È giunto il momento di fare outing. Calcistico, beninteso. «Anche se sono juventino, ho sempre amato José Mourinho». L’ho sempre detto a denti stretti, possibilmente non in presenza di fratelli di tifo. D’altronde stiamo parlando dell’artefice del trionfo supremo dei peggiori rivali, di un simbolo dell’Inter che, nel gioco delle parti, non ha mai risparmiato bordate e provocazioni nei confronti della Juventus.
Eppure vederlo ieri in lacrime a fine partita, incredulo per avere portato una realtà tanto calorosa e appassionata quanto povera di trionfi a vincere una coppa europea, mi ha fatto tornare in mente la massima andreottiana «il potere logora chi non ce l’ha». Mourinho è tanto odiato dalle tifoserie avversarie quanto è amato dalle proprie. I giocatori (quasi tutti) si butterebbero nel fuoco per lui, si sentono legati da un vincolo eterno, come un capitano con i suoi soldati. Tantissimi suoi ex giocatori hanno parole al miele per lui: da Ibrahimovic a Materazzi, passando per Drogba, Carvalho, Eto’o, Zanetti.
Mou è un condottiero, la fiducia dei giocatori e dei tifosi nei suoi confronti è totale. I romanisti lo sapevano, lo sentivano. In un momento della stagione in cui la Roma era in crisi di risultati, a Trigoria è comparso uno striscione perentorio “con Mourinho fino all’inferno”. Difficilmente una piazza inquieta e umorale come quella romana ha fatto quadrato intorno al proprio allenatore.
Ho sempre reputato le esternazioni e le bordate al microfono dello Special One come qualcosa di non casuale, le ho sempre ritenute il frutto di un’abile strategia mentale, indirizzata ad ottenere un vantaggio psicologico per la propria squadra. In un mondo dove tantissime conferenze stampa degli allenatori sono un concentrato di frasi fatte, finta modestia e pelosa ipocrisia, José Mourinho cita Hegel davanti ad una platea di giornalisti sbigottiti («la verità è nell’intero, sono il più grande perché ho vinto otto titoli tra Italia, Inghilterra e Spagna», 31 agosto 2018), fa finta di non conoscere i suoi detrattori («Non lo conosco. Se questo Monaco (Lo Monaco, ndr) vuole parlare di me, deve pagarmi»), dà del guardone a Wenger che ha osato dire una parola di troppo sul suo Chelsea, instilla a Guardiola persino il dubbio di non amare il proprio mestiere («Pep ha perso i capelli perché non ama il calcio»).
Proprio con quest’ultimo, Mourinho vive la sua più grande rivalità della carriera. Una rivalità totale, sul piano agonistico, ideologico, e persino politico, che arriva a coinvolgere gli stessi calciatori, già compagni di nazionale: da una parte il Barcellona, club di una città di sinistra dalle sfumature anarco-socialisteggianti e dalle spinte indipendentiste anche a costo della lotta armata; dall’altra il Real Madrid, la Casa Blanca, simbolo del potere del franchismo reazionario, in cui le genuine istanze nazionalrivoluzionarie della Falange di José Antonio de Rivera vennero sterilizzate con le buone e con le cattive e ingessate in un abbraccio conservatore con i carlisti, i preti e i grandi proprietari terrieri.
In un mondo dove tantissime conferenze stampa degli allenatori sono un concentrato di frasi fatte, finta modestia e pelosa ipocrisia, José Mourinho cita Hegel davanti ad una platea di giornalisti sbigottiti…
La guerra ideologica tra il calcio posizionale di Guardiola, fatto di reticolati di passaggi ad altissimo tasso tecnico, di movimenti sincronici, di controllo della palla e del campo si scontra con la filosofia pragmatica mourinhana: ferrea organizzazione difensiva, rapidità di trasformazione dell’azione da difensiva ad offensiva con le proprie bocche di fuoco che inceneriscono gli avversari – a Madrid Ozil-Di Maria-Cristiano Ronaldo-Higuain; all’Inter Sneijder-Eto’o-Pandev-Milito; a Londra Lampard-Robben-Drogba-Joe Cole – e le stritolano nel ritmo e nella verticalità. A sconfitte nette il primo anno (la Manita del novembre 2010, le semifinali di Champions dello stesso anno) segue una rocambolesca vittoria della Liga l’anno seguente, con 100 punti in classifica.
L’aspetto che però dà all’allenatore portoghese un crisma di unicità è la capacità di trionfare in ogni contesto: la sua avventura sulla panchina del club più vincente del mondo è sicuramente positiva – una Liga vinta con merito contro una delle squadre più forti del mondo, oltre ad una Coppa del Re e a una Supercoppa di Spagna – anche se non è arrivato l’ultimo tassello in Champions League; nella doppia avventura al Chelsea di Roman Abramovich si porta a casa ben tre Premier League: celebri le battaglie con il Liverpool di Rafa Benitez, anche in Champions dove nel 2005 Mou esce dopo una semifinale equilibratissima; nemmeno la sua esperienza nel glorioso ma già da tempo declinante Manchester United è da bocciare in toto: Mou vince una Europa League nel 2017, una Community Shield e una FA Cup, ma dopo un anno viene assorbito in un grigiore di risultati dovuti a una rosa sbilanciata, male assemblata, a tratti sopravvalutata.
Eppure, come lui stesso ci ha ricordato in questi giorni, la sua leggenda è strettamente collegata ai trionfi con il Porto negli anni 2000 e con l’Inter nel 2010, due outsider (per motivi diversi) del calcio europeo. Dopo essersi calcisticamente e tatticamente formato al Porto e al Barcellona nel ruolo di vice allenatore prima con Robson e poi con Van Gaal, e dopo un breve periodo di apprendistato sulla panchina del Benfica e dell’Uniào Leiria, Mourinho torna sulla panchina dell’Estadio Do Dragao da protagonista, guidando il club ad una sorprendente vittoria in Coppa Uefa nel 2003 con sontuosa finale a Siviglia contro il Celtic di Larsson vinta per 3-2, ma soprattutto con la straordinaria cavalcata in Champions League nel 2004, dove il Porto elimina nell’ordine Manchester United, Lione, Deportivo la Coruna fino all’apoteosi della finale con il 3-0 sul Monaco. Mourinho schiera un 4-3-1-2, con Ricardo Carvalho leader difensivo, Deco uomo di raccordo tra centrocampo e attacco, Costinha – l’uomo del gol allo scadere allo United che fece esibire Mou in un’esultanza sfrenata – e Maniche a dire sostanza e solidità al centrocampo.
Anche il Chelsea era una squadra outsider: prima dell’avvento di Abramovich, i Blues avevano in bacheca un solo campionato vinto, nel 1955. Più che storia, preistoria. Negli anni ’90 erano arrivati altri trofei – FA Cup e la celebre Coppa delle Coppe firmata da un fantastico Gianfranco Zola – e la dimensione del club, sempre ad opera di Italians come Gianluca Vialli e Claudio Ranieri, cresceva, ma non venne mai centrato il bersaglio grosso. Il magnate russo chiamò Mou, fresco campione d’Europa, che – dopo la conferenza stampa di presentazione in cui dichiarò di posizionarsi appena dopo l’Altissimo e di essere uno Special One – impattò come pochi altri nell’ingessata realtà britannica: scardinò il dogmatico 4-4-2 a favore di un 4-3-3 verticale con la mezzala Lampard che si inseriva e finalizzava come se fosse una punta.
La sua favola all’Inter la conosciamo: Massimo Moratti lo sceglie per la consacrazione europea, non riuscita a Roberto Mancini, che pure aveva gettato le basi del dominio in patria, ma che in Europa non riusciva ad andare oltre lo scoglio degli ottavi di finale. Il Vate di Setubal, dopo un primo anno in cui vince il campionato nel solco dell’Inter manciniana, compie il suo capolavoro l’anno seguente: via Ibrahimovic, fuoriclasse decisivo in campionato ma troppo accentratore per gli standard europei, dentro Eto’o e Wesley Sneijder. Il suo 4-3-1-2 prende forma e assimila le sue trame di gioco, e l’arrivo di Pandev a gennaio aggiunge una freccia in più al suo arco. L’Inter cresce in Europa cammin facendo e, dopo i brividi di Kiev e la qualificazione agguantata per un soffio, acquista consapevolezza nel doppio confronto con il Chelsea, piegato dalla solidità difensiva e dal cinismo del calcio transizionale di Mou.
La solidità difensiva della coppia Lucio-Samuel, il cuore e il senso del sacrificio di Zanetti e Cambiasso, le verticalizzazioni di Sneijder e l’istinto killer di Diego Milito vennero massimizzate in occasione delle semifinali contro il Barcellona di Guardiola, in due partite che hanno fatto scuola e che hanno dimostrato come un organismo (quasi) perfetto, allenato da un visionario e comprendente i migliori giocatori del momento, può essere battuto, anche con armi tradizionalmente più vicine alla nostra cultura e al nostro modo di intendere il calcio.
Mentre scrivo queste righe, i festeggiamenti al Circo Massimo di Roma non si sono ancora esauriti, e credo proprio che non lo saranno a breve. Il trionfo della Conference League, ottenuto battendo squadre forse di poco superiori sulla carta e in esperienza come Leicester e Feyenoord utilizzando le classiche armi – organizzazione, concentrazione, cuore, compattezza e capacità di sfruttare al meglio i momenti decisivi – è senza dubbio il trofeo continentale di cilindrata minore tra i cinque vinti da Mourinho, ma è forse quello che farà restare José tra i cuori della gente, più di tutti gli altri, perché regala felicità fanciullesche a un popolo che ha quasi sempre festeggiare gli altri e che temeva ormai di non poter festeggiare più. L’Urbe ha di nuovo un Imperatore, la Città Eterna consacra il nome di José Mourinho tra gli immortali.