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Influssi e limiti geografici e generazionali sulle valutazioni sportive

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  • “Omar Sivori è il giocatore più forte che abbiamo avuto in Italia e nei suoi anni d’oro era secondo solo a Pelé”
    (alcuni tifosi juventini anni ’50 di mia conoscenza)
  • “Eric Cantona is the greatest football player ever”
    (un amico pakistano che vive in Inghilterra, tifoso dello United, nato nel 1980; piccola considerazione di un tifoso che si aggiunge al plebiscito ottenuto dal giocatore francese nel 2000, quando ai sostenitori dei Red Devils fu chiesto di votare il loro giocatore del secolo)
  • “Quando mi chiedono chi sia il migliore tra Pelé e Maradona, io rispondo sempre: Moreno” (Mario Boyè, grande campione argentino degli anni ’40 e ’50, che fece per un breve periodo anche le fortune del Genoa)
  • “Neymar è il miglior giocatore visto in Brasile dai tempi di Pelé. La stessa musa che ci ha regalato Pelé molti anni dopo ha deciso di regalarci anche Neymar”
    (diversi giornalisti brasiliani nel 2011, dal documentario dedicato da Netflix al campione brasiliano)
  • “Cruijff per me era e forse resta il migliore calciatore di tutti i tempi: aveva tutto, era un leader, col suo scatto lasciava chiunque dieci metri dietro, tirava, passava, colpiva di testa, scartava, lanciava”
    (Mario Giubertoni)
  • “Claudio Sala è il più grande talento che abbiamo avuto in Italia”
    (questa non è proprio una citazione ma una sorta di sinossi del pensiero del grande giornalista italiano Giorgio Bubba)
  • “Ancora adesso, se debbo pensare al calciatore più utile ad una squadra, a quello da ingaggiare assolutamente, non penso a Pelé, a Di Stefano, a Cruijff, a Platini, a Maradona: o meglio, penso anche a loro, ma dopo avere pensato a Mazzola”
    (Giampiero Boniperti)
  • “Venne all’Inter a 33 anni ed era ancora il migliore al mondo. Faceva cose che noi altri potevamo soltanto immaginare. Non oso pensare cosa dovesse essere dieci anni prima, quando era al meglio della forma fisica e tecnica“.
    (Giuseppe Meazza su Hector Scarone)

Le opinioni che ho riportato – alcune sostenibili, altre un po’ se non molto discutibili – vogliono semplicemente essere il preludio a una riflessione che investe il modo in cui viviamo e percepiamo il mondo che ci circonda, e anche lo sport che più amiamo.

Cerco di essere subito chiaro: i filtri che abbiamo sugli occhi, spesso senza esserne consapevoli, sono decisivi anche nel momento in cui stiamo esprimendo il nostro parere su un giocatore, su una squadra, persino su una “epoca” (sempre ammesso che le epoche esistano).

I filtri “inconsapevoli” sono il prodotto del contesto in cui siamo nati e cresciuti: io sono nato in provincia di Brescia, Italia, quando stava tramontando il 1982.

Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza quando il calcio italiano era con margine il più ricco del mondo, faceva collezione di fenomeni e si imponeva con frequenza negli scenari internazionali. Getto subito la maschera: nel mio cuore non esisterà ma nulla che sia paragonabile al Parma degli anni ’90, e il successo ottenuto in coppa UEFA nel 1995, superando una Juventus superiore, è forse ancora oggi la massima gioia sportiva della mia vita; o meglio, si contende la corona con i risultati ottenuti dal Brescia a inizio millennio, quando io stavo addentrandomi nei miei vent’anni, e a Brescia sbarcava (come se scendesse da un UFO) tale Roberto Baggio, ancora oggi, probabilmente, il giocatore cui sono più legato.

Il Parma festeggia dopo aver vinto la prima Coppa UEFA della propria storia il 17 maggio del 1995 [Ap photo/Luca Bruno]

Vedere il Brescia issarsi sino a impronosticabili settimi posti in una serie A dove ancora circolavano soldi, campioni e squadroni, è stata una soddisfazione immensa. Potersi godere le gesta di un genio del calcio, ancorché attempato, spesso penalizzato da seri problemi fisici, è stato a sua volta una goduria.

Negli anni ’90, ovvero da quando ho memoria, era difficile informarsi in maniera puntuale sul calcio che si giocava negli altri Paesi. Vero, alcune TV trasmettevano le partite della Liga (da qui la mia passione per il gioco del Barcellona, che perdura ancora oggi) e quindi potevo lustrarmi gli occhi con le aperture geniali di Laudrup e poi con le accelerazioni che bucavano la barriera del suono di Ronaldo, o con i gol sornioni e perfidi di Romario.

Ma la Spagna restava un mondo lontano, e in ogni caso le grandi competizioni europee suffragavano (non sempre, ma con una certa frequenza) una tesi solida nella nostra testa e nella narrazione dei media (al tempo, solo radio e TV): il calcio migliore e più difficile si giocava nel nostro Paese, che era l’Università del nostro sport preferito, almeno per gli attaccanti, chiamati a confermarsi nel mare di trappole tattiche, astuzie difensive e interventi ruvidi che al tempo impreziosivano la complessa strategia difensiva delle nostre squadre, se volevano laurearsi; chiamati a confermarsi contro i difensori e i reparti più ostici del mondo, se volevano ambire al trono dei grandissimi.

In sostanza, quando ero un ragazzino e il calcio nella mia vita aveva un peso che oggi non può avere, l’Italia era il centro del mondo del calcio, o meglio si sentiva il centro del mondo e i risultati, in buona misura, soffiavano nelle trombe della sua spocchia.

Sono però sicuro che se mi confrontassi con un coetaneo che ha vissuto all’estero la narrazione di quel periodo sarebbe diversa: non potrebbe negare lo spessore e le difficoltà del calcio italiano, pena la perdita di credibilità, ma sicuramente i suoi giudizi sarebbero condizionati da filtri diversi e quindi sarebbero distanti dai miei. In Inghilterra, Paese insulare e malato di un egocentrismo anche più radicato del nostro, la storia potrebbe cambiare radicalmente: per gli appassionati inglesi gli anni ’90 significano con probabilità nomi, squadre e miti diversi dai nostri, anche se i risultati europei davano ragione più a noi che a loro. E i tedeschi? E se attraversassi l’oceano e parlassi con un appassionato brasiliano, messicano o argentino?

Non dimentichiamo che negli anni ’90 in Brasile vivono e godono la breve ma intesa epopea del San Paolo, che dopo il campionato vince la Libertadores per due volte e in Giappone, nella finale Intercontinentale, ha la meglio sul Barcellona di Cruijff (“Se devi essere investito, meglio che lo faccia una Ferrari”: le parole di Johan dopo la finale persa contro Tele Santana) e sul solido, invincibile Milan di Capello; e che in Argentina vedono il piccolo Vélez Sarsfield, privo di stelle conclamate se facciamo eccezione per il portiere, superare il Milan campione d’Europa.

E a proposito di Intercontinentale, non si dimentichi mai che prima della Legge Bosman, che ha portato in Europa talenti sudamericani ancora giovanissimi mutando drasticamente i rapporti di forza con il Vecchio Continente, le squadre sudamericane l’avevano vinta 20 volte contro le 14 delle europee. Questo perché conservando la stragrande maggioranza dei loro campioni (quante volte abbiamo portato l’esempio del Brasile tri-campione mondiale tra 1958, 1962 e 1970 nel quale tutti i calciatori che militavano in patria al momento della conquista del titolo; per non parlare che dell’Argentina iridata del 1978 il solo Kempes giocava all’estero, o del valore assoluto di certi vincitori del Pallone d’oro sudamericano rispetto ai nostri tra gli anni ’70 e i primi anni ’80), potevano mantenere un livello qualitativo e organici non inferiori a quelli dei top team europei. La visione eurocentrica che “il miglior calcio si giocasse in Europa“ (o peggio ancora: in Italia) non aveva dunque alcun riscontro pratico, ed è solo figlia del fatto che gli europei ragionano con occhi europei.

Il San Paolo campione del mondo nel 1993

Arrivo al dunque: per quanto possiamo cercare di essere obiettivi e di attribuire lo stesso valore a ogni “fatto”, a ogni risultato, dietro il reticolo della nostra argomentazione logica scorre sempre la linfa vitale dell’adorazione, di quell’impulso irrazionale che, inevitabilmente e fortunatamente, ci lega a certe realtà più che ad altre, e ne trasforma (un poco) le dimensioni nei nostri occhi e cuori.

Credo sia anche una questione di limiti: non possiamo conoscere tutto, seguire tutto, informarci in maniera accurata su tutto, neppure oggi, con gli infiniti mezzi di cui disponiamo, figuriamoci negli anni in cui internet era un miraggio o un lusso costoso. La ristrettezza delle informazioni di cui disponiamo, spesso forgiata da una narrazione egemone e che è a sua volta il prodotto di un determinato contesto storico e culturale (per il nostro Paese, gli anni ’80 e i primi ’90 sono stati una sorta di Eldorado: eravamo ricchi, vincenti, le nostre squadre erano affollate di campioni, e il mondo ci aveva puntato le telecamere addosso nel 1990; nel 1984, per fare un esempio, il giocatore più pagato d’Inghilterra era Bryan Robson, che guadagnava infinitamente meno delle stelle del Belpaese: sic transit gloria mundi), non può che “costruire” le nostre opinioni e valutazioni.

Non esiste rimedio, se non provare a mettere in discussione certezze che assomigliano a luoghi comuni e/o comunque a valutazioni “eteree”, a convinzioni tramandate con una sicurezza che fa a pugni con tutto quanto ho provato a illustrare prima in merito alle nostre possibilità percettive.

Non è un caso, a mio parere, che molti dei giocatori più amati e celebrati dai tifosi e dagli appassionati italiani abbiano militato nel nostro campionato, soprattutto durante la lunga e fastosa età dell’oro che inizia dopo i mondiali di Spagna e si conclude con la stagione delle sette sorelle, o se vogliamo essere magnanimi con calciopoli.

Non è un caso neppure che in altri Paesi, soffrendo le medesime limitazioni di cui soffriamo noi, la narrativa sia radicalmente diversa: quando esplori il loro mondo, scopri fatti che ignoravi e che ti costringono a risistemare le coordinate del tuo pensiero sullo sport: scopri ad esempio che l’Aberdeen guidato da Ferguson ha vinto una Coppe delle Coppe superando con pieno merito Bayern Monaco e Real Madrid, e poi in Supercoppa UEFA lo stesso Amburgo che aveva incartato la Juventus stellare di Trapattoni pochi mesi prima. In Scozia, la squadra di Ferguson è ancora oggi una sorta di figura mitologica e merita un posto tra le grandi della storia, mentre per noi quel trofeo ha un’importanza secondaria e non è paragonabile ai trionfi delle nostre squadre in coppa UEFA

Io, da baggista di vecchia data, considero il contributo di Roberto al successo bianconero in coppa UEFA impagabile, e meritevole di un pallone d’oro; istintivamente, tuttavia, non riesco a dare lo stesso valore alla coppa UEFA vinta dal Bayern Monaco nel 1996, con un Klinsmann che fa collezione di record, e neppure al trionfo della Real Saragozza sull’Arsenal nella Coppa delle Coppe del 1995 (ho invece scoperto che in Spagna hanno dedicato speciali, documentari al trionfo).

Il senso di fondo è che ogni nazione, ogni movimento calcistico, ogni generazione esalta ciò che ha vissuto di più sotto mano. Così chi è cresciuto negli anni ’50 incensa Di Stéfano, negli anni ’60 Pelé, e molti 40enni o 50enni che popolano Facebook – social di riferimento di quel target di età – hanno il mito di Maradona o di Ronaldo il Fenomeno, e in generale del calcio che va dagli anni ’80 a buona parte degli anni ’90, a grandi linee fino a Calciopoli. Soprattutto italiani, perché quello rimane il calcio a cui sono più legati da giovani, quello nel quale si sono sentono più coinvolti o rappresentati. Ragioni emotive, non sportive. Gli stessi addetti ai lavori sono influenzati dalla nazione in cui sono nati, cresciuti e lavorano: quando Adalberto Bortolotti per il Guerin Sportivo e Carlo Felice Chiesa per Calcio 2000 stilarono nel 1999 l’elenco dei 50 (Bortolotti) e 150 (Chiesa) campioni del ‘900, il Paese più rappresentato era l’Italia. Il principio vale in ogni Paese: un giornale olandese tenderà a dare risalto a calciatori olandesi in numero superiore agli altri, un giornale tedesco farà lo stesso con i tedeschi e così via.

Maradona e Ronaldo il Fenomeno: due dei massimi campioni che hanno entusiasmato i calciofili italiani

I giudizi sono dunque frutto molte volte di valutazioni geografiche e generazionali. In aggiunta alla considerazione che fa spesso parte della forma mentis umana, che tutto quello che arriva dal passato fosse automaticamente migliore. Al di là della impossibilità di verificare una simile affermazione, rimane la particolare constatazione per la quale quando un giocatore, anche dalla classe e dal curriculum importanti e a lungo criticato nel corso della sua carriera, si ritira o si appresta a terminare la propria parabola sportiva, automaticamente guadagna un’aura di semi-invulnerabilità nell’immaginario collettivo. E le critiche magicamente si spostano sul nuovo campione, sul nuovo astro nascente, passato di colpo sotto le luci dei riflettori. La cronaca è critica, mentre la storia tende a selezionare solo il meglio e lasciar decadere il peggio. Naturalmente queste sono tendenze di fondo. Discorso diverso per le analisi mirate e profonde, che scavano e scrostano oltre la superficie, e che possono essere affrontate indipendentemente dalle epoche.

Un’analisi accurata e scevra da condizionamenti parte comunque sempre da un presupposto: che ogni periodo storico presenta ostacoli o difficoltà e che non esiste un’epoca calcistica più facile, più complicata o più bella (la bellezza è quanto di più soggettivo esista). Negli anni in cui il ritmo era più lento e la preparazione e il professionismo moderni erano sconosciuti, i calciatori calzavano scarpe e vestivano indumenti di bassissima lega, calciavano palloni cuciti in modo amatoriale, e per curarsi da infortuni o incidenti di gioco oggi ritenuti banali potevano impiegare un lasso di tempo infinito (se non terminare anzitempo la carriera). E già solo il calcio di oggi, più veloce, più globale, con una preparazione maggiormente accurata in diverse parti del mondo, non si può confrontare con il calcio di pochi anni o decenni fa, ad esempio quello degli anni ’80 e buona parte dei ’90, inno al difensivismo, alla sagacia tattica, trionfo delle difese chiuse rispetto al gioco super offensivo di oggi: contesti diversissimi e imparagonabili, contesti impossibili da raffrontare se non partendo dal principio per cui “un campione sarebbe un campione sempre e un bidone un bidone sempre”.

Anche perché, oltre alla bravura tecnica e al valore della carriera, un calciatore affronta in un periodo determinati ostacoli che non troverà in un altro, o viceversa. Se Maradona avesse subito lo stesso gravissimo infortunio patito nel 1983, per opera del basco Goikoetxea, già solo 10 o 20 anni prima – senza andare ai tempi in cui una rottura del crociato significava la fine automatica della carriera anche in giovanissima età, come successo nel 1927 al 26enne campione ungherese György Orth – la sua parabola calcistica sarebbe terminata probabilmente in quel momento, a soli 23 anni. E di esempi ve sono innumerevoli, a cominciare dagli incidenti devastanti subiti da Ronaldo il Fenomeno o Del Piero poco più che ventenni. Ulteriore dimostrazione che estrapolare un calciatore dal suo tempo e dal suo contesto, proiettandolo d’amblé in un altro, e pretendere di arrivare alla conclusione che una determinata epoca sia migliore o peggiore di un’altra, non ha alcuna logica proprio come senso sportivo.

Ammesso che abbia un senso, si arriva così al solo strumento con un minimo di fondamento per tentare di capire quanto un calciatore sia stato performante: e cioè vedere quanto abbia dominato – in termini di qualità, continuità, impatto e peso delle giocate – nel suo periodo, durante la sua carriera, con le regole e i parametri con cui ha dovuto misurarsi. Resta chiaramente una visione sempre soggettiva o personale. Non esistono verità assolute, ma solo relative. Anzi: come diceva il filosofo tedesco Gottfried von Leibniz, «la verità è un prisma dalle innumerevoli facce». Un concetto sempre attuale, soprattutto nello sport.

FRANCESCO BUFFOLI
con la collaborazione di NICCOLÒ MELLO

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