Così come studiando la Storia ti viene insegnato che esistono date, eventi o personaggi che ne scandiscono il corso, anche nel calcio si ricorre spesso alla stessa modalità per riconoscere e individuare quei momenti che per diverse ragioni hanno segnato una svolta, un cambiamento.
Se ci soffermiamo ad aspetti puramente tecnici è universalmente riconosciuto dagli addetti ai lavori, in particolare da chi opera sul campo in veste di allenatore, come la parabola di Arrigo Sacchi abbia segnato un momento chiave per l’evoluzione del gioco del calcio a livello nazionale ed internazionale. Probabilmente è lecito affermare che la “rivoluzione sacchiana” rappresenti la più grande novità vista nel calcio italiano negli ultimi 35 anni, almeno fino all’arrivo del “guardiolismo” e del Juego de Posiciòn, tendenza quest’ultima che ormai ha preso piede da almeno una decina d’anni a questa parte e che forse sta degenerando in un manierismo che però meriterebbe un altro articolo di approfondimento dedicato.
Tornando ad Arrigo, nella mia esperienza di tecnico professionista (iniziata nella stagione 2003/2004) ho notato come da sempre esistano tuttavia pareri discordanti. Spieghiamoci meglio, sono più stati più i meriti oppure la grandezza della parabola Sacchiana si deve a un insieme di circostanze favorevoli?
Ho potuto altresì appurare come il livello di apprezzamento e stima nei confronti del Profeta di Fusignano sia direttamente proporzionale alla categoria in cui ho lavorato. Tanto più si sale tanto più il suo contributo è stato apprezzato, tanto più si scende tanto meno se ne è sentita l’influenza.
Da operatore di campo non posso fare altro che prendere in esame i diversi miti che ne hanno alimentato l’aura e vedere se dal punto di vista puramente tecnico hanno una reale valenza oppure se si possono in qualche modo confutare.
Procediamo con ordine, con il primo di due grandi miti che andremo ad analizzare.
«Sacchi è stato un allenatore fortunato»
Verdetto: Vero ma con grossa grossissima riserva.
Argomento principe dei detrattori è che con squadre di quel calibro, in particolare il primo Milan vincente del suo ciclo, quello dei tre olandesi per intenderci, qualsiasi allenatore sarebbe stato in grado di raggiungere determinati obiettivi. Taluni sostengono inoltre che a ben vedere avrebbe potuto fare anche meglio, in particolare a livello domestico (serie A).
Mi permetto di dissentire, specie nel primo caso. Quello che i critici dimenticano è che buona parte di quel Milan vestiva rossonero da ben prima che Sacchi arrivasse (‘87/’88). Mi riferisco soprattutto al reparto difensivo, attorno al quale peraltro vennero costruite molte delle fortune di quella squadra. I vari Baresi , Maldini, Costacurta, Tassotti, Filippo Galli erano già in rosa da diversi anni, eppure quel Milan non si può certo dire che avesse raggiunto chissà quali grandi traguardi. Il fatto di aver valorizzato quel gruppo di giocatori va sicuramente annoverato tra i grandi meriti del nostro Profeta, ed oltre a loro aggiungerei altri elementi già presenti in rosa nelle stagioni precedenti come Donadoni, Massaro e Virdis.
Ricorderei inoltre che alcuni di loro (Baresi, Tassotti e Virdis) erano ben oltre il loro “Prime” (picco di forma fisica). A corroborare la mia tesi farei notare come oltretutto i veri talenti nel sopra citato gruppo di giocatori fossero probabilmente solo Franco Baresi e Paolo Maldini. Tutti gli altri, per stessa affermazione di molti di loro, erano potenzialmente solo buoni giocatori che senza Sacchi e la sua didattica di campo avrebbero avuto una carriera tutto sommato “normale”.
Altro capitolo si potrebbe aprire per i giocatori acquistati dopo il suo arrivo a Milano, tra i più importanti in ordine sparso Ancelotti, Gullit, van Basten, Rijkaard. Anche in questo caso Sacchi seppe valorizzare il materiale umano messogli a disposizione in maniera egregia. Fatta eccezione per van Basten, attaccante già estremamente prolifico e in qualche modo impostato nel ruolo, è bene ricordare ad esempio come sull’acquisto di Carlo Ancelotti la società (Berlusconi) nutrisse forti riserve, in particolare per la tenuta fisico-atletica.
Sacchi invece decise di impuntarsi, ritenendolo un giocatore di un’intelligenza tattica superiore e che quindi potesse in qualche modo colmare determinate lacune atletiche. Memorabile in questo senso la scelta di schierarlo esterno alto a sinistra nel mitico 5-0 contro il Real Madrid durante la prima vittoriosa campagna in Coppa dei Campioni.
Per quanto riguarda Gullit, sebbene fosse già un giocatore di profilo internazionale, va ricordato che il suo ruolo era principalmente quello di centrocampista e non di attaccante come invece Sacchi decise di utilizzarlo, principalmente per esaltarne le straordinarie doti atletiche soprattutto in fase di pressione sulla difesa avversaria. Discorso simile per Rijkaard, che nasce difensore ma viene proposto con successo clamoroso da centrocampista box to box.
Quello che a mio avviso rese grande il Grande Milan fu proprio l’approccio alla fase di non possesso, con un’azione sistematica di pressing altissimo sulla squadra avversaria, spesso e volentieri impreparata ad affrontare dieci giocatori che in modo armonico e equilibrato andavano tutti ad aggredire lo spazio in avanti. La tendenza delle squadre italiane in fase di non possesso era fino ad allora quella di proteggere lo spazio dietro e quindi arretrare.
Si potrebbero menzionare poi altri giocatori, magari non altrettanto talentuosi ma giovani ed italiani, che beneficiarono e non poco del lavoro proposto dal tecnico romagnolo. Mi vengono in mente Simone e un giovanissimo Albertini ad esempio.
Se poi andiamo ad analizzare il capitolo post Milan, dal ’91 in avanti quindi, allora forse è lecito pensare che qualcosina in più si sarebbe potuto fare, visto e considerato il periodo storico e i giocatori a disposizione. Bene ricordare ai detrattori che in quella serie A però le antagoniste non erano esattamente l’Atletico Oratorio o la Pro Volemose Bene, bensì l’Inter di Trapattoni e dei tre tedeschi oltre al Napoli di Maradona.
Non mi riferisco nemmeno alle esperienze di Madrid (da tecnico sponda colchonera e da direttore tecnico sponda merengue), bensì alla sua avventura azzurra in veste di CT.
Attenzione, non intendo dire che Arrigo avrebbe potuto far meglio in termini di risultati ottenuti. Ricordiamo che di mezzo c’è sempre una finale di Coppa del Mondo persa ai rigori nel ‘94, a cui – vero – fece seguito un non esaltante Europeo nel ’96…
L’inflessibilità tattica è stata il suo grande limite e lo ha portato spesso a scontrarsi con calciatori di talento. Vedi van Basten, Baggio e Vialli
Quando dico che si sarebbe potuto fare meglio penso che, in riferimento alla campagna di Usa ’94 in particolare, Sacchi spesso sacrificò molto talento individuale perché non funzionale al suo 4-4-2.
La sua inflessibilità ne ha rappresentato per me il suo più grande limite e spesso lo ha portato a scontri abbastanza forti con giocatori di talento non troppo innamorati della sua causa tattica, penso a gente come Roberto Baggio, Marco van Basten e Gianluca Vialli per esempio. Se il mondiale del ’94 si giocasse oggi credo che ogni allenatore probabilmente tenterebbe di far coesistere lo stesso Baggio con Gianfranco Zola e Beppe Signori nel picco della loro forma, magari in un tridente di “piccoli” come quello visto a Napoli sotto la guida di Sarri. Lo stesso Vialli, forse il più forte numero 9 italiano di quel periodo, non venne nemmeno convocato per quella campagna.
Dove e perché è quindi lecito affermare che Sacchi “ebbe culo”?
In ultima istanza ritengo che, riconosciuti i tanti meriti sopra citati, la sua grande fortuna sia stata quella di farsi trovare nel posto giusto (stadio san Siro di Milano) al momento giusto (3 settembre 1986). A sorpresa il suo Parma vinse in casa del Milan in un quarto turno di Coppa Italia, con un gioco innovativo e sfrontato proposto per giunta fuori casa. Tutto ciò fece sì che il nuovo presidente rossonero, emergente, ambizioso e con capacità di spesa, decise di far di tutto per portarlo alla guida del proprio sodalizio l’anno successivo. In definitiva parliamo di una fortuna ampiamente meritata. Il resto è Storia.
Fu vera rivoluzione?
Se nella prima parte abbiamo in qualche modo sfatato il mito secondo cui i successi di Arrigo Sacchi siano dovuti principalmente al fattore C, in questo secondo capitolo cercherò di far luce sulle ragioni per cui sia legittimo o meno affermare come il modo di fare e pensare calcio sia stato definitivamente influenzato dall’impatto che il tecnico romagnolo ha avuto sul panorama calcistico nazionale ed internazionale. Premetto che da tecnico l’impulso sarebbe quello di dilungarmi in una lunga e noiosa analisi, mi rendo tuttavia conto che chi mi sta generosamente leggendo possa apprezzare il dono della sintesi, magari in quei 10-15 minuti a disposizione mentre si sposta sui mezzi pubblici.
Per queste ragioni ho pensato ad una top 3 delle ragioni per cui quella Sacchiana si possa davvero considerare una rivoluzione, almeno per noi operatori di campo. Proveremo poi a capire se gli effetti di tale rivoluzione siano stati o meno duraturi, se quindi il lascito tecnico di Arrigo sia di fatto attuale ancora oggi dopo ormai un trentennio.
Strategie di comunicazione e immagine
Uno degli aspetti che spesso si tende a dimenticare è a mio avviso quello legato alla figura del Sacchi mediatico. Mi pare evidente come siano esistiti dei particolari legati al modo di comunicare ma anche al look che hanno reso la sua figura altamente riconoscibile. Occhiale da sole Ray Ban, postura impostata, una sintassi articolata e perlopiù corretta e un innovativo utilizzo di neologismi o vocaboli magari di origine anglosassone, emblematico ad esempio il caso del verbo “pressing” per definire il lavoro del singolo o della squadra che porta pressione.
Niente di tutto ciò era a quel tempo scontato, generalmente gli allenatori potevano apparire a volte anche trasandati e fuori forma e spesso si trovavano in imbarazzo di fronte alle telecamere. Sacchi decide invece di giocare anche sull’immagine e su un diverso tipo di lessico per far passare il suo messaggio, alla squadra e ai media. Di fatto è figlio del suo tempo, sappiamo come gli anni ’80 abbiano rappresentato l’esaltazione di un certo tipo di estetica, a volte anche in modo frivolo, rimandando ad un certo “edonismo Reaganiano” tanto caro al presidente Berlusconi.
A oggi certi aspetti sembrano scontati, mi sembra oltretutto che molti allenatori giochino a volte più su queste strategie che non su reali contenuti tecnico-tattici, vedi Mou ad esempio. Ritengo quindi lecito affermare che Sacchi sia forse stato il primo vero “allenatore mediatico”, in questo senso sicuramente rivoluzionario. È altresì corretto ricordare come questo approccio articolato, rigido e a volte un po’ arido sia risultato non così facile da digerire dalle rose con cui lavorò. In fondo fu poi uno dei motivi della durata relativamente breve della carriera di Sacchi ad altissimo livello.
Filosofia alla base e principi tecnico-tattici
Il primo grande comandamento inciso nelle tavole del “metodo Sacchi” è che il risultato si ottiene attraverso il gioco. Punto. Un gioco propositivo, organizzato, volto al controllo dell’avversario qualunque esso sia in qualunque circostanza ambientale. Altra ragione quest’ultima che fece innamorare Berlusconi, il quale sognava di mettere in piedi una squadra vincente ma al tempo stesso divertente e bella da vedere, anche televisivamente aggiungo, in perfetta linea con la commercializzazione del calcio che avrebbe mosso i primi passi proprio in quell’epoca. Fin qui tutto facile, non conosco un allenatore che non proclami di voler tener la partita e l’avversario sotto controllo, da qui alla messa in pratica di tale principio però ce ne passa… Occorre veramente tanto lavoro e soprattutto la volontà dei giocatori di assorbire determinati concetti, specie se rompono con la tradizione e la routine.
Il sistema di gioco attraverso cui Sacchi impone il proprio teorema, è risaputo, fu il 4-4-2 in una versione che definirei scolastica, con difesa a zona. Due linee piatte di 4 più due punte dinamiche e complementari, privilegiando giocatori non egocentrici disposti a sacrificarsi a favore del collettivo. Fin qui niente di incredibilmente rivoluzionario, la zona era già stata praticata in Italia (vedi Liedholm ed Eriksson oltre a uno sconosciuto allenatore Boemo allora impegnato in Serie C).
Per quanto riguarda il sistema di gioco va però ricordato che allora le squadre, non solo in Italia, prediligevano qualcosa di più simile ad un 5-3-2 o un 4-4-2 a zona mista, con l’utilizzo di figure mitologiche come il libero, gli stopper, il terzino fluidificante e l’ala tornante (vedi Bearzot).
Ciò che fece realmente la differenza nel suo 4-4-2 fu in fase di non possesso la cortissima distanza tra le linee e l’utilizzo di un baricentro molto alto forzando quella che poi venne definita “trappola del fuorigioco” (ricordate il braccio alzato di capitan Baresi?). In fase di possesso invece si andava alla ricerca di giocate sistematicamente provate in allenamento, a volte fino allo sfinimento, attraverso esercitazioni di cui parlerò in seguito.
In sostanza: non si improvvisa niente e non si riceve, se possibile, la palla sui piedi ma nello spazio. Tutto ciò – ahinoi – parzialmente a scapito della fantasia. Non è un caso come con l’avvento di Sacchi la figura del “10” abbia trovato vita difficile, i giocatori di talento venivano al massimo dirottati sull’esterno, lontano quindi dalla porta e dal centro del gioco. Da lì in avanti molte squadre si sarebbero ispirate agli stessi principi e ci fu sicuramente un discreto fiorire di 4-4-2 scolastici che sarebbe perdurato almeno fino ai primi anni ‘2000, fino cioè all’avvento dei 4-2-3-1 e alla riscoperta dei trequartisti.
Ricorderei tra le più similari e competitive le squadre di Capello in primis ma anche del pupillo Ancelotti nei sui primi passi a Reggio Emilia e Parma e più recentemente a Napoli, del già citato Eriksson versione Lazio, di Ferguson (che in verità ha sempre fatto 4-4-2), di Cuper specie negli anni di Valencia oltre al Brasile poco Brasile di Parreira versione Usa ’94.
Per dovere di cronaca è giusto ricordare che durante quel periodo esistevano comunque sacche di resistenza, con allenatori che non avrebbero abbandonato la difesa a uomo per almeno un altro decennio. Mi vengono in mente a livello domestico Cesare Maldini con le sue Under, Gigi Simoni ed Eugenio Fascetti. All’estero inoltre, verso la metà degli anni ’90, Van Gaal stava lavorando ad un progetto tecnico davvero interessante con il suo Ajax che non avrebbe trovato grossissimo seguito allora, ma che oggi sembra stia ispirando direttamente o indirettamente più di un tecnico. In definitiva anche in questo caso Sacchi seppe cambiare il modo di vedere calcio, almeno per una quindicina d’anni.
Teoria e Metologia di allenamento
Andiamo quindi ad analizzare l’aspetto forse meno discusso ma sicuramente più rivoluzionario: la didattica di Sacchi.
Se c’è stato un aspetto del far calcio che non sarebbe più tornato come prima e che di fatto potremmo ritenere d’attualità ancora oggi è proprio quello legato al modo di gestire e ottimizzare la “settimana”, come viene chiamata in gergo, ovvero alla metodologia con cui i microcicli di allenamento settimanali vengono organizzati. Aggiungerei che anche il periodo pre-competitivo o “preparazione pre campionato”, quando ancora si faceva senza l’ostacolo delle varie tournée estive in Asia o in USA, subì cambiamenti piuttosto radicali.
Come ricordato spesso da alcuni suoi ex giocatori, mi viene in mente Ancelotti ad esempio, prima di Sacchi le squadre sostanzialmente si allenavano in modo ripetitivo senza tener conto del periodo competitivo, del giorno della settimana o dell’avversario da affrontare. La seduta di allenamento era di fatto sempre la stessa: una fase iniziale di riscaldamento con corse attorno al campo più esercizi pre-atletici senza palla, una fase centrale di esercizi tecnici con palla magari con qualche tiro in porta ed una fase finale con partitella. Tutto ciò senza tener conto delle specificità dei singoli, come ad esempio il ruolo. Ci si allenava sempre allo stesso modo e tutti nello stesso modo. Stiamo chiaramente generalizzando ma questo era sicuramente il filo conduttore.
Sacchi diede molto spazio al suo preparatore atletico, Vincenzo Pincolini. Con lui ogni seduta di allenamento doveva perseguire obiettivi tecnico-tattici e atletici diversi. Era qualcosa di rivoluzionario rispetto a prima, quando ci si allenava sempre allo stesso modo.
Eccoci quindi alla vera grande rivoluzione. Con Sacchi ogni seduta doveva perseguire obiettivi tecnico-tattici o atletici diversi. Ricordo ancora che salvo alcune sfumature (principalmente per l’aumentato numero di infrasettimanali) stiamo parlando di uno metodologia tutto sommato attuale ad alto livello.
Più precisamente partiamo ricordando come Sacchi volle dare uno spazio molto rilevante al suo preparatore atletico, Vincenzo Pincolini. Non che tale figura non fosse già stata introdotta in passato, molte squadre si avvalevano di tale supporto, tuttavia si trattava perlopiù di allenatori di atletica leggera prestati al calcio, che quindi allenavano i calciatori come sprinter o mezzofondisti a seconda del caso. Ci furono eccezioni ovviamente, penso al contributo di un pioniere come Vittori ad esempio.
Con Sacchi e Pincolini si cerca invece di allenare il calciatore in un modo più appropriato, rispettando il modello prestativo calcistico. In parole povere, meno corse continue intorno al campo e più Fartlek, ovvero corse brevi con variazioni di velocità, alternando fasi a regime aerobico con fasi a regime anaerobico. Grande attenzione poi venne dedicata all’allenamento della forza, introducendo l’utilizzo delle macchine isotoniche, aspetto questo che solo molto recentemente è stato parzialmente rivisto in ambito di preparazione.
Tra i metodi di allenamento più innovativi a livello tecnico tattico in fase di non possesso citerei i lavori “a pressione sulla difesa”. Situazioni in cui i 4 componenti della linea difensiva difendono la porta mentre vengono attaccati generalmente da 6 o 8 giocatori. Grande strumento quest’ultimo per affinare la chimica ed armonizzare i meccanismi del reparto difensivo.
Altro grande must dell’allenamento tattico diventò poi “l’attacco ai colori”, in cui sostanzialmente si chiedeva alla squadra schierata di organizzare movimenti difensivi come attacchi, coperture e scivolamenti a seconda del portatore di palla avversario, in quel caso rappresentato da sagome contrassegnate da un colore specifico e disposte precedentemente in campo a simulare la squadra avversaria. In fase di possesso penso ai cosiddetti “10 vs 0”, situazioni molto analitiche in cui alla squadra schierata si chiede di sviluppare movimenti con e senza palla che portino ad attaccare la porta avversaria nel modo più efficiente possibile nel più breve tempo possibile, tutto ciò in assenza di avversari.
Come si evince da queste noiose descrizioni tali esercitazioni non furono mai particolarmente amate da molti giocatori, i quali probabilmente avrebbero preferito strategie di allenamento meno cervellotiche e più affini al gioco. Tuttavia non si può negare come questo tipo di lavori abbia consentito di fare dei passi da gigante in termini di preparazione tattica, aspetto diventato molto peculiare del calcio nostrano aggiungo.
Chiudo dicendo che queste metodiche sono state soppiantate solo molto recentemente, quando diversi tecnici hanno deciso di rincorrere il gioco di pozione in stile Guardiola. Quest’ultimo prevede allenamenti meno schematici e più interpretativi, meno movimenti pre organizzati e più esecuzione di principi di gioco generali, lasciando più spazio alla libera esplorazione del giocatore e allo sviluppo di scenari più diversificati.
In definitiva veniamo al domandone. Viste e considerate le premesse possiamo affermare che quella Sacchiana sia stata una vera rivoluzione?
Arrigo Sacchi ha cambiato il modo di lavorare di almeno un paio di generazioni di tecnici per almeno un ventennio, tuttavia alcuni (pochi) aspetti della sua filosofia e del suo approccio appaiono oggi superati. Penso in verità più al modo di comunicare alla squadra che non alle idee generali. Non è casuale che il suo approccio diretto e poco incline alla mediazione abbia avuto un discreto successo nell’era pre Bosman, quando ancora il potere in mano ai giocatori ed ai loro procuratori era limitato. In quel contesto, scarso o campione che fossi, dovevi rispettare le idee di società e tecnico. Guarda caso dopo Bosman (’95) la carriera di Arrigo si è di fatto conclusa, da lì in avanti i tecnici di maggior successo non sarebbero più stati solo brillanti strateghi di tattica ma più generalmente dei “gestori”, ovvero bravi e smaliziati comunicatori in grado di condividere il gergo ed il vocabolario di uno spogliatoio sempre più ricco di prime donne.