Prima del 1954 la Germania non aveva idea di che cosa significasse vincere un torneo importante di calcio. A dirla tutta, non sapeva nemmeno cosa significasse competere per un simile traguardo. Si trattava di un movimento amatoriale – che in quanto tale presenziava soltanto ai Giochi Olimpici – il quale sarebbe stato destinato a rimanere tale ancora per nove anni, in netto contrasto con quanto era avvenuto circa trent’anni prima in altre nazioni europee.
Il Miracolo di Berna – nome con il quale viene ricordata l’impresa dei tedeschi vittoriosi sulla Squadra d’Oro ungherese nella capitale elvetica – segnò di fatto un prima e un dopo nella storia del calcio tedesco. Alcune caratteristiche e peculiarità sarebbero resistite nel corso del tempo: uno zoccolo duro composto da calciatori provenienti da una sola squadra, l’enfasi sul collettivo piuttosto che sul singolo, la capacità di rimontare situazioni di svantaggio, il più delle volte nel corso della finale, l’ottenimento del successo iridato in fasi storiche delicate per il Paese o in circostanze sfavorevoli ai tedeschi da un punto di vista sportivo.
Einfach spielen ist schwer – Giocare semplice è difficile
Questa frase storicamente attribuita a Johan Cruyff era uno dei mantra anche di Herberger
Prima del 1954, però, la Germania era di fatto una comprimaria. Aveva iniziato a rivaleggiare contro le migliori selezioni europee e mondiali nel 1934, anno della Coppa del Mondo disputata in Italia, ottenendo, stando alle previsioni della vigilia, un dignitosissimo terzo posto. Si era dovuta arrendere alla Cecoslovacchia di Nejedly, capocannoniere della competizione ed in quell’occasione autore di una tripletta, ma aveva avuto la meglio dei dirimpettai austriaci nella finale di consolazione disputata a Napoli qualche giorno dopo. La nazionale biancorossa, frustrata dalla bruciante e contestata eliminazione subita contro l’Italia di Vittorio Pozzo, era parsa spossata e priva di energie. Era rimasta orfana del suo fuoriclasse di punta, Matthias Sindelar, infortunatosi al ginocchio in semifinale. Per la Germania si trattava comunque di una rivalsa: battere l’Austria significava avere la meglio di una nazionale che l’aveva più volte umiliata infliggendole in alcune occasioni delle sonanti goleade.
Quel risultato valse al tecnico Otto Nerz, un allenatore conosciuto per la sua tendenza ad imporre una disciplina quasi militare non apprezzata da buona parte dei propri calciatori, la riconferma per la Olimpiadi del 1936. Da un punto di vista meramente sportivo, la manifestazione non era in nessun modo comparabile alla Coppa del Mondo: le federazioni potevano iscrivere al torneo solamente calciatori dilettanti. Non ci sarebbero stati i Meazza, i Sindelar, i Sárosi né i principali campioni del panorama britannico.
Tuttavia i tedeschi presero il torneo estremamente sul serio per due ragioni fondamentali: in primis perché la Germania giocava in casa e quindi quale migliore occasione di mostrare la grandeur tedesca, nel calcio come in qualsiasi altra disciplina? Ed in secundis per il fatto che in quella cornice ed in seguito all’exploit del 1934, a Nerz e ai suoi veniva richiesto un salto di qualità.
I sogni di gloria dei tedeschi tuttavia si infransero ai quarti contro un ostacolo inaspettato, ovvero la Norvegia del tecnico Asbjorn Halvorsen, ex calciatore con un passato proprio in Germania. Quel giorno, Il 7 agosto del 1936, Hitler aveva presenziato al Poststadion di Berlino. Lui che non aveva mai assistito ad una partita di calcio e non lo amava era stato convinto dal Gauleiter – una sorta di funzionario distrettuale del Reich – di Danzica, tale Albert Forster, del fatto che la Germania avrebbe vinto l’oro. Poi, al secondo gol della Norvegia, si era alzato e se n’era andato.
Per i tedeschi e per Nerz, non esente da colpe secondo la stampa tedesca in quanto la Germania aveva disputato una sola amichevole nei due mesi precedenti alla competizione, erano giunti i titoli di coda. Nerz, tuttavia, non fu esonerato: lasciò per scelta propria la guida della propria nazionale al suo più vicino assistente, Sepp Herberger.
Dopo una fase in cui Nerz aveva comunque continuato a collaborare fianco a fianco con Herberger, a partire dal 1937 il nuovo tecnico prese definitivamente le redini della squadra. Il primo grande successo della nazionale tedesca – sebbene si trattasse di un’amichevole – è legato al suo nome: un secco 9-0 inflitto alla Danimarca il quale valse all’undici vincitore il soprannome di Breslau-Elf, l’Unidici di Breslavia, città nella quale si era tenuto l’incontro.
Poco più di un anno da quella vittoria Herberger e i suoi avrebbero partecipato ai Mondiali di Francia. Nel mezzo, più precisamente il 12 marzo del 1938, era avvenuto l’Anschluss, ovvero l’annessione dell’Austria alla Germania. Le ripercussioni avevano toccato ovviamente anche il mondo del calcio. Nel corso di una riunione tenutasi a Szczecin, oggi città della Polonia, Felix Linnemann, presidente della Federazione Calcio Tedesca, impose ad Herberger l’obbligo di schierare un 11 misto in vista dei Mondiali tra calciatori austriaci e tedeschi. 0 5 austriaci e 6 tedeschi o vice versa. Questo per via del fatto che il calcio austriaco era ritenuto – e non senza ragione – superiore a quello tedesco. Un’altra questione sul banco di Herberger era il modulo che avrebbe dovuto adottare: il calcio austriaco era basato sul Metodo – una sorta di 2-3-5 – quello tedesco sul sistema – un 3-2-5 che rispetto al Metodo contemplava uno stopper. L’allenatore avrebbe alla fine puntato sul secondo, quello maggiormente in voga in Germania.
Il risultato tuttavia fu disastroso: i tedeschi uscirono di scena al replay degli ottavi contro la Svizzera e furono duramente criticati tanto dalla stampa locale quanto da quella francese. Il 9 giugno del 1938, giorno in cui si era disputato il replay, la Germania era scesa in campo con una formazione composta da giocatori di ben otto squadre diverse. Non c’era nessun amalgama. Non solo: i tentativi di Herberger di agire da collante tra i giocatori austriaci e tedeschi nei giorni precedenti all’inizio del torneo erano stati vani. Le sessioni di allenamento erano state caratterizzate da screzi continui e a fine competizione Hans Mock, calciatore austriaco che aveva indossato la fascia di capitano in occasione della prima sfida contro gli elvetici, aveva dichiarato: «Quando uno di noi avanzava palla al piede, sapeva che il compagno che correva al suo fianco non era quello con cui era solito giocare. Ci sentivamo come un corpo estraneo al fianco dei giocatori tedeschi». Linnemann ed Herberger, per contro, avevano puntato il dito contro lo scarso impegno degli austriaci.
Elf Freunde müsst ihr sein! – Dovete essere undici amici!
Un’altra frase che ben testimonia la preoccupazione di Herberger nel costruire un gruppo coeso
Il portiere tedesco intento a contrastare l’attaccante elvetico Abegglen. La partita terminerà 4-2. La Germania ai Mondiali del 1938 Herberger alla lavagna prima di un incontro nel 1938
Il problema di far coesistere tedeschi ed austriaci non si sarebbe più posto. L’anno successivo al Mondiale di Francia sarebbe scoppiata la Seconda guerra mondiale ed alla fine di essa la Germania si sarebbe ritrovata divisa in due tra Ovest ed Est. La Germania sarebbe tornata a calcare la passerella iridata nove anni dopo – il 22 settembre del 1950 la DFB era stata riammessa nella FIFA, ragion per cui la nazionale tedesca non aveva presenziato alla Coppa del Mondo del 1950 –, nel 1954, e questa volta Herberger avrebbe finalmente avuto carta bianca per plasmare la propria selezione.
Herberger e i suoi non partivano di certo con i favori dei pronostici i quali propendevano per l’Ungheria di Ferenc Puskás o, in alternativa, per Brasile ed Uruguay, le due finaliste dell’edizione precedente. Anche l’Austria riscuoteva maggiore considerazione.
Ma, come recita uno dei più noti marchi teutonici, Impossible is Nothing. Il motto di Adidas sembra sia stato creato su misura per la nazionale di Herberger e per le Germanie che verranno. Era stato proprio Adolf Dassler un anno prima a disegnare le scarpini che la sua nazionale avrebbe indossato in Svizzera nella speranza di legare il proprio nome ad un’impresa indimenticabile così com’era avvenuto nel 1936 a Berlino, quando Jesse Owens aveva vinto ben quattro ori olimpici.
L’avventura elvetica cominciò in maniera promettente per Herberger e i suoi: i tedeschi sconfissero la Turchia con un comodo 4-1, ma poi iniziarono i problemi, poiché i tedeschi si trovavano nello stesso gruppo dell’Ungheria. I magiari li sommersero di reti: vinsero 8-3 ma persero per infortunio Ferenc Puskás. Puskás aveva battibeccato per il tutto il primo tempo con il tedesco Liebrich, un numero dieci fasullo, poiché di fatto si trattava di un medianaccio. Poi, quando le due squadre erano andate al riposo, l’attaccante ungherese si era confidato con Posipal, difensore tedesco che parlava ungherese, dicendogli che nella seconda frazione si sarebbe vendicato di Liebrich. Ma tornati in campo Puskás subì un duro colpo all’anca sempre da parte di Liebrich e fu costretto ad abbandonare la gara perdendosi sia i quarti che le semifinali. La Germania avrebbe comunque agevolmente vinto lo spareggio con la Turchia e la sua avventura mondiale sarebbe proseguita.
Sarebbe poi approdata in finale, la prima della sua storia, dopo essersi sbarazzata della Yugoslavia e dell’Austria, infliggendo a quest’ultima un roboante quanto inaspettato 6-1. L’Austria non era più la superpotenza calcistica dell’anteguerra, ma annoverava calciatori rinomati quali Stojaspal, noto per il suo eccezionale mancino, il regista Ocwirk e la coppia difensiva Happel-Hanappi. Fatale agli austriaci era stata la giornata nera del portiere Walter Zeman, soprannominato La Pantera, colpevole in più di un’occasione.
In finale i tedeschi si ritrovarono faccia a faccia proprio con gli ungheresi. Gli uomini di Sebes aveva eliminato sia il Brasile che l’Uruguay ed ora, grazie anche al recupero di Puskás, erano i favoritissimi per la vittoria finale.
Herberger, conscio del valore dell’avversario e forse memore delle problematiche del 1938 optò per una scelta che con il passare degli anni sarebbe diventata una costante per la nazionale tedesca: schierò cinque effettivi del Kaiserslautern, in quegli anni tra le formazioni di punta del Paese, in un tentativo di far fronte alla maggior tecnica degli ungheresi grazie a meccanismi collaudati ed un gruppo di giocatori che si conosceva alla perfezione. Due di loro erano addirittura fratelli, Ottmar e Fritz Walter. Non solo: contrariamente a quanto avevano fatti gli inglesi l’anno precedente quando erano stati travolti di gol dai magiari, Herberger preparò una partita passiva di modo da limitare le qualità degli avversari. Aveva avuto modo di osservare da vicino Hidekguti e ne conosceva le caratteristiche uniche, ed allo stesso modo si era servito di qualsiasi stratagemma possibile per motivare i suoi. Celebre la sua frase “Gli ungheresi non conoscono la sconfitta, ed una cosa che non si conosce fa paura”.
Fu una partita incredibile (cliccare qui per cronaca e pagelle). Gli ungheresi misero subito a segno due reti e poi, complice in parte un loro rilassamento ed una serie di interventi miracolosi del portiere tedesco Turek, riaprirono il match prima di pareggiarlo e, addirittura, ribaltarlo. Nel finale l’arbitro annullò un gol a Puskás che ai più era parso regolare e la festa dei tedeschi poté iniziare.
La Grande Ungheria prima della finale di Berna La Germania prima del fischio d’inizio della finale Fritz Walter festeggia la vittoria iridata
In piena Guerra Fredda, la vittoria iridata si tingeva di connotati non soltanto sportivi ma anche sociali e politici. Era il trionfo di un progetto iniziato più di quindici anni prima e reso possibile dalla fiducia concessa ad un uomo, Herberger, che con quel successo aveva appena dettato la linea per diversi successi futuri.
Il secondo successo iridato sarebbe arrivato vent’anni dopo, una vita dopo in termini calcistici. La Guerra Fredda era sempre in atto, il mondo era sempre spaccato in due ma secondo qualcuno si iniziava ad intravedere qualche spiraglio di pace dal momento che la Guerra del Vietnam stava volgendo al termine. Herberger però aveva smesso di allenare da dieci anni ed il Kaiserslautern non era più la corazzata di una volta. Il suo posto lo aveva preso il Bayern Monaco di Franz Beckenbauer, campione di Germania per tre volte di fila. Il calcio, inoltre, era andato incontro ad innovazioni profondissime: dagli anni ’60 andava di moda la linea difensiva a quattro, da quando il Catenaccio aveva fatto la sua comparsa. Era la tattica difensiva del Bayern Monaco e quella con la quale la Germania avrebbe affrontato il Mondiale casalingo.
La Germania si presentò alla Coppa del Mondo con il Bayern campione d’Europa – primo successo tedesco della storia in Coppa Campioni – e con sette calciatori di proprietà del club bavarese tra i convocati. Se la Germania si affidava alla base del Bayern, l’Olanda, l’altra grande favorita di quell’edizione, pescava soprattutto dal serbatoio del Grande Ajax. Sarebbero state proprio Olanda e Germania a raggiungere la finale, i primi attraverso un calcio spettacolare ed innovativo – il Calcio Totale – che gli aveva permesso di passeggiare contro l’Argentina e superare agevolmente il Brasile, ed i secondi grazie ad una straordinaria concretezza ed una vittoria di misura contro l’ottima Polonia.
Una volta ancora sarebbero stati i tedeschi ad avere la meglio, un’altra volta in rimonta e dopo aver subito uno svantaggio nei primissimi minuti di gioco e disputando una partita in cui avevano sapientemente ragionato su mosse e contromosse del loro avversario. Avevano dimostrato la grande capacità, così com’era avvenuto del 1954, di sapersi adattare all’andamento della gara mutando il proprio atteggiamento a seconda delle fasi della partita.
Johan Cruyff e Franz Beckenbauer si stringono la mano prima della finale del 1974 I calciatori tedeschi alzano la Coppa dopo la vittoria contro l’Olanda
9 novembre del 1989. Cade il Muro di Berlino. Poco meno di un anno dopo, il 3 ottobre del 1990, la Germania sarebbe tornata una nazione sola. Nell’estate precedente, quindi, in un momento di repentina trasformazione durante la quale la dicotomia politica, sociale ed ideologica tra Ovest ed Est si andava disgregando ed a Berlino Est e dintorni la gente iniziava a familiarizzare con concetti già noti ai paesi che anni prima avevano sposato il Piano Marshall quali globalizzazione e consumismo, la Germania dell’Ovest avrebbe partecipato alla Coppa del Mondo organizzata in Italia.
Questa volta, però, il Bayern Monaco era decisamente meno rappresentato. La squadra che forniva più giocatori a Beckenbauer, ora nei panni di CT, era una squadra estera: l’Inter. La globalizzazione negli anni aveva toccato anche il calcio, e la meta prediletta dai principali campioni europei e sudamericani era diventata l’Italia. Giocavano in Italia Matthäus, Klinsmann e Brehme così come giocavano nello Stivale Maradona, che si presentava al Mondiale da campione in carica, ed i tre olandesi del Milan Van Basten, Gullit e Rijkaard.
Erano proprio l’Olanda, l’Argentina e la Germania, oltre ovviamente all’Italia, le favorite per la vittoria finale. La Germania passò la fase a gruppi senza troppi problemi ma già agli ottavi si trovò a fronteggiare l’Olanda. Così come era avvenuto nel 1974 il calcio pragmatico dei tedeschi si sarebbe scontrato con quello totale e spettacolare degli olandesi neo campioni d’Europa.
Il trio tedesco dell’Inter Il trio olandese del Milan Diego Armando Maradona
In ogni caso i tedeschi ebbero nuovamente la meglio al termine di una sfida estremamente intensa e dai connotati agonistici decisamente pronunciati. Beckenbauer e i suoi erano anche rimasti in dieci per l’espulsione di Voeller, ma si erano comunque guadagnati il passaggio ai quarti dove avrebbero trovato e sconfitto la Cecoslovacchia grazie ad un 1-0 di misura. In semifinale Beckenbauer e i suoi trovarono l’Inghilterra, una nazionale che all’ex fuoriclasse tedesco era risultata indigesta nel lontano 1966 quando in finale gli inglesi avevano avuto la meglio sui tedeschi ai tempi supplementari. Beckenbauer si prese la sua rivincita ed eliminò gli inglesi ai rigori, accedendo così alla finale. Qui avrebbe trovato l’Argentina di Maradona uscita vincitrice dal confronto contro l’Italia. Geograficamente e calcisticamente Germania e Argentina rappresentano due poli opposti, se la Germania sta per solidità e concretezza, l’Argentina sta per estro ed imprevedibilità, la Germania è la forza e la grinta Lothar Matthäus e l’Argentina il genio e l’esuberanza di Diego Armando Maradona. Si erano già affrontate quattro anni prima ed a spuntarla erano stati gli argentini, sebbene i tedeschi fossero una volta ancora riusciti, almeno provvisoriamente, a rimettere in sesto un passivo di 0-2.
Questa volta invece la vittoria dei tedeschi, sebbene di misura, fu ineccepibile: l’Argentina produsse molto poco con un Maradona che si dimostrò ben lontano dagli straordinari standard raggiunti quattro anni prima. Sarebbe stata la terza – ed ultima partecipazione ad un torneo della Germania dell’Est.
Maradona viene ammonito dall’arbitro Codesal durante Germania-Argentina Matthaus e Gullit duellano a centrocampo La Germania dell’Ovest festeggia la sua terza Coppa del Mondo
Il quarto sussulto tedesco arriva nel 2014, dopo una finale persa nel 2002 contro il Brasile. È il primo ed ad oggi unico trionfo iridato della Germania unita, un successo simile per alcuni aspetti a quello ottenuto ventiquattro anni prima: il rivale è sempre l’Argentina – Germania-Argentina non a caso è la finale più ricorrente nella storia della Coppa del Mondo – la cui stella, Lionel Messi, non si accende. I tedeschi vincono per 1-0 una sfida non entusiasmante, ma ottengono la quarta vittoria mondiale mettendo in mostra un ottimo gioco d’insieme e un grandissimo portiere, Manuel Neuer. Ad oggi solo il Brasile conta più successi di Italia e Germania. E sebbene il trionfo del 2014 non presenti le sfumature politiche e sociali di quelli precedenti, la Germania sembra aver mantenuto le sue prerogative: è una nazionale estremamente quadrata, magari non talentuosa come le migliori nazionali sudamericane ma è molto squadra, e per la terza volta fa sua la Coppa del Mondo affidandosi ad un gruppo altamente collaudato. Il giorno della finale di Rio erano difatti sei i giocatori del Bayern che sarebbero scesi in campo, sette se si considera il subentrante Goetze, autore della rete decisiva. Si trattava di un processo iniziato sei decenni prima il cui artefice aveva un nome ed un cognome ben definito: Sepp Herberger.
Il gol decisivo di Gotze contro l’Argentina Lahm e compagni festeggiano la vittoria mondiale, la prima della Germania unita Toni Kroos, unico calciatore presente in campo quel giorno ad essere nato nella Germania dell’Est