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Le vie del mercato sono infinite: i 10 flop peggiori del calcio moderno

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Immagine di copertina: Coutinho, flop del Barcellona

Dopo poco più di 7 anni, nel settembre 2024, il Barcellona ha ultimato il pagamento di Ousmane Dembélé per quasi 150 milioni di euro, versati nelle casse del Borussia Dortmund. Un investimento mastodontico, avvenuto nell’estate destinata a cambiare la storia recente del calciomercato, col trasferimento da record di Neymar al Paris Saint-Germain. Proprio al PSG, dopo diverse stagioni in chiaroscuro sulle Ramblas, sarebbe approdato lo stesso Dembélé, per una cifra nettamente inferiore rispetto a quella pagata dai Blaugrana per farne l’erede di Ney. Eppure, nonostante questa operazione abbia decretato l’inizio del declino economico del Barcellona, ci sono state scelleratezze ancora peggiori negli ultimi 40 anni di mercato calcistico. A farla da padrone, in questa disgraziata Walk of Shame in ordine cronologico, sono i club di Serie A, Liga e Premier League, passatisi in quest’ordine lo scettro di campionato più danaroso d’Europa. I nomi inseriti in questo elenco sono presenti anche e soprattutto per le aspettative riposte nei loro confronti; di conseguenza, non figureranno giocatori come Harry Maguire, menzione (dis)onorevole unicamente per la cifra esorbitante spesa dal Manchester United per aggiudicarselo, non essendo certamente mai stato un top player.

Socrates – Fiorentina, 1984, 5,3 miliardi di lire

Sbarcato in Italia nel solco di Falcão e Zico, entrambi capaci di sfoderare un’immediata capacità di adattamento al Vecchio Continente, il rendimento di Sócrates non fu decisamente all’altezza di quello dei propri connazionali. Del resto, il matrimonio tra il “Dottore” e il nostro calcio, celebratosi a suon di quattrini, non poteva funzionare per una miriade di motivi diversi, in primis culturali. Il microcosmo del pallone italico, regno assoluto del conformismo più grigio, non era infatti pronto ad accogliere una delle personalità più all’avanguardia che questo sport ricordi (per approfondire, cercate su Google “Democrazia Corinthiana“).

Inoltre, l’ormai trentenne capitano del Brasile, che neanche in gioventù si era mai distinto per essere un centrocampista dalle spiccate doti agonistiche, palesa dei chiari limiti di intensità fisica, compensati solo in minima parte dall’eccezionale sapienza tecnica. Pur lontanissimo dalle cifre realizzative monstre a cui era abituato in patria, mette a segno 9 gol totali tra tutte le competizioni, ma che servono a ben poco per guidare la Fiorentina verso il tanto atteso salto di qualità. I viola, già ai tempi colpiti dalla sindrome del “vorrei ma non posso”, chiudono al 9° posto in classifica, ed escono prematuramente dalla Coppa UEFA.

I risultati sono così deludenti da mettere in dubbio la permanenza di Sócrates già in inverno, ed è paradossale che l’addio di uno dei calciatori più forti al mondo dopo una sola fallimentare stagione venga salutato con una simile indifferenza dall’opinione pubblica italiana, che ne registra quasi malvolentieri il ritorno in patria al Flamengo nell’estate del 1985.

Ian Rush – Juventus, 1987, 7 miliardi di lire

La storica supremazia della Juventus nel Belpaese si è a lungo poggiata su mosse di mercato estremamente mirate e spesso più oculate rispetto alla concorrenza di Milan e Inter. Anche la Vecchia Signora tuttavia, non è stata esente da passaggi a vuoto, come dimostra il caso di Ian Rush, arrivato in pompa magna sull’onda lunga di 207 reti messe a segno con la maglia del Liverpool. Nel destino del centravanti gallese c’era l’Italia, contro i cui club aveva vissuto le due notti più indimenticabili della propria carriera, seppur per motivi diametralmente opposti; nel 1984 infatti, Rush sconfigge la Roma nella finale di Coppa Campioni all’Olimpico, perdendola invece l’anno successivo proprio contro la Juve tra gli orrori dell’Heysel.

La maestria negli ultimi 16 metri del ventiseienne attaccante britannico tuttavia si vedrà ben poco dalle nostre parti, e non solo per suoi demeriti. La Juventus in cui approda Rush nel 1987 è infatti orfana di suggeritori quali Platini e Boniek, e deve fare i conti con un impoverimento tecnico troppo evidente per essere celato da un allenatore modesto come Rino Marchesi. Lui stesso del resto, palesa problemi di adattamento alla realtà quotidiana (in primis l’uso della lingua italiana) che a posteriori somigliano non poco alle difficoltà ambientali del suo celebre compatriota Gareth Bale dopo l’approdo al Real Madrid.

Insomma, i gol scarseggiano (saranno 13 in 40 presenze totali), le prestazioni insufficienti non si contano, e i risultati dei bianconeri fanno il resto; il ciclo Bonipertiano è ormai giunto al termine, e il 6° posto agguantato per il rotto della cuffia ne è la perfetta cartina al tornasole. Al gallese, così come il sopracitato Sócrates, non rimane che tornare nella propria comfort zone, ossia il Liverpool. A differenza del brasiliano tuttavia, Rush è ben lontano dal viale del tramonto, e per diversi anni continuerà ad arrotondare il proprio bottino, fino a raggiungere quota 346 gol con la maglia dei Reds, di cui è il miglior cannoniere all time.

Hristo Stoičkov – Parma, 1995, 12 miliardi di lire

La metafora della Serie A come El Dorado del calcio mondiale nel corso degli anni ’80 e ’90 è ormai trita e ritrita, ma rende bene l’idea del potere economico e dell’attrattiva dei nostri club in quel determinato periodo storico. Non si spiegherebbe altrimenti l’acquisto del Pallone d’Oro in carica da parte di un club che milita nella massima serie da appena 5 anni. Tutto possibile invece, se si tratta del Parma di Calisto Tanzi, assurto rapidamente da piccola realtà di provincia a vera e propria potenza europea nel giro di pochissimo tempo. Gli emiliani, sfruttando i dissapori tra il maestro Cruijff e l’allievo ribelle Stoičkov, strappano dunque al Barcellona uno degli attaccanti più forti in circolazione per doti balistiche e carismatiche.

Pur giocando in un ruolo che non gli appartiene, ossia quello di centravanti nel tridente offensivo, il fuoriclasse bulgaro parte forte, mettendo a segno 4 reti nelle prime 5 giornate di campionato; Stoičkov sembra dunque il pezzo mancante che serviva per conquistare lo scudetto, a lungo sognato nella stagione precedente. La realtà tuttavia sarà ben diversa, tant’è che da inizio ottobre in poi i gol segnati saranno appena 3. Saranno ben più numerose invece le ironie sul suo conto e su quello del Parma, reo di aver speso una barca di quattrini per un ventinovenne prematuramente “bollito”.

In effetti, Stoičkov sembra ben lontano dalla brillantezza esibita in Catalogna e al Mondiale 1994, dove trascinò la Bulgaria ad una storica semifinale da capocannoniere del torneo. Le continue bizze e il linguaggio del corpo isterico non lo aiutano a ottenere i favori del pubblico, oltre a quelli del tecnico Nevio Scala, che lo mette gradualmente ai margini del progetto. Il ritorno al Barça, dopo un’annata frustrante e senza titoli, sarà solo l’ulteriore conferma di un’irreversibile parabola discendente.

Denílson – Real Betis, 1998, 63 miliardi di lire

Dopo aver a lungo cullato il sogno di portare Ronaldo alla Lazio nell’estate del 1997, Sergio Cragnotti è costretto a ingoiare il secondo boccone amaro nel giro di 12 mesi, a causa di un altro funambolo brasiliano: Denílson. Messosi in mostra nelle tre competizioni disputate dalla Nazionale verdeoro nel ’97 (il Torneo di Parigi, la Copa America e la Confederations Cup), il ventunenne esterno sinistro del San Paolo diventa il nome di mercato più caldo dell’estate successiva, nonostante un Mondiale francese privo di grandi guizzi.

A obbligare il presidente dei biancocelesti alla ritirata sono le cifre astronomiche messe sul tavolo dal Real Betis per aggiudicarsi i dribbling vertiginosi di Denílson: 63 miliardi di lire al San Paolo per il cartellino e 6 miliardi (più bonus) di stipendio annuo al giocatore, che diventa in un colpo solo il più pagato al mondo oltre che il più costoso della storia, superando il record stabilito un anno prima dall’Inter con l’acquisto del sopracitato Ronaldo. Tra le due star, tuttavia, ci sono una decina di abissi di differenza, come scoprirà a proprie spese il club andaluso, che per non farselo sfuggire fissa una clausola rescissoria da 750 (!!) miliardi di lire.

La Denílson-mania è destinata ad aver vita breve, sgonfiandosi un doppio passo alla volta, e trovandosi a fare i conti con gli innumerevoli limiti del brasiliano, dall’allergia al gol fino all’ostentato individualismo, passando per la totale mancanza delle letture tattiche più elementari. A corredare ulteriormente il naufragio tecnico di questa scellerata operazione, arriva la clamorosa retrocessione del Betis al termine della stagione 1999/2000, che dopo due annate incolori segna probabilmente il punto più basso della carriera tutt’altro che indimenticabile di Denílson. Quest’ultimo, escludendo una breve parentesi al Flamengo, rimarrà a Siviglia fino al 2005, pur essendo ormai di fatto un ex calciatore da parecchio tempo. Che fosso scampato, dunque, per Cragnotti e la sua Lazio…

Gaizka Mendieta – Lazio, 2001, 89 miliardi di lire

Dicevamo di Cragnotti e del mancato arrivo di Denílson? Bene, neanche il presidente più vincente della storia della Lazio può vantare un curriculum completamente immacolato in materia di acquisti azzeccati, e il fragoroso flop romano di Gaizka Mendieta sta lì a dimostrarlo. Per descrivere la fallimentare esperienza del centrocampista basco in Italia occorre però fare un po’ più di chiarezza sul contesto generale. A cavallo tra i due millenni infatti, la Liga doveva ancora colmare un gap tecnico notevole con la Serie A, e questa sensibile differenza di livello era testimoniata dall’enorme fatica fatta da alcuni giocatori una volta arrivati nello Stivale dopo aver a lungo incantato le platee spagnole; basti pensare a casi come quello di Esnaider con la Juventus, e soprattutto di De La Peña con la Lazio, totalmente irriconoscibile rispetto al livello espresso in patria.

Non paghi di questo terribile errore sul mercato, i dirigenti biancocelesti si innamorano perdutamente (come del resto un po’ tutta Europa) di un’instancabile mezzala, che nel biennio 1999-2001 sembra temere davvero pochi confronti nel resto del Vecchio Continente. Mendieta è infatti l’uomo chiave del memorabile Valencia di Héctor Cúper, la squadra incompiuta per antonomasia, capace sì di raggiungere due finali di Champions League consecutivamente, ma anche di perderle entrambe in un mare di amarezza.

Nelle due stagioni sopracitate, Mendieta mette a segno ben 33 reti, arriva 8° nella classifica del Pallone d’Oro nel 2000, e viene premiato in entrambi i casi come miglior centrocampista della Champions; potete dunque intuire l’entusiasmo che circonda il biondo centrocampista all’arrivo a Roma, per una cifra monstre, la seconda più alta mai sborsata dalla Lazio dopo i 110 miliardi spesi per Crespo, che offrì tuttavia un rendimento ben differente.

Insignito del non facile compito di raccogliere le chiavi del centrocampo biancoceleste, rimasto senza padroni dopo le partenze di Verón e Nedved, Mendieta si trasforma rapidamente in un oggetto misterioso, non aiutato da un contesto disfunzionale come quello della Lazio 2001/02. L’evo cragnottiano è ormai agli sgoccioli, e il ridimensionamento con cui i capitolini devono fare i conti travolge anche l’ex Valencia, che con l’arrivo in panchina di Zaccheroni scompare gradualmente dalle rotazioni. Dura dunque appena un anno la sua esperienza italiana, priva di gol e di acuti di ogni tipo, che del resto si vedranno davvero a sprazzi anche una volta tornato in Spagna, in una delle versioni più scalcagnate della storia del Barcellona.

Andrij Shevchenko – Chelsea, 2006, 43 milioni di euro

Ai tempi era ancora abbastanza difficile prevederlo, ma il trasferimento di Andrij Shevchenko al Chelsea nell’estate del 2006 altro non era che un oscuro presagio di ciò che sarebbe divenuto il campionato italiano di lì a poco. Dopo oltre 20 anni di dominio pressochè incontrastato in materia di attrattiva, la Serie A si stava per tramutare lentamente in una terra di passaggio per i migliori giocatori in circolazione, diretti verso lidi più prestigiosi quali la Spagna e, in questo caso, l’Inghilterra.

A farla da padrone ormai da due anni in Premier League è proprio l’all-star team londinese allestito da Roman Abramovich, fattosi largo nel mondo del calcio a suon di milioni, e intenzionato a lanciare l’assalto anche alla Coppa dalle grandi orecchie. Per Sheva, del resto, le notti europee erano diventate un territorio di caccia abituale, come dimostrano i titoli di capocannoniere della Champions League ottenuti sia con la Dinamo Kiev nel 1998/99 che con il Milan nel 2005/06.

Eppure, i quasi 200 gol realizzati con i rossoneri ed il Pallone d’Oro messo in bacheca nel 2004 non sembrano scaldare il cuore di José Mourinho, tecnico dei Blues, che ha già eletto Didier Drogba come punto di riferimento per il proprio attacco. Abramovich tuttavia non vuole sentire ragioni, e i 43 milioni di euro (cifra spaventosa nel mercato di 18 anni fa, specie per un trentenne) versati nelle casse del Milan costituiscono l’affare più oneroso della storia del calcio inglese fino ad allora.

Le due annate a Stamford Bridge tuttavia si rivelano un vero e proprio incubo per il campione ucraino, che dopo un avvio incoraggiante rimane vittima di problemi fisici debilitanti, oltre che dell’ostilità di uno spogliatoio che lo guarda con sospetto, visto il rapporto pressoché inesistente con Mourinho. La carriera di uno dei migliori attaccanti del Nuovo Millennio cola rapidamente a picco, e le 22 reti complessive in 77 partite sono un bottino quasi irrisorio per uno che a Milano aveva medie realizzative da autentico cecchino.

David Luiz – Paris Saint-Germain, 2014, 50 milioni di euro

Con l’ascesa delle nuove proprietà mediorientali, i cui petrodollari fanno le fortune di club quali il Manchester City e il Paris Saint-Germain, perfino dei veri e propri squali come il già citato Abramovich sembrano ormai degli innocui pesciolini a confronto. Sono proprio i parigini, nell’estate del 2014, a pagare la somma più alta mai spesa per un difensore, strappando David Luiz al Chelsea per ben 50 milioni di euro, e ricreando dunque la coppia centrale del Brasile composta dallo stesso Luiz e da Thiago Silva.

Non sono in pochi però ad alzare il sopracciglio di fronte a questa mossa del PSG; già 10 anni fa infatti, David Luiz era un giocatore alquanto indecifrabile, con qualità tecniche e fisiche di prim’ordine, ma al tempo stesso caratterizzato da una svagatezza e un’anarchia tattica inaccettabile per un difensore centrale. Non è un caso dunque che un maniaco della fase difensiva come Mourinho, nella stagione 2013/14, lo abbia impiegato pressoché unicamente come mediano a centrocampo.

In un calcio come quello contemporaneo, molto più spietato nei giudizi e meticoloso nella ricerca degli errori dei propri protagonisti, ci sono due partite in primis ad aver segnato irreversibilmente la carriera di questo riccioluto difensore: la semifinale del Mondiale 2014 contro la Germania, e il quarto di finale d’andata di Champions League contro il Barcellona dell’anno successivo. Entrambi i match sono segnati dall’assenza di Thiago Silva, senza il quale i limiti di David Luiz vengono alla luce in maniera crudele, esposti dall’organizzazione fantascientifica dei tedeschi prima (inutile ricordare il punteggio di quella partita…), e dal talento luciferino di Luis Suarez poi.

A Parigi è ormai chiaro che il difensore brasiliano su cui puntare è un altro, ossia Marquinhos, che nonostante abbia ben 7 anni in meno di Luiz appare già molto più affidabile. Dopo appena due anni, in cui trova comunque il modo di arricchire il proprio palmarès personale con una miriade di trofei domestici, fa ritorno a Londra, ricomprato dal Chelsea per 35 milioni.

Philippe Coutinho – Barcellona, 2018, 160 milioni di euro

Tra il 2017 e il 2020, nel periodo che va dal trasferimento da record di Neymar al PSG all’avvento del Coronavirus, e il conseguente ridimensionamento economico dei club calcistici, le finestre di mercato toccano picchi mai visti in prima. Lo standard settato dall’ex fuoriclasse del Santos dà il via a una sorta di febbre dell’oro, di cui rimane vittima un altro ragazzo brasiliano, Philippe Coutinho. Le prodezze realizzate a getto continuo nella versione embrionale del Liverpool di Jurgen Klopp del resto, lasciavano pochissimi dubbi sul suo futuro, destinato a tingersi di blaugrana.

Dopo una lunga telenovela nell’estate del 2017, l’ex trequartista dell’Inter vola finalmente in Catalogna nel gennaio del 2018, per una cifra che, compresi i bonus, tocca i 160 milioni di euro. Nessun cartellino, a eccezione di Mbappé e ovviamente di Neymar, è mai costato così tanto, e la pressione mediatica sulle spalle del venticinquenne fantasista inizia a toccare vette spaventose. La partenza di Coutinho per Barcellona è accompagnata inoltre da una lungimirante profezia dello stesso Klopp: “Qui a Liverpool la gente sarebbe disposta a farti una statua, altrove saresti solo uno dei tanti“.

Inutile dire che il tecnico tedesco ci aveva visto decisamente lungo: nel Barça, in cui a farla da padrone in campo e fuori sono Messi e Suarez, per Coutinho è impossibile ergersi a protagonista, e nei due campionati vinti nel 2018 e nel 2019 c’è ben poco di suo. La delusione più cocente però arriva in Champions League: reinvestiti al meglio i soldi della cessione di Coutinho (vedasi gli acquisti di Van Dijk e Alisson), è proprio il Liverpool ad aggiudicarsi il trofeo, eliminando il Barcellona in semifinale grazie a una rimonta epocale nel match di ritorno ad Anfield.

Per trionfare in Europa, seppur da comprimario, l’ormai ex maghetto brasiliano dovrà andare in prestito al Bayern Monaco, dove si toglie la soddisfazione di affondare il Barça nel memorabile 8-2 dei quarti di finale. Tornato al Camp Nou senza lasciare alcuna traccia, chiude la sua disastrosa parentesi spagnola nell’inverno del 2022, approdando all’Aston Villa, dove farà ben poco per dimostrare di non essere più soltanto l’ombra di sè stesso.

Eden Hazard – Real Madrid, 2019, 100 milioni di euro

Nessuno scontro calcistico, ideologico e politico, limitatamente a questo sport, può eguagliare la magnitudo del Clásico di Spagna, Real Madrid contro Barcellona, che quando non si sfidano sul campo lo fanno anche in sede di mercato. Nell’estate del 2019 dunque, dopo una stagione deludente per entrambe, le due superpotenze del pallone iberico mettono mano al portafoglio, e si aggiudicano due stelle di valore mondiale. Se da una parte il Camp Nou si prepara ad abbracciare Antoine Griezmann (altra menzione onorevole di questa flop 10), l’attesa del pubblico madrileno per l’arrivo di Eden Hazard è probabilmente ancora più spasmodica.

Il belga, del resto, compiuti i 28 anni, sembra ormai pronto ad abbandonare il gruppone dei campioni per ascendere nel gotha dei fuoriclasse assoluti, i quali solitamente militano proprio nelle Merengues. Non sarà però il caso di Hazard, che una volta approdato a Madrid decide sostanzialmente di premere il tasto dell’autodistruzione, presentandosi al ritiro estivo in evidente sovrappeso. A tarpargli ulteriormente le ali contribuisce una catena sconfinata di infortuni, imputabili anche a una gestione del proprio corpo non sempre professionale nel corso degli anni precedenti al Chelsea.

Da potenziale Pallone d’Oro, Hazard diventa dunque un costosissimo soprammobile, il quale, ricaduta dopo ricaduta, continua a perdere gradualmente fiducia nei propri mezzi. Non lo aiuta inoltre l’ascesa di due ragazzini terribili arrivati dal Brasile per traghettare il Real Madrid nel futuro, ossia Rodrygo e soprattutto Vinicius Jr, che non lasciano scelta a Zidane prima e ad Ancelotti poi su chi affiancare a Benzema in attacco.

Le 4 stagioni di Hazard alla Casa Blanca, da cui se ne andrà rescindendo consensualmente il contratto nel 2023, è dunque scandita da questi numeri agghiaccianti: 7 reti in 76 presenze (di cui, a conti fatti, ben poche da titolare), e soprattutto quasi 100 gare saltate per infortuni vari. Non ha fatto dunque neanche troppo scalpore l’annuncio del suo ritiro ormai 12 mesi fa, ad appena 32 anni, come se le sue ripetute assenze nel quadriennio precedente ci avessero ormai abituato a fare completamente a meno di lui.

Romelu Lukaku – Chelsea, 2021, 115 milioni di euro

In una squadra reduce dalla vittoria della Champions League, per forza di cose, non sono poi tantissime le migliorie da apportare. Eppure, del Chelsea campione d’Europa nel 2021, si dice spesso che sia stata in grado di trionfare pur non avendo un centravanti affidabile, e non è un’affermazione molto distante dalla realtà. Le vagonate di milioni spesi durante l’estate precedente per una mezzapunta ancora abbastanza acerba come Havertz, e soprattutto per un Timo Werner troppo balbettante sotto porta, convincono dunque la dirigenza dei Blues a puntare su un numero 9 di alto rango, che magari conosca già la Premier League.

Le coordinate portano dunque a un Romelu Lukaku all’apice della propria parabola professionistica, dopo un biennio ricco di gol e soddisfazioni nell’Inter scudettata di Antonio Conte, l’allenatore che, più di chiunque altro, ha saputo sfruttare al meglio lo strapotere fisico del belga. I 115 milioni spesi per riportarlo a Londra, dove aveva già giocato in gioventù senza trovare molto spazio, costituiscono l’acquisto più oneroso della storia del Chelsea, e, a posteriori, lo rendono l’ultimo grande colpo di mercato dell’era Abramovich.

La partenza a razzo dal punto di vista realizzativo nasconde temporaneamente la polvere sotto al tappeto; Tuchel non è Conte, e i compiti che chiede al proprio centravanti sono ben diversi, non sfruttando ad esempio la grande abilità di Lukaku nel gioco spalle alla porta. Quest’ultimo inizia visibilmente ad ingrigirsi, e il disagio accumulato nei mesi autunnali deflagra in una clamorosa intervista rilasciata a fine dicembre, in cui di fatto ammette di non essere in grandi rapporti col tecnico tedesco, mostrandosi alquanto pentito di aver lasciato l’Inter.

Comunicativamente parlando, le dichiarazioni di Lukaku sono un autentico disastro, e oltre a non fargli certo ricucire alcun rapporto con l’ambiente nerazzurro, gli inimicano tremendamente quello del Chelsea, più che pronto a scaricarlo dopo pochi mesi. La sua unica stagione a Stamford Bridge, in cui realizza 15 gol in 59 partite, è probabilmente il maggior buco nell’acqua della sua carriera, e ne ridimensiona sensibilmente l’appeal internazionale. Ritagliatosi una propria zona di comfort in Serie A, dopo due anni in prestito trascorsi tra Inter e Roma, Lukaku è dunque riuscito a spezzare definitivamente le catene che lo legavano al Chelsea, ricongiungendosi con Conte al Napoli.

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