Immagine di copertina: il Bologna 1964
Prendiamo le mosse dallo spinoso e nebuloso “caso Sinner“, che da qualche tempo riempie le colonne dei rotocalchi sportivi e non, per affrontare un paio di questioni delicate e spesso intrecciate tra di loro: la cultura appunto sportiva e il nazionalismo italico che ne permea spesso le note.
Senza voler entrare nella insanabile diatriba tra colpevolisti e innocentisti per la buccia di banana su cui pare sia scivolato anche il tennista altoatesino, mi sembra doveroso sottolineare che, ogni qual volta uno sportivo azzurro viene pizzicato in fallo in qualche controllo, la stampa di settore e quindi buona parte dell’opinione pubblica tendono a sposare l’idea dell’errore o, addirittura, a gridare al complotto e alla malafede dei verificatori. È sempre successo così, specialmente se il soggetto accusato è un campione e se ha, come nel caso di Sinner, una “faccia pulita”.
Detto che invece non si usa la stessa prudenza e le medesime argomentazioni assolutorie quando si tratta di sospetti su atleti stranieri (che siano poi condannati o meno), come Ben Johnson, Lance Armstong, Stephen Roche e il tennista australiano Nick Kyrgios, è sufficiente ricordare i casi più clamorosi, tutti ampiamente dibattuti e forieri di ulteriori discussioni, come quelli di Bugno, di Pantani, della Di Centa, giunta addirittura alle soglie di un Ministero, e ancora di Alex Schwazer e di altri. Tutti innocenti e tutte vittime di persecutori invidiosi e malvagi, secondo le più autorevoli fonti giornalistiche, italiane ovviamente. E perfino spesso anche secondo esponenti federali e del massimo organismo sportivo nazionale, il Coni.
È proprio l’esposizione in tal senso di questi alti dirigenti a gettare una luce obliqua e non bella sulle vicende di doping in Italia e sullo stesso concetto di “cultura sportiva” che gli organi federali dovrebbero promuovere o, almeno, tutelare.
Prima, voglio sottolineare con più forza come il vittimismo italiano verso arbitri, giudici e organismi di controllo a livello internazionale sia un malcostume di sottocultura sportiva che non trova epigoni negli altri Paesi e che rende certe scene che vediamo puntualmente a ogni Olimpiade o torneo ufficiale di alto livello perfino lesive del nostro prestigio e della nostra credibilità.
Sembra che tutti a livello internazionale ce l’abbiano con noi: gli arbitri di calcio, di pugilato, di pallanuoto, di scherma o di lotta greco romana, i giudici di ginnastica, di tuffi o di nuoto sincronizzato e, ultimi ma non meno dannosi, prevenuti e imbroglioni, i medici del servizio antidoping. E il messaggio, chiaro e forte, che scaturisce da questo comportamento, a nostro avviso inaccettabile, è che il giudice sportivo sovranazionale, lungi da essere terzo, non è mai affidabile, a differenza – ecco la contraddizione stridente e puerile – di quello nostrano che è infallibile, inattaccabile e al di sopra di ogni sospetto.
Finché non ci si libera, a tutti i livelli, dell’assunto per il quale il rigore che ci hanno concesso è sacrosanto, mentre quello che ci fischiano contro è perlomeno dubbio se non proprio inventato, non ci si dovrebbe scagliare contro nessuna tifoseria nostrana inferocita.
E pensare che un grande allenatore saggio e intelligente, Vujadin Boskov, slavo italianizzato nel calcio ma non nei difetti, aveva coniato una frase breve e geniale per insegnare un giusto atteggiamento verso le decisioni dei Direttori di Gara: «Rigore c’è quando arbitro dà». Purtroppo la grandiosità semplice di questo mazzetto di parole non solo non è stata colta, ma è stata addirittura svilita e dileggiata, proprio come il suo autore. Eppure, racchiuso lì c’è l’atteggiamento corretto che bisognerebbe avere verso gli arbitri, i giudici e perfino la VAR.
Essi sono una variabile del gioco, difettose come tutte le variabili di tutti i giochi e imprevedibili come tutte le componenti di ogni attività agonistica. Un vecchio conterraneo di Boskov, il grande allenatore di basket Aza Nikolic, soleva ripetere un lungo concetto che provo a riassumere così: «In tanti anni, non sono mai riuscito a capire quando e perché il ferro del canestro te la sputi fuori e quando te la accompagni dentro la retina. Sta di fatto che io ho sempre detto ai miei lunghi di essere pronti al rimbalzo. Così è per il fischio degli arbitri, devi accettarlo come un tiro sbagliato ed essere preparato a un fallo contro. L’arbitro è un ferro del canestro». A parte quest’ultima parte un tantino lesiva, il resto del discorso non fa una grinza e forse è proprio la fonte ispiratrice della famosa frase del nostro Vujadin.
Ritornando al mondo di Boskov e andando a pescare nelle increspate e fosche acque della memoria, anche nel calcio italiano ci fu un caso, allora controverso e mai del tutto chiarito dopo, di doping e antidoping molto scabroso e che ha inciso profondamente nella storia dei nostri campionati. Esattamente sessanta anni fa, nel marzo del 1964, cinque giocatori del Bologna, un grande Bologna che “tremare il mondo aveva ripreso a fare”, vengono trovati positivi all’anfetamina a un controllo antidoping al termine di una partita di Campionato, vinta 4-1 contro il Torino.
Il clamore è enorme, sia per il nome dei giocatori ‘pizzicati’, Fogli, Tumburus, Perani, Pascutti e il capitano Pavinato, sia perché quella vicenda sta così per risolvere a tavolino la lotta per lo scudetto che, la domenica del fattaccio, coinvolge le milanesi e lo stesso Bologna. E la sentenza della Disciplinare è infatti inflessibile, penalizzando i felsinei di tre punti, compreso lo 0-2 per i granata, e squalificando l’allenatore rossoblu, il mitico Fulvio Fuffo Bernardini.
I giocatori, dichiaratisi ovviamente innocenti, sono invece creduti e assolti per aver assunto l’anfetamina evidentemente a loro insaputa. Fino a qui siamo perfettamente nel solco della normalità e anche le successive manifestazioni di protesta dell’intera città delle Due Torri che grida al complotto ordito delle “solite” milanesi rientra nell’alveo della consuetudine più scontata.
Da qui, però, la storia si ingarbuglia fino a diventare un pasticcio irrisolvibile e tuttora incomprensibile per molti aspetti. Il presidente del Bologna, quel Renato Dall’Ara cui è stato poi intitolato lo stadio cittadino, invece di ricorrere contro il verdetto in sede sportiva, si rivolge alla Magistratura ordinaria contravvenendo in modo palese alla convenzione regina del Diritto Sportivo. Questo è un punto ancora controverso ed è quasi un garbuglio nel garbuglio, dal momento che i tre avvocati bolognesi che firmano l’esposto, Cagli, Gabellini e Magri non si capisce bene per conto di chi lo presentino.
Ufficialmente il Bologna si defila, ma ipotizzare un’iniziativa a titolo personale dei tre legali è arduo. Il presidente è angosciato, tanto che molti temono per il suo cuore malandato, e ciò lo induce probabilmente in un errore che sarebbe esiziale ma che il Giudice Sportivo gli perdona forse proprio per le sue condizioni critiche, dimenticando per giunta di applicare una responsabilità oggettiva più che palese. Forse inconsapevolmente questa mossa intempestiva, e comunque perdonata, è però quella che porta in modo rocambolesco al clamoroso ribaltamento della situazione.
Le forze dell’ordine infatti, su ordine della magistratura che, com’è noto, una volta chiamata in causa procede senza guardare in faccia nessuno, si mettono subito all’opera per sequestrare le provette incriminate e per eseguire le controanalisi chieste da quei legali che operano stranamente senza mandato. Nel frattempo, la società rossoblu decide ufficialmente di fare regolare ricorso al Giudice Sportivo, come impone la clausola vincolante e da qui nasce un ulteriore pasticcio che riguarda due serie distinte di flaconi, una che li presenta sigillati e l’altra no, una consegnata ai carabinieri e l’altra no, una tenuta immobile e al buio come da prescrizione e l’altra indebitamente trasportata.
Sta di fatto che gli analisti federali non possono effettuare correttamente le controanalisi mentre quelli nominati dal Giudici emettono un responso di “totale assenza di tracce di anfetamina”. Ecco quindi che il mancato rispetto della già citata clausola compromissoria produce i suoi effetti nefasti. Il Giudice Sportivo e quello Ordinario emettono infatti due sentenze opposte e pretendono entrambi che vengono rispettate creando un problema molto serio di difficilissima soluzione.
Del resto, permettetemi questa digressione, non ci fosse questa famosa clausola ancora adesso, ogni atleta di sport di squadra che subisse un fallo volontariamente pesante e denunciasse per questo l’avversario all’autorità ordinaria, innescherebbe una serie di conseguenze, obbligatorie come abbiamo visto, capaci di portare la questione scatenante molto in là nel tempo e in terreni molto accidentati sul piano sociale. Diverso è ovviamente il caso che riguardi l’intervento autonomo della magistratura civile, non chiamata in causa da nessuno e quindi agente d’ufficio, se intravede l’ipotesi di un reato grave, come quando presume un illecito amministrativo o una frode verso avversari o sportivi terzi.
Tornando al caso del doping bolognese di 60 anni fa, la sentenza assolutoria del Giudice ordinario, non avendo alcuna influenza in territorio strettamente sportivo, alimenta comunque il clima di presunta persecuzione dell’ambiente felsineo e mette in serio imbarazzo i colleghi federali. Siamo nel frattempo, tra ricorsi, sequestri mancati e quelli riusciti, sentenze divergenti e perfino accuse di manipolazioni intercorse, già a metà maggio.
Il torneo è proseguito, con il Milan che si è perso, mentre il Bologna insegue l’Inter capolista con tre punti di svantaggio, esattamente quelli tolti dalla sentenza e ormai mancano pochissime giornate alla fine del campionato. Il 16 di quel mese, la CAF, una sorta di Corte d’Appello quindi definitiva del mondo calcistico, emette un verdetto che definire pilatesco è riduttivo. In pratica, si afferma che ormai non è più possibile accertare senza un plausibile dubbio la positività dei cinque giocatori e vengono quindi restituiti i tre punti al Bologna che si ritrova ora appaiato ai nerazzurri milanesi in testa alla classifica.
Il clima teso e drammatico sembra attenuarsi per un attimo, ma è solo un attimo, appunto. Più che la reazione dell’Inter, che anzi rinuncia al possibile controricorso, è la salute di Dall’Ara a preoccupare e il destino vuole che il suo cuore si fermi definitivamente durante un incontro privato con Angelo Moratti, presidente nerazzurro, alla vigilia dello spareggio per assegnare il titolo tra gli emiliani e i lombardi. Primo e tuttora unico spareggio nella storia del calcio italiano, è quello che arride al Bologna al termine di una gara a senso unico e praticamente giocata in memoria di Renato Dall’Ara.
Questa vicenda, come ho già accennato, non ha provocato, se non solo inizialmente, chissà quali sommosse o ribellioni e tantomeno quelle discussioni mediatiche che avrebbero provocato da lì a un decennio e che provocherebbero oggi. Il dubbio e le recriminazioni hanno lasciato posto a una robusta dose di buonsenso rispettoso e un po’ fatalista che gli odierni commentatori e addetti ai lavori a vario titolo ridurrebbero a carta straccia. Oggi prevale sempre il retro pensiero e la cultura del sospetto, specialmente se si tratta di difendere l’onorabilità del connazionale famoso e soprattutto vincente.
Infatti, al giorno d’oggi, si può quindi sostenere che questa sorta di nazionalismo etico presenta sempre i nostri atleti come i più bravi, i nostri campioni come lindi e puliti e addirittura un modello per i giovani, mentre chi li accusa di imbrogliare o perfino di doparsi lo fa solo perché roso dall’invidia o da un insopprimibile odio verso l’Italia. La cosa assume colori paradossali, però se si pensa che tale attacco sistematico ad arbitri e giudici rei di aver sanzionato uno dei nostri, diventa pratica esecrabile nelle competizioni agonistiche interne.
E ciò non in nome dei nobilissimi concetti espressi da Nikolic o da Boskov, ma solo perché è proibito discutere le decisioni dell’arbitro, una figura che in Italia può sbagliare, senza poterglielo comunque dire, mentre all’estero, quando ci sono di mezzo gli azzurri, non lo può e non lo deve mai fare. E se proprio lo fa, è per malafede.
È interessante confrontare in questo senso le telecronache della TV di Stato di una gara nazionale con una di livello internazionale. In quest’ultima è come se il telecronista potesse sfogare le proprie libere espressioni di rimostranza verso i giudici o i direttori di gara, quelle espressioni ingoiate o camuffate o sotterrate da perifrasi imbarazzanti per salvare la reputazione di questi nella partite nostrane. Per salvare loro e il proprio posto di lavoro.
Certo, la questione del doping e dei controlli per scovare chi ne fa uso per migliorare le proprie prestazioni e alterare così, falsandoli, i risultati è faccenda molto complessa e dai mille risvolti. La vecchia storia di “guardie e ladri”, di chi scappa e chi rincorre si applica alla perfezione anche qui e come il progresso informatico aiuta sia i produttori di virus sia chi cerca di neutralizzarli, anche nello sport il progresso farmaceutico è a fianco, in una competizione senza fine, sia di chi imbroglia sia di chi vuole scovare i truffatori. Questa lotta ha, tra l’altro, mille ulteriori varianti e complicazioni dal momento che esistono sostanze lecite che, se assunte, camuffano quelle proibite e che quindi, una volta che le agenzie antidoping scoprono questi effetti, diventano a loro volta proibite, e così via.
Tornando al caso di Jannik Sinner, il talento tennistico nazionale, simbolo della grandezza del Paese, della sua pulizia, della sua operosità, soprattutto commerciale, e perciò modello per l’italica gioventù ansiosa di cimentarsi in un lungo linea di volée di rovescio e vincente, ci sono diversi aspetti che portano a far traballare le tesi assolutorie. Un viso così serio e pulito, un modo di fare così asciutto, teutonico anche nella cadenza, una maturità espressa anche nella padronanza delle lingue e così insolita in un giovanissimo mal si accostano al doping e perciò alla patente di dopato. Al di là, però, della sollevazione quasi unanime di scudi a sua difesa, qualcuno dovrà spiegare prima o poi alcune circostanze che proprio non tornano.
Una precisazione doverosa prima di continuare. Io non sono colpevolista verso Sinner, semplicemente non mi schiero con gli “assolutisti a prescindere” prima che sia fatta piena luce sugli aspetti di cui mi appresto a scrivere. Il primo riguarda il fatto, assai singolare, che tutti noi siamo venuti a conoscenza della questione solo dopo l’assoluzione del ragazzo dopo ben due gradi di giudizio (Sinner, in una recente dichiarazione, parla addirittura di tre assoluzioni).
Mi chiedo come sia stato possibile tenere nascosto un fatto così eclatante che riguardi un personaggio così noto. Non solo, sarebbe interessante sapere chi ha disposto questa segretezza e per quale motivo. A chi potrebbe obiettare che questa strana circostanza non depone né pro né contro Sinner, rispondo che è molto strano invece il fatto che il tennista, che si è difeso, come poi vedremo, accusando parte del suo staff, in tutto il tempo trascorso tra l’avviso di positività ricevuto, ad aprile, e la divulgazione pubblica dell’accaduto, il 20 agosto, non abbia preso nessun provvedimento nei confronti di fisioterapista e preparatore atletico.
È utile anche precisare che Jannik era risultato positivo alla stessa sostanza in due occasioni, a febbraio e a marzo e che ad aprile ha ricevuto le conseguenti squalifiche verso le quali ha chiesto e ottenuto la sospensiva. È quindi ipotizzabile, ma non certo, che l’altoatesino fosse già a conoscenza di qualche suo problema anche prima di ricevere i provvedimenti. In ogni caso, Sinner, evidentemente già convocato due volte, se non tre, dal giudice, invece di tutelarsi subito da persone inette o inaffidabili che lui stesso ha accusato, ha deliberatamente atteso che la faccenda fosse di dominio pubblico per cambiare quella parte del suo staff. Anche in questo caso, mi chiedo il perché di questo atteggiamento francamente incomprensibile e perfino autolesionista, almeno in apparenza.
Venendo invece all’oggetto di accusa e difesa, qui si entra nella consuetudine più ovvia, perfino oramai scontata, almeno per quello che riguarda la strategia difensiva. Ricapitolando: a Sinner viene contestato il fatto di aver fatto uso di uno steroide anabolizzante chiamato clostebol. Da un prelievo di urine a sorpresa ne viene rintracciata una quantità ridottissima, un miliardesimo di grammo, ma conviene precisare due cose: la prima è che la quantità trovata può dipendere dal tempo intercorso dall’assunzione e l’altra è che, proprio per questo, l’agenzia antidoping ragiona solo sulla dicotomia sì/no. Se c’è ti sei dopato, se non ti sei dopato non c’è, punto.
Sinner si difende dicendo e riportando una circostanza purtroppo molto ben nota e riportata da tanti atleti italiani incappati negli stessi controlli, una storiella ripetuta tante volte, sempre la stessa, davanti ai giudici, che la conoscono oramai a memoria, tanto da aver perso ogni credibilità. Tranne che per Sinner. L’ultimo ad averla raccontata in tribunale era stato il cestista Riccardo Moraschini dell’Armani Jeans, positivo al clostebol. Si è beccato una squalifica di due anni.
Che cos’ha di tanto suadente questa storia? Intanto, raccontiamola. «Mi sono sottoposto a un massaggio defatigante dal mio fisioterapista di fiducia il quale in quella occasione aveva un dito della mano fasciato essendosi ferito poco tempo prima». E allora? Perché la giustificazione difensiva a proposito di clostebol utilizza – parola più parola meno – sempre la stessa storia? Perché il clostebol è contenuto in uno spray disinfettante chiamato Trofodermin e qui le cose si ingarbugliano assai, ma si semplificano nello stesso tempo perché, in modo sorprendente, fanno chiudere il cerchio tornando a nazionalismo protettivo e vittimismo federale.
Il Trofodermin compare nell’elenco sempre aggiornato che l’Agenzia Antidoping diffonde ad atleti, società e collaboratori tecnici, medici e fisioterapici a ogni avvio di stagione. Risulta molto strano, quindi, che professionisti che si occupano di un campione come Sinner non conoscessero questo prodotto, in realtà arcinoto nel settore, e i pericoli insiti e comunque, appunto, era sufficiente controllare l’elenco. Non averlo fatto, ripeto, sarebbe stata un’ottima ragione per un licenziamento immediato. Perché Sinner, ripeto, ha aspettato quattro mesi, se non di più, e l’uscita della notizia per procedere?
In conclusione, mi auguro sinceramente che il numero 1 del mondo del tennis fosse e sia in buona fede e che a tutti i miei dubbi venga opposta una spiegazione convincente, ma la sensazione che ciò che nelle leggi dello sport debba essere rigoroso all’estero quanto perlomeno elastico in Italia rimane forte e inaccettabile. Resta in ogni caso una domanda non semplice ad aleggiare nell’aria un poco plumbea di vicende come questa: se il protagonista, in tutto e per tutto, di questa storia contorta non fosse Sinner, ma il suo rivale Carlos Alcaraz o il “cattivo” Rune, tutto questo atteggiamento assolutorio sarebbe stato il medesimo?
Proviamo, per un attimo, a immaginare lo spagnolo in vetta al ranking davanti al nostro, ma con addosso il fardello di quel sospetto e alle spalle due o tre processi svoltisi in segreto. Ma c’è però un particolare non sovrapponibile tra questi fatti, uno accaduto e l’altro fantasticato: in Spagna, il Trefodermin non è facilmente utilizzabile.