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Mario Corso, il funambolo fermo

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Immagine di copertina: Corso premiato da Giuseppe Meazza, due glorie nerazzurre

Mario Corso, indimenticabile numero 11 della Grande Inter, era nato a in un sobborgo di Verona, San Michele Extra, nel 1941 e resta uno dei rebus irrisolti di tutta la storia del calcio, uno dei misteri tecnici più affascinanti e più belli da ricordare. Come quando ti passa accanto una donna di classe magnifica che ti sorride e poi scompare nel nulla da cui era comparsa.

Mario Corso, il suo gioco sublime, il suo calcio senza punteggiatura mi hanno sorriso, senza appunto lasciare storia. Tracce a non finire, profumi, aromi, intese e sfumature sfumate, ma filoni nessuno. Molti cultori pagati per esserlo lo ritengono il capostipite dei ‘giocatori anomali’, quelli senza fissa dimora in campo, come Roberto Mancini o Roby Baggio, Hoddle, Griezmann o il Grealish prima di incontrare Pep. Io invece non credo che Mariolino, uno dei suoi tanti nomignoli, un altro era piede sinistro di Dio, abbia avuto eredi e men che meno eguali. Con questo non voglio certo affermare sia stato il più grande di tutti, sostengo semplicemente che quel suo modo di vivere, e spesso decidere, le partite rimane ancor oggi un unicum inimitabile.

Dirò di più. Parlando con un amico coetaneo e interista, uno che se lo ricorda bene e che nella vita ha fatto l’inviato di calcio vedendone migliaia, si concordava sul fatto che un giocatore di quelle caratteristiche oggi giocherebbe forse in Serie C. E per di più in una squadra senza ambizioni e che abbia il presidente o l’allenatore un po’ svitati, oggi si dice creativi. Meglio se tutti e due. Il ruolo che ricopriva Corso non c’è più, sempreché ci sia mai stato. Sì, perché non a caso nella prima riga di ciò che state leggendo lo definisco ‘il numero 11…’ e non l’ala sinistra, anche se molti dei suddetti cultori in questo modo lo catalogano, proprio perché la sua anarchia sul terreno di gioco era assoluta, spesso geniale altre volte indisponente.

Corso e Herrera

Provate a dirlo a Helenio Herrera! Uno che era disposto a tagliarsi lo stipendio, gli spiccioli eh…, purché Angelo Moratti glielo levasse dallo spogliatoio e soprattutto del campo. Ma il Presidente, padre di Massimo e innamorato delle giocate del veronese come il figlio lo sarà di quelle di Alvaro Recoba, non gli ha dato mai retta e alla fine HH, dopo averlo mobbizzato per diverse stagioni, ne ha fatto furbescamente fatto passare l’anomalia di posizione come una propria trovata, l’ennesima.

Corso, apparentemente timido e schivo e comunque refrattario al proscenio, ha accettato il compromesso continuando a giocare a modo suo, senza correre, rifuggendo le zone assolate e, soprattutto, facendo impazzire qualunque avversario cercasse di togliergli la palla. Giocava solo con il sinistro, ma il dribbling lo faceva con tutto il corpo. Era capace di sbilanciare il proprio assetto, un po’ come avrebbe fatto Cruijff in modo, però, molto più dinamico, al punto da far perdere l’equilibrio al difensore o ai difensori.

Personalmente, l’ho visto in un Mantova-Inter 1-6, già a fine carriera nerazzurra, far cadere tre giocatori virgiliani con il semplice movimento delle anche ma senza muoversi di un centimetro. Questo era sempre stato, fin dalla fine degli anni ’50, il suo modo di liberarsi del marcatore, senza correre, senza sgomitare, senza creare affanni. Né, tantomeno, averli. Gli affanni invece li procurava a Herrera e ai portieri avversari. Il primo, e come dargli torto?, perché si vedeva arrivare al campo di allenamento, spesso era l’Arena di Milano, questo giovanotto con la pancetta da bancario, la voce bassa e sottile, la stempiatura già pronunciata e gli occhi un po’ ovali e liquidi da alcolista (è sempre stato praticamente astemio…). In più era refrattario alla disciplina di gioco, passava quando doveva tenerla e non la mollava mai, la nascondeva, quando i compagni attendevano liberi. Forse, qui lo dico e qui lo nego, è proprio da questa lacuna all’ala che nasce l’idea e lo spazio per le sgroppate e i gol di Giacinto Facchetti. Ma, secondo il Mago, sempre in dieci si giocava.

E allora, ecco le preghiere a Moratti che, sì, voleva vincere ma che non voleva capire che con questo impiegato postale all’ala sinistra sì e no arriviamo quarti. E anche quando arrivano i primi scudetti, ecco che le lagne continuano su un altro piano: questo qui in Europa se lo bevono! Questa volta Angelo scricchiola e alla fine cede: prima Szimanyak, un armadio tedesco di chiara origine polacca che a Catania giocava mediano di rottura più che di spinta, poi Peirò. Il primo a Corso non ha fatto neppure il solletico, ma con il secondo, un ottimo giocatore, un attaccante alla Dzeko, uno che manovra e non finalizza soltanto, il nostro Mariolino si sente messo in discussione, eccome! È con l’arrivo dello spagnolo che Corso dà il meglio di sé, tanto che alla fine pure il loquace tecnico franco argentino si arrende definitivamente: Peirò e Corso, in Europa dove è schierabile il terzo straniero, giocano molto spesso insieme, a discapito del centravanti Di Giacomo.

Peirò: prima rivale nel ruolo, poi spalla ideale di Corso sul suolo europeo

Herrera, a dire il vero, non fu il solo tecnico ad essere perplesso sull’impiego di Corso in campo internazionale. Solo così si può spiegare il suo scarso impiego in azzurro, con solo una ventina di presenze, e quattro reti, e nessuna partecipazione a tornei e manifestazioni di rilievo. Anche la stampa sportiva dell’epoca non fu tenera con lui e celebre è diventato l’epiteto che Gianni Brera aveva inventato per lui: “Corso, il participio passato del verbo correre”.

Si diceva prima dell’affanno anche dei portieri. Non che il veronese frequentasse molto l’area di rigore avversaria, troppo lontana forse dalla sua postazione preferita, ma quando c’era da calciare una punizione dal limite… Non è dato sapere chi coniò per primo l’allocuzione ‘foglia morta’, chi dice Carosio chi Ormezzano, fatto sta che la palla calciata da Corso assumeva un effetto tale da farle cambiare direzione due volte durante il volo, tre se toccava terra. Il malcapitato portiere, una delle decine di portieri, vedeva immancabilmente il pallone infilarsi in rete dalla parte opposta rispetto ai propri calcoli e alle proprie attese. Sempreché i continui svolazzamenti di questa foglia morta non l’avessero convinto a rimanere immobile al centro della porta.

Lawrence, il portiere del Liverpool già beffato proprio da Peirò un minuto prima, è uno di quelli che si sarà chiesto tutta la vita come ha fatto a prendere quel gol su punizione e che strada ha fatto quel pallone calciato (o lanciato?) da quel vecchietto stempiato e panciuto. Era il 12 maggio 1965 (Corso, per la cronaca, ha 24 anni) e si gioca a San Siro la semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni. In casa, i Reds si sono imposti per 3-1 e per ribaltarla serve una vera impresa, ma l’aria è buona: dopo appena 9’ l’Inter è già avanti 2-0. Peirò e Corso. Ci penserà Facchetti, a riprova che forse questa gara è il compendio della storia nerazzurra del piede sinistro di Dio, ci penserà proprio la sgroppata di Giacinto, conclusa con un’anomala staffilata, a decretare il 3-0 con cui i nerazzurri approdano a una finale più sudata che mai. Un remuntada ante litteram che si concluderà con la seconda Coppa a spese del Benfica. E, tanto per chiudere la storia, è bene ricordare che la ‘nostra ala sinistra’ era stata decisiva l’anno prima, nella conquista della Coppa Intercontinentale contro l’Independiente, segnando sia il gol del 2-0 nella gara di ritorno sia, soprattutto, la rete decisiva nei supplementari dello spareggio di Madrid.

Che dire altro? Le magie di questo funambolo senza velocità, di questo acrobata della logica agonistica, sono e rimarranno inenarrabili. Come è giusto che sia per un giocatore irripetibile e immortale (il suo corpo si è spento nel ’20), definito a volte ‘invisibile’, altre ‘onnipresente’: un ossimoro senza eguali, proprie dell’unico calciatore capace di essere fermo e sgusciante nello stesso tempo. Ma a riprova che quel sorriso non me lo sono soltanto immaginato, quella filastrocca oramai universale che muove da Sarti, Burgnich… finirà sempre e per sempre con …Suárez, Corso.

Mario Corso contro il Liverpool, semifinale di ritorno della Coppa Campioni 1964/1965

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