Ha vinto da solo. Questo, ai nostri occhi, è il complimento più bello che possa ricevere un calciatore, e infatti i giocatori che hanno sequestrato le fantasie degli appassionati della mia età (o poco più grandi/più giovani) sono quasi esclusivamente i solisti che, nel nostro immaginario, vincono, o comunque cambiano le cose, “da soli”. Mi riferisco a Platini, e soprattutto a Maradona, a Ronaldo il Fenomeno, ma anche a Roberto Baggio e ad altri talenti in grado di spostare in alto l’asticella nel momento in cui farlo è più prezioso.
La celebrazione del singolo fuoriclasse che estrae dal cappello la giocata decisiva chiaramente ha un suo fascino e anche un suo fondamento: i fuoriclasse servono soprattutto a questo scopo ed è bellissimo che esistano. La nostra cultura sportiva, sotto questo profilo, è profondamente individualista, e lo è anche in maniera paradossale, perché forse nessuno come l’Italia ha costruito il proprio invidiabile curriculum soprattutto sulla tattica, sulla capacità di imbrigliare gli avversari, di costruire intorno alle loro aspirazioni una ragnatela di trabocchetti, e tattica implica necessariamente gioco di squadra, coordinamento tra tecnico staff e giocatori, e anche la capacità di giocare insieme e di sacrificarsi uno per l’altro.
Tutto vero, ma il rigido funzionalismo specialistico del nostro calcio tollera – e siamo pur sempre la patria di numerosi, grandissimi artisti – una vistosa eccezione, che coincide per l’appunto con il singolo “fenomeno”, colui che è chiamato a “vincere da solo” – l’espressione maschera ovviamente un’iperbole, ma sottintende un concetto comunque chiaro, che potremmo tradurre in “fare la differenza da solo”.
Il nostro culto per la tattica, il gioco di squadra, il sacrificio, la capacità di ingannare l’avversario e di trascinarlo nel proprio terreno di gioco prediletto, e al tempo stesso di erigere veri e propri monumenti al singolo fuoriclasse decisivo, ha forse trovato la sua massima espressione e il suo esemplare equilibrio durante gli anni ’80, che rappresentano, da molti punti di vista, l’apogeo del calcio italiano.
Prima di avvelenare la mela, sono doverose alcune premesse. Il campionato italiano, almeno dopo Spagna 1982, spicca effettivamente il volo: nel Belpaese, pagati cifre spesso impossibili per la concorrenza, sbarcano molti dei primi giocatori del mondo, che in molti casi diventano gli idoli delle folle e fanno da subito la differenza, iniettando nel labirinto tattico e nell’esasperato difensivismo italici degli anni precedenti dosi sovrabbondanti di qualità.
Gli anni ’80, l’Eldorado calcistico italiano
La lista dei fuoriclasse che hanno nobilitato il calcio italiano nel corso del decennio della Milano da bere è lunghissima: si passa da Zico a Matthaus, da Krol a Falcão, da Platini a Maradona, da Gullit a van Basten. Non credo sia mai esistito un campionato in grado di catalizzare l’attenzione dei media, anche a livello internazionale, come la serie A degli anni ’80, e questa grandeur, questo elenco di nomi che sembrano comporre degli all star team più che delle squadre comuni, ancora oggi affascinano chi vissuto l’epoca (anche solo in piccola parte, come lo scrivente) o ne ha sentito parlare, alimentando un culto nostalgico che spopola in rete e anche nei bar da decenni, e che sembra diventato davvero un totem, una sorta di vacca sacra cui sacrificare ogni tipo di analisi alternativa, di prospettiva critica. La riscrittura romantica degli anni ’80 e del calcio italiano di quel periodo, un periodo per l’Italia florido anche dal punto di vista economico e in cui un’intera generazione poteva lasciarsi alle spalle gli anni di piombo e il loro carico di dolore, di morti e di risentimenti reciproci, è diventata quasi un topos culturale e sociale inattaccabile.
Il culto che da tempo si alimenta in rete – e che spesso si associa a una lettura critica, anche ferocemente critica, del cosiddetto “calcio moderno” – ovviamente trascura il fatto che la supremazia del calcio italiano (se di supremazia effettiva si tratta, lo vedremo tra poco) è stata tutta costruita sul denaro, sulle maggiori possibilità economiche delle società italiane rispetto a quelle straniere, e che quindi c’è ben poco di “romantico” nel calcio anni ’80, e che erigere altarini in memoria del calcio che fu per poi attaccare con durezza il mondo dello sport contemporaneo (fondato su analoghi “valori”) è nella migliore delle ipotesi un atto di ingenuità, e nel caso peggiore un atto di malafede.
In questa sede, in ogni caso, mi interessa rispondere a un’altra domanda: quella del calcio italiano del tempo fu vera gloria? E, nel caso, in quali termini?
Alla prima domanda viene naturale rispondere di sì, che quella italica fu una gloria vera, ma la seconda domanda mi suggerisce di fornire un po’ di precisazioni, che consistono, fondamentalmente, nell’adottare una prospettiva diversa, meno egocentrica, meno italocentrica (abbiamo affrontato la questione io e Niccolò Mello tempo fa, in un pezzo che linkiamo qui).
Sul piano individuale non è mai esistito forse un campionato così ricco, e di questa va dato atto. Nell’arco di un decennio, i fortunati spettatori italiani hanno avuto modo di assistere alle gesta di una miriade di fuoriclasse, alcuni assurti al rango di mito e spesso annoverati tra i giocatori più bravi e decisivi della storia.
Se volgiamo lo sguardo all’estero, vediamo naturalmente anche in Spagna, in Inghilterra, in Francia e in Germania (per non parlare del Sudamerica) molti campioni e giocatori di valore, ma la concentrazione della serie A lascia obiettivamente esterrefatti ancora oggi.
Se però ci spostiamo dal piano individuale – quello che più ci aggrada – per esaminare le squadre, prospettiva credo più corretta in quello che è uno sport di squadra, ecco che le cose cambiano. Intendiamoci, lo spessore tecnico e la bellezza di un campionato non si misurano solo con i trionfi internazionali, ma sono il prodotto di una serie di fattori, episodi, convergenze etc… che è impossibile razionalizzare e riassumere in questa sede, ed è evidente che il campionato italiano del tempo era bellissimo a prescindere dai risultati.
Qualcosa, però, i trionfi o comunque i risultati internazionali lo raccontano, e del resto se così non fosse diventerebbe legittimo sostenere qualsiasi tesi, anche che il campionato greco è il migliore del mondo e che i suoi insuccessi sono solo frutto del caso.
Veniamo quindi ai numeri, che una parte della storia la raccontano sempre.
Il calcio italiano, dal 1980 al 1988, in Europa ha conquistato di fatto due titoli “veri” (Supercoppe et similia sono accessori), entrambi con la Juventus, il primo nel 1984 e il secondo nel 1985. Un’altra squadra ha raggiunto la finale di una competizione europea, la Roma di Liedholm nel 1984, che l’ha persa anche un po’ sfortunatamente contro il Liverpool. L’Inter, nel 1981, ha giocato una semifinale, e ovviamente alla voce finali perse va inclusa anche Atene 1983. Per completare il quadro, bisogna ricordare che nel 1980, 1982, 1986, 1987 e 1988 le squadre italiane raggiungono nel complesso, e su quindici posti disponibili, due semifinali, la prima con l’Inter nel 1986 e la seconda con l’Atalanta nel 1988. Si tratta indubbiamente di risultati notevoli, ma che, ne converrete, collidono con la narrativa trionfalistica che accompagna quel decennio, almeno fino al 1989, perché in effetti con l’introduzione del terzo straniero e la maturazione di alcuni squadroni epocali, l’Italia inizia a dettare legge anche in Europa – e su questo fronte il contributo di Arrigo Sacchi è fondamentale, a mio parere, perché il suo Milan cambia marcia a tutto il movimento. Di fatto, Arrigo ha fatto irruzione in un calcio che da qualche anno in Europa faticava.
Nel complesso, tra 1980 e 1989, le nostre formazioni portano a casa quattro coppe su trenta disponibili, e questo nel corso del decennio più equilibrato della storia d’Europa: senza dubbio si tratta di risultati positivi e di spessore ma, ancora, che non collimano con la teoria per cui il calcio italiano degli anni ’80 era non solo due spanne sopra la concorrenza coeva, ma anche, e con margine, il più competitivo della storia del calcio. I risultati non misurano tutto, lo ribadisco, anche se in Italia tendiamo a sostenere il contrario quando i risultati ci danno ragione, e la pletora di singoli che militano nel nostro campionato negli anni ’80 è destinata probabilmente a rimanere senza pari, ma questo scalfisce di poco i numeri che ho riportato, che non sono opinabili.
Uno sguardo fuori dall’Italia
Trovo giusto adottare una prospettiva comparativa, e allora posso guardare agli altri maggiori campionati europei del periodo, che non disponevano di risorse paragonabili alle nostre sul piano economico.
Le squadre inglesi, come noto escluse dal giro nel 1985, nella prima metà del decennio conquistano quattro coppe dei campioni (due con il Liverpool, una a testa per Nottingham e Aston Villa), una Coppa delle Coppe (Everton, 1985) e una Coppa UEFA (Tottenham 1984). La loro dolorosa ma in quel momento inevitabile squalifica interrompe un’egemonia quasi decennale, e chiude anzitempo il ciclo del Liverpool (che si stava rinnovando profondamente e che avrebbe potuto continuare a dire la sua in Europa) e soprattutto quello dell’Everton, divenuto il miglior club britannico proprio a cavallo tra 1985 e 1986. L’Heysel impedisce altresì al Boring Arsenal di affacciarsi subito sull’Europa, e induce naturalmente molti dei migliori calciatori inglesi a traslocare altrove – Lineker va a Barcellona.
In sintesi, nonostante giochi poco più della metà delle stagioni in calendario, e nonostante non disponga di risorse paragonabili a quelle italiane, l’Inghilterra vince più dell’Italia, negli anni ’80: anche qui, ridurre tutto ai numeri sarebbe un errore (per quanto, lo ripeto, nella patria del resultadismo si parli sempre di risultati), ma un campionato che surclassa la concorrenza di numerose categorie, come ci raccontano stampa, tv e nostalgici da decenni, dovrebbe quantomeno vincere qualcosa di più dei suoi concorrenti.
Spostiamoci in Spagna: per gli spagnoli, gli anni ’80 sono un decennio di transizione, che si chiude senza successi in Coppa dei Campioni, ma sono comunque la decade che li vede incamerare tre Coppe UEFA (Real Madrid e Valencia) e due Coppe delle Coppe (Barcellona), oltre che perdere una lunga serie di finali e semifinali (il Real perde due finali e viene eliminato per tre volte in semifinale, il Barcellona perde la finale del 1986, idem l’Atletico, sempre nel 1986). Sul piano dei risultati, la Spagna è quindi giusto un passettino indietro rispetto alla Serie A, perché comunque le mancano due Coppe dei Campioni che fanno tutta la differenza del mondo.
I tedeschi non se la passano molto peggio, perché portano diverse squadre in fondo alle competizioni e vincono diversi titoli, tra cui spiccano i successi delle outsider Eintracht Francoforte, Bayer Leverkusen e Amburgo.
I francesi sono sempre della partita ma more solito non ottengono alcun titolo, mentre gli olandesi si fermano a due titoli.
In sostanza, guardando ai risultati e per risultati non intendo solo i successi, ma anche le squadre che si giocano i titoli, non esiste alcuna evidente supremazia di squadre del calcio italiano sul resto d’Europa, negli anni ’80, e la cosa risulta ancora più sbalorditiva se si considera l’esclusione della potenza inglese, che di fatto trasforma le competizioni europee in un Far West in cui si avvicendano sul gradino più alto del podio svedesi, rumeni, portoghesi, belgi, scozzesi. Gli anni ’80, in sostanza, sono una decade dominata, dal punto di vista collettivo, da un estremo equilibrio tra le forze in campo.
Nella nostra prospettiva, questo equilibrio, che ci vede sul piano qualitativo come il calcio più bello in ragione dei numerosi talenti che ospitiamo, ma sul piano numerico come il secondo campionato del decennio, risulta inspiegabile, un pugno in faccia, una forma di violenza della storia, ma a mio parere in questa valutazione scontiamo sempre il peso del nostro paradossale individualismo.
Mi spiego con un esempio: il Liverpool che incanta il mondo tra anni ’70 e ’80 non ha in squadra un giocatore come Zico, ma se Zico viene relegato a Udine, in una squadra che lotta per la salvezza, mentre il Liverpool è un collettivo rodatissimo e pieno magari non di fenomeni, ma di grandi giocatori sì, ecco che i Reds dominano l’Europa e l’Udinese, pur ammaliata dalle magie del suo genio, si conquista la salvezza.
Se oggi vedessimo De Bruyne in campo con la maglia del Rennes o del Betis Siviglia, cosa penseremmo? Che il calcio francese o spagnolo è un parco giochi e che però alla fine, quando conta, vinciamo di più noi, perché anche se ha De Bruyne il Betis non può competere con certe formazioni internazionali?
Credo di sì, ed è esattamente questo il modo in cui molti stranieri vedevano il calcio italiano dell’epoca. Dopo Italia 1990, in una tv tedesca un giornalista dice qualcosa come “Loro hanno i soldi, ma il mondiale lo vinciamo noi”, sbeffeggiando la supremazia economica del calcio italiano esattamente come, negli ultimi anni, abbiamo fatto noi con quella del PSG, che certamente schierava alcuni dei migliori giocatori del mondo, pagati a peso d’oro, e che però in Europa non otteneva i risultati attesi. Tornando indietro di qualche anno, potremmo fare un discorso simile per i Galacticos.
Ora, sarebbe sicuramente esagerato sostenere che la serie A del tempo era una “collezione di figurine” o una versione campionato dei Galacticos, perché abbiamo ammirato fenomeni, squadre e risultati eccezionali, però i traguardi di quel decennio sono comunque in parziale contrasto con la narrazione che accompagna il periodo, e questo a mio avviso è davvero difficile confutarlo.
La lezione che ne traggo è la seguente. Un singolo, per quanto straordinario, rimane un singolo, e può quindi fare la differenza entro determinati limiti. Se per noi il calcio degli anni ’80 è il calcio dei grandi numeri dieci e dei singoli più grandi, nel resto del mondo la decade è forse la più collettivista ed equilibrata in assoluto, in un altro di quei paradossali effetti della prospettiva: noi siamo ancora incantati dal labirinto di specchi (in stile La signora di Shangai) in cui la nostra immagine si rifletteva al tempo e si riflette oggi, ma il resto del mondo ha specchi diversi e interpreta quel periodo in modo diverso, e i risultati di squadra corroborano di più la visione “altra”, rispetto alla nostra.
Riempiere squadre “normali” o di fascia medio-bassa di campioni è il sintomo della straordinaria forza economica del tuo movimento sportivo, ma da altri punti di vista può anche essere interpretato come un gesto di arroganza inconcludente, e oggi noi saremmo i primi a interpretarlo in questo modo, se lo vedessimo mettere in atto da inglesi o spagnoli.