Lo premetto: non sono mai stato un resultadista. E anzi: giusto per restare in Argentina, visto che resultadismo come parola è nato lì, venero La Nuestra e il bel gioco d’attacco molto più della mera e robotica ricerca del risultato con ogni mezzo. Amo il bel calcio e nella storia della Coppa Campioni ritengo che ci siano 4 formazioni-cardine: il Grande Real (del quale però è visionabile solo l’ultima campagna europea, 1959/1960), l’Ajax dei primi anni ’70, il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola. Perché hanno saputo unire alle vittorie la qualità assoluta del gioco, trovando un’alchimia perfetta tra individualità e squadra, e proponendo qualcosa di innovativo che ha cambiato il calcio ed è entrato nei libri di storia (il Real più sul piano extra-calcistico, con un’influenza enorme sul prosieguo della competizione e sulla Spagna e l’Europa a livello sociale e politico; le altre tre per quanto riguarda la sfera meramente sportiva).
Ma non per questo, il risultato non conta – e lo dimostrano anche le 4 squadre appena citate, che per lasciare orme indelebili non hanno potuto prescindere dalle vittorie. Non per questo è possibile (e giusto) vincere in un solo modo. Non per questo si deve sminuire chi sceglie un’altra via, chi applica e persegue differenti principi di gioco. Non esiste un solo modo di vincere. E non esiste nemmeno un solo modo per regalare spettacolo ed emozioni. Perché anche nella difesa, nella strategia, nel rispondere colpo su colpo alla mossa di un avversario, sta la bellezza del calcio.
Chi parla di fortuna, casualità e grida allo scandalo per la vittoria – molto italian style – del Real Madrid di Ancelotti lo dica subito: forse il suo obiettivo è trasformare il calcio in una passerella e non più in uno sport dove contano tanti aspetti (non solo la tecnica, ma anche l’agonismo, la mentalità, la tattica). Forse il suo obiettivo è fare come nei primi calci, nei pulcini, negli esordienti dove il risultato non conta.
Qualcosa di totalmente sconnesso dal mondo. Lo sport e il calcio sono – inevitabilmente – anche risultato. Sono vincere e perdere. Sono esultare per un trionfo e disperarsi per una sconfitta. Non sono solo questo. Ma sono anche questo. È la vita. E quando davanti a te hai un gruppo di uomini che dal 2014 al 2022 hanno conquistato la competizione calcistica per club più importante che c’è 5 volte e un allenatore che ha raggiunto il record di 4 successi (con 2 squadre diverse) non può essere solo fortuna. Come non può essere quando si parla di Mourinho, che non ha mai sbagliato una finale internazionale e ha un palmares infinito.
Il Real Madrid non ha vinto perché solo fortunato contro il Liverpool. E non ha vinto perché solo fortunato la Champions League.
Ha avuto fortuna, che è un concetto diverso. Ma la fortuna, che piaccia o no, è da sempre, per sempre e ovunque una componente del gioco. E ha arriso anche a quegli squadroni che citavo prima e che sono entrati sui libri di storia perché ai risultati hanno unito l’estetica. Sarebbe nato il Milan di Sacchi senza l’aiutino della nebbia di Belgrado, nel primo match di ritorno dei quarti di finale contro la Stella Rossa, Coppa Campioni 1988/89 con gli slavi avanti 1-0 a 20 minuti dalla fine? E cosa sarebbe stato del Barcellona di Guardiola senza quella magia di Iniesta dal nulla nella semifinale di ritorno della Coppa Campioni 2008/2009 che riportò la contesa sull’1-1 dopo per altro un dominio nel gioco e nell’intensità del pragmatico Hiddink e due rigori solari non concessi al Chelsea?
Non è solo fortuna o casualità. È mentalità. È storia. È DNA. È abitudine al successo. È il Real Madrid. Forse davvero la sola squadra che poteva vincere una Champions in questo modo.
Le critiche rivolte in questi giorni ad Ancelotti mi ricordano un po’ quelle fatte a Mourinho dopo il Triplete. Un successo meritatissimo quello dei nerazzurri, che seppero eliminare squadroni come il Chelsea e ancora di più un Barcellona che pareva invincibile con una grande prova di ripartenza e verticalità all’andata e con una gestione straordinaria al ritorno, un capolavoro di tenuta difensiva con la squadra per altro costretta in 10 uomini contro 11 per quasi tutto l’incontro.
Nel suo cammino il Real Madrid quest’anno ha eliminato, Bayern Monaco a parte, tutte le squadre più forti d’Europa: il PSG gonfio di superbia e traboccante di nomi altisonanti; il Chelsea campione d’Europa in carica; il Manchester City ipnotico di Pep e forse la favorita numero uno della competizione; il Liverpool super intenso e organizzato di Klopp. Liverpool che – per altro – ha avuto un cammino alla finale molto più agevole del Real e mai ha entusiasmato… Ma questo a quelli che criticano tout court Ancelotti oggi sembra totalmente sfuggire di mente. Perché è più facile usare due pesi e due misure piuttosto che analizzare realmente se stessi e capire che la simpatia o l’antipatia, i sentimenti e le emozioni, giocano comunque un ruolo – piccolo o grande, a seconda dell’equilibrio di chi analizza – in una riflessione sportiva.
Il Real ha vinto non perché era la squadra migliore. Anzi: forse tutte le avversarie incontrate erano migliori di lei (Chelsea a parte?), non tanto in termini di uomini – perché alcune somme individualità del Real forse non le ha nessuno, tranne il PSG – ma di squadra. Ha vinto perché si è dimostrata la squadra migliore.
Ha usato le sue armi perché sapeva di non poter reggere l’intensità e il gioco collettivo di formazioni come City o Liverpool. E d’altra parte ognuno vince usando le sue armi: se la Grecia di Rehhagel – esempio estremo – avesse scelto di affrontare i suoi avversari, tutti più forti di lei, a viso aperto mai avrebbe vinto l’Europeo del 2004. Invece così è riuscita clamorosamente a regalarsi una possibilità e ancora più clamorosamente l’ha colta.
Il Real ha saputo soffrire. E saper soffrire non è facile, non è automatico, non è da tutti. Ha saputo soffrire senza mai crollare.
E ha saputo ribaltare sempre ogni avversario più forte, intenso e organizzato, con i colpi individuali, di puro genio e istinto da calcio vintage, dei suoi assi.
Non c’è mai stato un momento, nella fase a eliminazione diretta, in cui la formazione di Ancelotti non fosse eliminata: 3 tempi su 4 contro il PSG; una buona fetta del secondo tempo contro il Chelsea al ritorno; e di fatto 179 minuti su 180 contro il City. Eppure ha ribaltato ogni svantaggio e ogni situazione sfavorevole. E lo ha fatto contro tre squadroni, non contro formazioni di media caratura del panorama internazionale.
Non è solo fortuna o casualità. È mentalità. È storia. È DNA. È abitudine al successo. È il Real Madrid. Forse davvero la sola squadra che poteva vincere una Champions in questo modo.
Si è scritto molto anche sulla finale contro il Liverpool.
I Reds hanno avuto più predominio del gioco, hanno costruito più occasioni, hanno tirato più volte in porta. E a salvare il Real è stato soprattutto un monumentale Courtois, in questo momento senza ombra di dubbio il miglior portiere del mondo. Ma il Real, come ha spiegato anche Ancelotti e come scritto sopra, non poteva giocare contro il Liverpool ai ritmi del Liverpool. Ogni bravo allenatore sa che deve adattare gli schemi ai propri uomini e anche il modo di giocare ai propri uomini. E gli uomini chiave del Madrid sono avanti con gli anni, logorati da mille battaglie, non hanno più lo sprint per correre come dei forsennati puntando su intensità e ritmo.
Si nutrono di tempo. Di attendismo, di pause e accelerazioni improvvise e sapientemente calibrate. Devono aspettare e sfruttare il momento per colpire con cinismo, lavorando di fioretto e non di sciabola. Avere l’umiltà di capire i propri limiti, saperli nascondere e limitarli, tramutarli quasi in punti di forza per battere un avversario superiore, è sinonimo di estrema intelligenza. Altro che denigrarlo. Ancelotti per come ha saputo plasmare il suo Real, per come ha saputo spingersi dove nessuno avrebbe mai pronosticato, va solo elogiato.
È vero, come hanno scritto Francesco Buffoli e Tommaso Ciuti, che i voti di molti giornali e riviste sono stati eccessivi in favore del Real, gonfiati dalla vittoria. In parte si può capire (si stava pur sempre disputando una finale di Champions League, non il torneo dell’oratorio), ma resta il fatto che occorra sempre partire dalle prestazioni per fare ogni tipo di analisi e valutazioni.
Credo comunque che, oltre a Courtois e alla difesa (con Carvajal, Militão e Alaba mai così performanti e concentrati in questa Champions), un’altra chiave di volta del successo sia da ricercare nel duo di cervelli in mezzo al campo: Kroos e ancora di più Modric. Non hanno fatto giocate risolutive e pesanti in termini di gol o assist, ma la loro gestione del gioco, soprattutto nel secondo tempo, quando non hanno perso una palla nemmeno se pressati o raddoppiati, quando hanno sempre trovato il corridoio giusto per servire un compagno (anche con lanci e aperture da applausi per avviare il contropiede), quando hanno dato una mano in difesa sporcando i possessi e ripartendo con grazia e classe, è stata fondamentale per spezzare il tambureggiante gioco del Liverpool, per allentare la pressione montante degli inglesi, per impedire loro di trovare ritmo.
E infatti, se è vero che il Liverpool ha creato 3-4 occasioni importanti, è altrettanto vero che il Real non ha saputo sfruttare 3-4 situazioni ghiottissime in ripartenza di fatto a tu per tu con Alisson. A me i Reds non hanno mai dato la sensazione di prendere realmente in mano la partita nel secondo tempo: trovo lo abbiano fatto un po’ di più nel primo. Ma nel secondo – soprattutto ripeto grazie alla sagacia tattica e al controllo del pallone dei due ingegneri del centrocampo merengue – non hanno mai davvero trasformato singole folate e singole occasioni in un dominio totale dell’incontro.
Con due altri centrocampisti al posto loro, privi della stessa qualità tra i piedi, della stessa intelligenza, della stessa bravura nel saper leggere ogni situazione, sono certo che il Real avrebbe sofferto molto di più e forse oggi parleremmo di una finale dall’esito diverso.
Il Real aveva secondo me sofferto di più contro il PSG e contro il City. Il Liverpool ha creato molto, ma ha anche sbagliato passaggi e scelte. E se il Real fosse stato più cinico in contropiede, lo scarto sarebbe stato paradossalmente anche più ampio. Non si dimentichi per altro pure il discutibile gol annullato a Benzema, al tramonto del primo tempo, al primo vero affondo offensivo degli spagnoli: una rete probabilmente regolare o che, quanto meno, non sarebbe stato affatto scandaloso convalidare.
Onore al Real dunque. Con buona pace di chi oggi rosica, di chi pensa che il calcio vada letto solo in un modo, di chi non ammette (pur partendo da una visione diversa) che la bellezza di questo sport è nella sua varietà. Perché saper cogliere più sfumature nel gioco e nella vita è un arricchimento, non un limite.