cassavetes quando parlava dei suoi attori: con lui, gli attori improvvisavano liberamente perché le regole destinate a governare l’improvvisazione erano molto rigide e puntali, e tutti le conoscevano bene.

Guardiola è l’Einstein del calcio. Il suo segreto è che fa vedere le cose in modo diverso. Ama i cambiamenti, le sfide. Gli piace passare per un rivoluzionario.

Dani Alves

La tecnica sopra tutto (?)

La seconda ragione per cui la concezione di Guardiola risulta così radicale è la sua valorizzazione del dato tecnico, che diventa il supremo valore non negoziabile. Nel suo calcio, tutti i giocatori devono essere tecnicamente dotati in quanto la creazione del gioco e della superiorità numerica passano necessariamente per l’uso e l’abuso delle proprie doti tecniche; ecco perché persino il portiere deve essere in grado di lanciare una punta e perché ai difensori è chiesto di impostare il gioco. Per noi una concezione simile è controproducente e forse anche incomprensibile: siamo la casa di alcuni dei massimi artisti della storia del calcio, ma gli abbiamo perdonato il frequente ricorso al vezzo e alla giocata solo perché erano funzionali al nostro gioco Non importa se il portiere non sa usare i piedi o se lo stopper li ha montati al contrario, perché questa lacuna non li penalizza in ciò che devono fare al meglio. L’arte va bene ed è giustificata se è riservata al singolo grande artista, e finché questi ci toglie le castagne dal fuoco, mentre non ha senso se diventa qualcosa di collettivo e, ai nostri occhi, omologante.

La vittoria passa soprattutto per altre vie: organizzazione rigorosa, cattiveria agonistica, concentrazione, la capacità di minimizzare gli errori e, appunto, di fare di necessità virtù. La tecnica è un pezzo del puzzle, mentre per Cruijff & C. è tutta la cornice: ecco perché fatichiamo a comprenderci (l’avversione è un po’ reciproca, Cruijff diceva qualcosa come «l’Italia non può vincere con noi ma noi possiamo perdere con l’Italia», sottintendendo sempre una certa superiorità della propria visione).

Ora, non so dire quale tra le due visioni del nostro sport preferito sia “la migliore”, e anzi già porsi questa domanda è un po’ sciocco, perché non si tratta di stabilire ordini ma di capire che esistono visioni tra loro antipodiche e forse proprio per questo molto affascinanti. Anche per tale ragione, auspico che l’acceso dibattito scatenato dal guardiolismo serva prima o poi solo a farci realizzare la parzialità della nostra visione – cui corrisponde la parzialità di quella di Pep.

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