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Roberto Baggio tra vizi e virtù

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Da quando mi hanno affidato il compito di scrivere un pezzo su Roberto Baggio, qualche giorno fa, sento una strana e indecifrabile inquietudine. E adesso che inizio a tracciarne il ritratto, come sempre impressionistico più che storiografico, in controluce più che aneddotico, capisco il motivo della leggera ansia che mi avvolge. Improvvisamente, mi appare chiaro che mi farò dei nemici e, dal momento che vivo nel Bresciano, che li incontrerò per strada tutti i giorni e che mi toglieranno il saluto. Roby Baggio, il Divin Codino, è infatti da queste parti amato, incensato, idolatrato al pari di Carletto Mazzone e forse più di Andrea Pirlo che è l’unico della triade aurea del calcio a queste latitudini a essere bresciano di natali.

Forse mi converrebbe proprio rivedere certe mie posizioni e giocare la carta dell’astuzia diplomatica, ma quel che mi resta della serietà professionale e il rispetto, neppure tanto orgoglioso, delle mie stesse idee, mi convincono ad accettare il rischio e di sostenere di cotanto personaggio esattamente quel che penso. E, tanto per lucidare il coltello, da dove nascono tutte queste mie preoccupazioni? Dal fatto che, per molti versi, io ritengo Roberto Baggio l’esatto opposto, per esempio di un grande come Gigi Riva. Sia come rapporto tra valore effettivo e quello attribuito, sia come capacità etica di essere coerente, sia infine, visto che si tratta di due icone scomode, come potenza d’impatto nei confronti del potere, calciofilo e non.

Carletto Mazzone e Roberto Baggio: un grande rapporto di stima

Se il primo si è legato per amore a una sola maglia, due con quella azzurra, fino ad apparire quasi un eremita nel mondo del pallone, il secondo ha fatto il giro delle “sette chiese” andando a raccogliere tutto ciò che poteva in cambio, questo è vero, di giocate sublimi al limite dell’impensabile. Ma anche di continui giuramenti di fedeltà eterna poi puntualmente disattesi per dissidi, come vedremo, con l’allenatore di turno o divergenze con la dirigenza. Credo che Baggio sia stato, tra l’altro, il primo di un’interminabile schiera di giocatori della Fiorentina, in opposizione storica alla Juventus, ad essere passati, dopo aver assicurato che mai e poi mai l’avrebbero fatto, direttamente dal viola al bianconero.

Dopo di lui, tanto per citarne qualcuno, Chiellini, Cuadrado, fino ai più recenti Vlahovic e Chiesa: tutti, più o meno, con le stesse modalità dissociative. E se è vero che questa è un’abitudine molto diffusa tra i calciatori, non solo viola, e pure tra gli allenatori, è altrettanto vero che Baggio ha avuto questo comportamento ogni volta che è approdato in un club e, poi, ogni volta che se ne è andato.

Insomma, per dirla tutta, io ritengo Roby Baggio uno dei giocatori più sopravvalutati del calcio italiano. E a chi mi propone un possibile parallelo con Mariolino Corso, rispondo che accanto a diversi tratti che possono accomunare queste due figure, diciamo pure questi due talenti, come l’anarchia tattica, la capacità sopraffina di domare il pallone e le sue traiettorie, l’atteggiamento in campo, a volte sornione altre frizzante, capace di attirare i cultori del tocco magico, ce ne sono mille altri che, a mio parere, fanno in modo che li si debba porre su piani molto distanti. Corso era a suo modo un uomo squadra, nel senso che comunque privilegiava il vantaggio collettivo rispetto a quello personale e anche le sue giocate più spettacolari non erano mai fini a se stesse. Si può forse dire la stessa cosa di Baggio? Certamente, no. Le sue giocate sublimi, i suoi dribbling spiazzanti erano come singole e ripetute dimostrazioni del proprio talento e della propria classe elargite al pubblico e pagate profumatamente dal munifico presidente di turno.

Ricordo un’Inter-Real Madrid di Champions del novembre ’98 a San Siro. Mancano venti minuti alla fine, il risultato di 1-1 non è sufficiente ai nerazzurri per qualificarsi, quando Gigi Simoni fa entrare Baggio per Zamorano. Il Divino, così chiamato dalla stampa per essersi tagliato momentaneamente il codino, dopo aver perso qualche prezioso pallone, negli ultimi minuti segna una doppietta rimasta storica nella bacheca e caldissima nei cuori dei tifosi interisti. Non voglio, qui, sminuirne un valore obiettivamente altissimo, ma ricordo perfettamente di essermi già allora stupito delle due esultanze di Baggio, specialmente della prima. Aveva sì qualcosa di liberatorio, molto giustificata, ma anche di polemico e soprattutto di auto incensatorio. È come se quel gesto volesse urlare a tutti che non era affatto giusto farlo partire dalla panchina, che senza di lui i compagni mai ce l’avrebbero fatta e che quella Inter, come tutte le altre, era Baggio più altri dieci. Per quest’ultimo motivo adesso baciava la maglia e mandava baci agli spalti, a quella gente stipata che aveva pagato un biglietto salato e fatta, magari, tanta strada per vedere lui e gli altri dieci.

Quanta differenza con l’umana sobrietà di un Gigi Riva! Quale dislivello di schiettezza e di indipendenza dalle debolezze pecuniarie o dalle catene della visibilità. È sufficiente confrontare il curriculum calcistico dei due giocatori per capire per rendersene conto e per rimanere allibiti. Alla voce “Società di appartenenza“ per uno abbiamo due tacche: Legnano in D e Cagliari, per l’altro tutto il gotha del calcio italico: Juve, Inter e Milan, con l’aggiunta, qua e là, di Vicenza, Fiorentina, Bologna e Brescia. Un florilegio di maglie, ognuna rigorosamente baciata, come si diceva, come fosse quella veramente amata, come fosse l’ultima. E non è un caso che l’unico amore veramente ricevuto, forse anche corrisposto, sia stato quello con la tifoseria bresciana, ma ciò è dovuto, a mio avviso, a ragioni meramente biografiche dal momento che Baggio trentasettenne proprio all’ombra del Cidneo nel 2004 ha chiuso la carriera.

Baggio esce per Del Piero sotto lo sguardo di Lippi

Per carità, non è mia intenzione sostenere che cambiare molte casacche sia un indice negativo, ma non vi è alcun dubbio che il suo rapporto, diciamo così, turbolento con i vari allenatori che ha avuto sia stato alla base dei suoi continui nuovi approdi. Baggio è stato, in sostanza, più apprezzato dai tifosi e dalla stampa specializzata, specialmente quella lontana dai campi che ha frequentato, che dai tecnici. In primis, quelli che con cui ha lavorato, sia nei club che in Nazionale. L’unica vera eccezione al riguardo è rappresentata da Carletto Mazzone, l’allenatore dei suoi anni conclusivi a Brescia. La sintonia tra il pittoresco e verace tecnico romano e il fantasista vicentino è alla base di un triennio favoloso per le rondinelle (2000-03), triennio che proietta Baggio direttamente e incrollabilmente nel cuore della gente bresciana, che sia tifosa o meno. Il campionato successivo, con De Biasi sulla panchina del Brescia, è l’ultimo giocato da Baggio che, da allora, è uscito totalmente, guarda il caso, dal mondo del calcio.

Affrontando la storia di Roberto Baggio, non si può evitare di porre una particolare attenzione a ciò che successe durante i Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Il Commissario Tecnico di quella spedizione era Arrigo Sacchi, reduce dai trionfi in rossonero e considerato, ormai universalmente, un rivoluzionario del gioco e della tattica. La rosa azzurra, rivoluzione anche in natura…, era formata da giocatori particolarmente funzionali alle idee del Mago di Fusignano e, qualora non lo fossero stati perfettamente, ecco che gli aggiustamenti appositi erano all’ordine del giorno. Rammento un Signori in mediana e un Berti tornato, come alle origini a Parma, all’ala… E poi c’era lui, il fantasista di Caldogno, con la sua anarchica genialità o, se volete, con il suo genio tatticamente non collocabile. Arrigo ne aveva già avuti di cavalli bradi al Milan, i tre orange su tutti, ma da bravo domatore, pur con qualche dissidio con il Berlusca presidente, aveva accettato di provare a raddrizzarli tutti. Riuscendovi alla grande.

Baggio e Sacchi a USA ’94 [foto Aic/Image Sport]

A Milanello, però, vedeva i giocatori tutti i giorni mentre da CT della Nazionale, avendoli tra le mani ogni tanto e per poco tempo, era tutta un’altra impresa. E comunque… fatta questa lunga ma necessaria premessa, l’Italia pallonara si appresta a vivere questa edizione planetaria di mezzogiorno, visto il fuso, con curiosità e aspettative. Sarà un Mondiale emblematico sia per Sacchi che per Baggio, ma desidero qui porre l’attenzione sopattutto su quest’ultimo.

E il primo episodio, scabroso, accade già alla seconda partita. La prima ha visto gli azzurri perdere contro l’Irlanda per cui, questa con la Norvegia, si mostra già delicatissima. Detto che la quarta del girone è il Messico e che quindi definirlo tutt’altro che ostico è già esagerare per eccesso, la gara con gli scandinavi si complica già al 20’ quando Pagliuca viene giustamente espulso. Sostituire l’estremo difensore è indispensabile, ma va tolto un giocatore di movimento e Sacchi fa cadere la sua scelta su Baggio. Chi mi conosce sa quanto le idee di Sacchi sul calcio siano, le professa ancora…, lontanissime dalle mie, ma questa volta sono d’accordo con lui.

La rinuncia a uno degli attaccanti, in questi casi è più obbligata che consueta e tra i due, se ne hai due, va tolto il fantasista, quello che, con la sua assenza, non sbilancia ulteriormente la squadra. Chi non è d’accordo sulla scelta è proprio Baggio, a quel tempo stella juventina, che uscendo dal campo e a chiaro favor di telecamera, scandisce due volte la frase: ‘Questo è matto’ con un labiale chiarissimo. Il Codino poteva usare qualsiasi altra espressione, anche scurrile, per dimostrare il proprio, comprensibile sul piano personale, disappunto. Invece sceglie di urlare bene in mondovisione ciò che pensa del proprio allenatore, calpestando oltretutto gli interessi della squadra per lamentarsi di un presunto mancato rispetto dei suoi.

Baggio contro la Nigeria

La psicologia del Baggio giocatore è rappresentata quasi tutta in questo episodio. E ciò che ne rimane fuori è incredibilmente ben espresso da ciò che accade dopo in questo stesso Mondiale. Baggio non subisce, come molti si attendono, alcuna sanzione. Roby, anzi, dopo che l’Italia passa il turno per il rotto della cuffia (e ancora, come dodici anni prima, grazie al Camerun…), sfodera prestazioni decisive in serie. Agli ottavi, contro la Nigeria, agguanta il pareggio al 90’ a valigie per il ritorno già chiuse, e nei supplementari realizza il rigore del 2-1; anche ai quarti con la Spagna firma il 2-1 decisivo e sono suoi anche entrambe le reti del 2-1 (ancora!) con la Bulgaria nella sfida che ci apre le porte della finale con il Brasile.

Molti saranno a questo punto portati a pensare: ma allora Baggio è uno che non porta rancore! Sacchi nemmeno! Avranno parlato, si saranno chiariti, avrà prevalso lo spirito di gruppo! Ma quando mai!! I due sono inguaribili individualisti, attenti, come già si è detto per il giocatore, alla gloria propria più che a quella collettiva. Arrigo ha sempre visto gli atleti come pedine da muovere sulla scacchiera verde e Roby ha sempre badato al proprio score come l’unico commutabile allo sportello. Dopo la Norvegia, Sacchi capisce che non può fare a meno di quella pedina e Baggio sa che se non gioca e non segna…

L’ultimo capitolo americano di questo compendio psico calcistico si compie sul dischetto di un rigore di spareggio per un trionfo che arride al Brasile. Inutile drammatizzare ancora ciò che anche i bambini rivedono nelle memoria elettronica, inutile rivangare. Baggio lo sbaglia, decretando di se stesso, con buona pace per la canzone di De Gregori, la fine di tutte le teorie che lo vedono come uomo indispensabile e decisivo.

Baggio e Sacchi al Milan

Curiosamente, nella saga tra il romagnolo e il vicentino, ci sarà un ulteriore incontro ravvicinato. Nel campionato 1996-97, Berlusconi chiama il vecchio amico al capezzale del suo Milan zeppo di stelle, ma allenato da Tabarez, un uruguaiano di fama ma ritenuto dall’uomo di Arcore non all’altezza. Sacchi accorre e si ritrova a dover gestire Baggio in una squadra rossonera nona in classifica, ma… Ma sarà per una certa stanchezza, sarà per la presenza di troppi talenti anomali da raddrizzare (oltre a Roby ci sono Boban, Savicevic), il Milan finirà undicesimo. Sacchi comincia da qui una discesa professionale che lo porterà a ritirarsi definitivamente pochi anni dopo, mentre Baggio si accaserà al Bologna.

Comprendo perfettamente quelli che, sotto qualunque bandiera o fede calcistica, si sentono oggi ancora “vedovi“ di Baggio e delle sue magie balistiche. Comprendo anche gli atei del calcio, quelli che non hanno a cuore alcuna maglia e che mi stanno molto simpatici, che pongono il vicentino di Caldogno nell’Olimpo pedatorio. Li capisco tutti, ma lasciatemi preferire chi, magari molto più umile, ha legato il proprio nome a imprese memorabili anche sul piano personale, ma collettive su quello della gloria sportiva.

Concludo, veramente, con un’affermazione che temo mi priverà anche del rispetto dei parenti: Roberto Baggio sarebbe stato, sul piano agonistico, un meraviglioso giocatore di tennis.

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