La premessa è d’obbligo: Cristiano Ronaldo e Messi sono fuoriclasse assoluti, due dei più grandi calciatori di ogni tempo e Paese. Hanno dominato gli ultimi 15 anni di calcio dall’alto di doti straordinarie e una carriera clamorosamente vincente. Diversi – soprattutto tra le nuove generazioni, ma a volte non solo – li esaltano come campioni unici, addirittura per qualcuno come mai se ne sono visti nella storia. In realtà a essere unica è l’epoca in cui si trovano a giocare, un’epoca che mai prima d’ora probabilmente aveva così facilitato i grandi calciatori offensivi delle grandi squadre.
In questo articolo il mio obiettivo non è sminuire il valore assoluto di questi due meravigliosi calciatori, ma frenare i “facili entusiasmi” di quelli che li ritengono il massimo mai veduto in termini di numeri, impatto storico e longevità, cercando di fare un’analisi più equilibrata e non soggetta al modernismo spinto di certa critica.
La legge Bosman e i suoi effetti
LA SENTENZA BOSMAN |
Jean Marc Bosman è un giocatore del club belga dell’RFC Liegi. Nonostante il contratto scaduto, la società gli nega la possibilità di trasferirsi ai francesi del Dunkerque poiché ritiene insufficiente l’indennizzo proposto dal club francese. Posto fuori rosa, Bosman si rivolge alla Corte Europea che dichiara restrittivo il sistema dell’epoca. Il 15 dicembre 1995 viene approvata una nuova norma, in base alla quale i calciatori dell’Unione europea possono trasferirsi gratuitamente, alla scadenza del contratto, a un altro club purché facente parte di uno Stato dell’UE. E se il contratto corrente ha una durata residua non superiore al semestre, il calciatore può firmare un precontratto gratuito con la nuova società. La sentenza impedisce inoltre alle leghe continentali di porre un tetto al numero di stranieri, aprendo di fatto la strada al calcio per come lo conosciamo oggi. Di pari passi con la globalizzazione e il boom del capitalismo finanziario porta poi i club economicamente più forti a dominare in modo massiccio sugli altri. |
A cambiare drasticamente il calcio (secondo il mio personale parere, in peggio) è stata la legge Bosman del 1995. Da allora non ci sono stati più limiti alla possibilità di acquistare calciatori stranieri. Questo, oltre a impoverire sempre più i settori giovanili, è andato di pari passo con la crisi del capitalismo novecentesco basato sulla classe media e sui beni materiali e l’avvento di un capitalismo finanziario che ha via via aumentato il gap tra ricchi e poveri. Senza entrare nello specifico dei discorsi economici, le conseguenze nel calcio sono state diverse.
Pochi ricchi sempre più ricchi. Molti poveri sempre più poveri
Le società più forti economicamente sono diventate via via sempre più ricche e hanno avuto la possibilità di acquistare giocatori di qualsiasi nazionalità, mettendo così insieme autentiche corazzate. Le altre (la stragrande maggioranza dei club europei) sono aumentate di numero, assottigliando il “ceto medio”, e devono oramai accontentarsi delle briciole.
L’equilibrio che regnava prima della Bosman, quando ogni formazione schierava 8 o 9 undicesimi di giocatori della propria nazione e pescava appena due o tre stranieri, è terminato. Oggi chi ha più soldi, salvo rare eccezioni perché il pallone è pur sempre rotondo, vince.
Tra le conseguenze di questo crescente disequilibrio si registra la tendenza in alcuni campionati teoricamente di punta, quello italiano, quello tedesco, quello francese, ad esempio, ad assistere oramai a passerelle trionfali delle più forti: Juventus, Bayern Monaco e PSG dominano ininterrottamente la scena da quasi un decennio come mai era successo prima e hanno trasformato la serie A italiana, la Bundesliga tedesca e la Ligue 1 francese, un tempo ricche di equilibrio e competitività, in un “one team show” che assomiglia a quello di leghe giudicate minori come quella scozzese, olandese o portoghese.
Ma le conseguenze sono visibili anche in Europa. Basti un dato: il famoso Triplete (vittoria nella stessa stagione di campionato nazionale, coppa nazionale e Coppa dei Campioni/Champions League) è stato portato a compimento appena 3 volte nei primi 42 anni di storia della Coppa Campioni/Champions League e sempre in tornei non così competitivi come quello scozzese (Celtic Glasgow ’67) e olandese (Ajax Amsterdam ’72 e Psv Eindhoven ’88) e 6 volte negli ultimi 21 anni – ossia nel post-Bosman (Manchester United ’99, Barcellona 2009, Inter 2010, Bayern Monaco 2013, Barcellona 2015 e Bayern Monaco 2020). E di questi, 5 sono arrivati negli ultimi 11, alla media pazzesca di quasi uno ogni due anni.
A proposito di Champions League per altro, occorre sottolineare come oramai la cosiddetta “Coppa dalle grandi orecchie” abbia fagocitato tutto il resto in termini economici, tecnici e di prestigio. Le prime quattro squadre dei campionati nazionali più importanti accedono alla Champions che in realtà non è l’erede della Coppa dei Campioni, ma una somma delle vecchie Coppa dei Campioni e Coppa UEFA.
E sembra preparare la strada nei prossimi decenni per l’avvento della Superlega, una competizione d’élite che verrebbe giocata unicamente da quei top team europei di cui parlavo prima. Top team in termini di fatturato economico. Top team in termini di potenza politica. Top team in termini di globalità di risorse tecniche. Insomma: il calcio sta marciando verso la Superlega, in barba al principio basilare dello sport, ovvero che chiunque – anche partendo con meno soldi e meno possibilità – possa teoricamente farcela.
Il Sudamerica da terra promessa a terra di conquista
Un’altra preoccupante conseguenza della Bosman è stata la perdita di valore dei campionati sudamericani. Oggi i migliori talenti del Sudamerica vengono ingaggiati quando ancora sono giovanissimi dalle ricche formazioni europee non appena indovinano qualche ottima partita. Le squadre sudamericane si trovano così depauperate di tutti i giocatori più bravi.
Prima della legge Bosman invece, come scritto in precedenza, i club europei potevano permettersi un numero limitato di stranieri, i quali per altro provenivano spesso da altri campionati europei. I migliori calciatori sudamericani restavano così a giocare nel proprio continente per tutta la carriera o quasi. Come se la maggioranza tra Cavani e Suárez, Dybala e Lautaro Martinez, Agüero e Di Maria, Gabriel Jesus e Neymar, Thiago Silva e Marquinhos, Vidal e Sanchez (e via discorrendo) militasse in Sudamerica.
Se così fosse ancora oggi, i rapporti di forza tra le formazioni sudamericane ed europee sarebbero profondamente diversi e renderebbero molto più affascinanti ed equilibrate le sfide intercontinentali. A questo proposito, prima della legge Bosman la finale Intercontinentale vedeva 20 successi sudamericani e 14 europei. Dopo la Bosman il Sudamerica è crollato a 5 vittorie contro le 19 dell’Europa.
Perché Messi e Cristiano Ronaldo brillano molto più nei club?
Tutto questo insieme di fattori porta inevitabilmente i calciatori più bravi a concentrarsi in pochi team di alto livello. E così oltre al minor equilibrio, questi calciatori hanno più facilità a segnare e fare la differenza rispetto a un tempo. Nell’80-90 per cento dei casi affrontano avversari che sono stati indeboliti dagli effetti della Bosman. Messi e Cristiano Ronaldo, che sono i due calciatori più forti di quest’epoca, hanno naturalmente cavalcato anche loro e più di tutti l’onda lunga di queste agevolazioni per stabilire record su record.
Questo senza dimenticare un paio di altre considerazioni: la Champions oggi la giocano le prime quattro dei campionati nazionali più prestigiosi mentre un tempo era prerogativa solo dei campioni nazionali. Cristiano Ronaldo quante delle Champions che ha vinto avrebbe giocato con la vecchia regola?
I grandi giocatori oggi giocano tutti negli stessi club
Ma al di là di questo aspetto che può sembrare un po’ pretestuoso, guardiamone a un altro: un tempo i grandi fuoriclasse non sempre e non necessariamente giocavano in top team, rendendo così le partite e le competizioni decisamente più equilibrate. Platini fino a 27 anni era nel Saint Etienne. Eusébio è rimasto tutta la carriera in Portogallo. Puskás ha giocato in Ungheria arrivando al Real Madrid a 31 anni.
E non contiamo Bobby Moore, il più forte difensore al mondo negli anni ’60, che ha giocato quasi tutta la carriera nel West Ham; Gigi Riva, miglior attaccante italiano, che rimase nel Cagliari; Kempes e Zico, campionissimi del Sudamerica che vennero in Europa scegliendo il Valencia e l’Udinese. Di esempi se ne possono portare a tonnellate.
Oggi è impossibile che un grande fuoriclasse resti confinato in squadre di medio livello a lungo. Prendiamo Cristiano Ronaldo. A 18 anni è stato acquistato da un top team come il Manchester United. Quando gli inglesi hanno iniziato a declinare, è finito in un altro top team come il Real Madrid, che gli ha costruito intorno una corazzata magnifica comprando alcuni dei migliori calciatori di altre nazioni.
Prima della Bosman, Cristiano Ronaldo sarebbe rimasto verosimilmente in Portogallo fino a 25-26-27 anni. E se si fosse trasferito all’estero, la sua carriera sarebbe probabilmente proseguita in un solo club. E se questo club avesse cominciato a vincere meno, avrebbe incontrato molto più difficoltà a contattare il procuratore e chiedere un trasferimento record in un altro club più vincente. Capite perché quando si valuta un calciatore è sempre bene dare grande importanza al valore del giocatore indipendentemente da quanto vince?
In nazionale i criteri sono uguali a quelli di un tempo. E dunque…
Una cartina di tornasole a mio avviso molto importante è data dalla nazionale: quando Messi e Cristiano Ronaldo giocano con Argentina e Portogallo, in un contesto che rispecchia ancora i canoni di un tempo, attorniati da calciatori del proprio Paese, senza vicino stranieri di varie nazioni acquistati a peso d’oro da altri club, le loro medie-gol subiscono una brusca frenata e la qualità delle loro prestazioni si abbassa.
Volete una riprova numerica? Messi nel Barcellona alla fine della stagione 2019-2020 è a quota 444 gol in 485 partite (media di 0,9); Cristiano Ronaldo a livello di club è a 447 in 552 (0,8) – anche se tra Real e Juventus, quando è diventato più attaccante viaggia a 363 gol in 356 gare (1,01). La loro media-gol in nazionale è buona, ma distante da questi standard: 70 reti in 138 gare per Messi (0,5); 101 in 165 per CR7 (0,6).
Eppure non è tanto la media-gol globale a scemare. Molte di queste partite vengono giocate da Argentina e Portogallo nelle qualificazioni ai Mondiali (o agli Europei, nel caso di Cristiano Ronaldo; la Coppa América non prevede invece turni di qualificazione) e dunque contro avversari inferiori.
Se entriamo nel dettaglio che conta, ovvero Mondiali, Europei e Coppa América, si scoprirà che la media-gol dei due fenomeni del calcio contemporaneo è ancora più bassa.
Tra Mondiali e Coppa América Messi ha segnato 15 gol in 43 partite (media di 0,3).
Tra Mondiali ed Europei Cristiano Ronaldo ha segnato 16 gol in 38 partite (media di 0,4).
Mai impattanti e mai decisivi in 4 edizioni a testa dei Mondiali
Messi ai Mondiali è a 6 gol in 16 partite e zero reti segnate nelle gare a eliminazione diretta. Ha giocato a oggi 9 competizioni in nazionale con zero vittorie, ma quel che più è peggio è che il Messi versione Barcellona con la nazionale argentina nei grandi appuntamenti non si è mai visto (se si esclude Argentina-Svizzera del Mondiale 2014 e la Coppa América 2016, finale esclusa). Nessun altro fenomeno epocale ha mai avuto a disposizione così tante competizioni in nazionale non ottenendo mai un successo o facendo registrare un insieme di prestazioni così deludenti.
Che negli ultimi anni l’Argentina non abbia avuto rose molto competitive (fortissime in attacco, meno negli altri reparti) è vero. Ma in passato non è sempre stato così: alla fine degli anni 2000 l’Argentina era una delle formazioni migliori del globo. Nei 15 anni in cui Messi ha giocato in nazionale si sono alternati diversi progetti tattici, sono cambiati allenatori e compagni di squadra. L’unico aspetto rimasto costante è stata la sua incapacità di brillare come nel Barcellona. Sicuramente le difficoltà di Leo sono acuite da un carisma tutt’altro eccezionale, da sempre il suo limite. Ma secondo me non è l’unico fattore, come ho scritto sopra, per spiegare le sue lacune con la camiseta albiceleste.
Va poco meglio a Cristiano Ronaldo: 7 reti in 17 partite ai Mondiali e anche lui miseramente a zero gol nelle gare a eliminazione diretta. Ha vinto l’Europeo 2016, ma è stato un successo più di squadra che una conseguenze delle sue prestazioni. Giocò alla grande due partite (con Ungheria e Galles) risultando insufficiente nelle altre e saltando la finale per infortunio dopo una manciata di minuti. Individualmente, ad esempio, ha brillato più a Euro 2012 che a Euro 2016.
Nessuno degli altri grandi fuoriclasse epocali ha mai avuto a disposizione quattro edizioni dei campionati del mondo senza mai riuscire a lasciare un segno concreto della propria classe. Messi e Cristiano Ronaldo invece appaiono famelici e immensi con i club, poco o molto meno dominanti quando vestono la maglia di Argentina e Portogallo.
Nessuno ha i loro numeri? Falso. La storia dice altro
A coloro che in ogni caso vi faranno rilevare che, capitolo nazionale a parte, le cifre di Messi e Cristiano Ronaldo nei club non si sono mai viste, che nessuno ha mai vinto quanto loro o è stato longevo come loro, non credeteci.
Alfredo Di Stéfano, argentino classe 1926, vanta 17 anni ad alto livello internazionale. Ha iniziato in Argentina (negli anni ’40 il miglior campionato al mondo), si è trasferito in Colombia (Paese che arruolava a suon di dollari i migliori calciatori del continente), è venuto in Spagna e ha “creato” in prima persona la leggenda del Real Madrid.
Il palmares recita:
– 13 campionati nazionali vinti in tre Paesi
– 7 volte capocannoniere in tre Paesi
– 5 successi in Coppa Campioni (e in ogni finale vinta un gol. A parte nel 1960 quando ne mise dentro addirittura tre)
– 2 volte capocannoniere della Coppa Campioni
– 1 vittoria in Coppa América con annesso titolo di capocannoniere e miglior giocatore
Purtroppo non è mai riuscito a disputare una fase finale di Coppa del mondo, un po’ per sfortuna e in un caso anche per demerito, visto che la sua Spagna nel ’58 fallì la qualificazione contro la più debole Scozia. Ma di occasioni ne ha avuta appunto una, non quattro come i due campionissimi odierni…
Carisma assoluto, trascinatore autentico, uomo squadra inarrivabile, forse concedeva qualcosa al genio e allo spettacolo, ma era il simbolo assoluto della concretezza. E soprattutto sapeva fare tutto: difensore, mediano, incursore, goleador. A una velocità spesso supersonica: da qui il suo soprannome più evocativo Saeta Rubia (freccia bionda).
Ferenc Puskás, ungherese classe 1927, è stato al top addirittura 21 anni. È stato il miglior calciatore al mondo nei primi anni ’50 e quando si è trasferito al Real Madrid dopo un periodo di inattività aveva 31 anni e ha continuato a dare spettacolo e segnare tantissimo fino a 39. In Ungheria era la classica seconda punta di genio, non sempre continua ma immarcabile quando si accendeva; al Real si è tramutato in stupefacente cannoniere, statico ma micidiale, pur provvisto di un’evidente pancetta.
Anche il suo palmares fa venire i brividi:
– 10 campionati nazionali vinti in due Paesi
– 8 volte capocannoniere in due Paesi
– 3 successi in Coppa Campioni, con 7 gol in 2 finali. E nell’ultima Champions, vinta nella stagione 1965-66 a 39 anni, fu ancora capace di segnare 5 gol totali, miglior marcatore del Real
– 3 volte capocannoniere della Coppa Campioni
– 1 vittoria in Coppa Internazionale con l’Ungheria, competizione antesignana dei moderni Campionati Europei
– 1 oro olimpico in nazionale, quando ancora le Olimpiadi avevano una certa valenza anche nel calcio, con gol in finale
– unico calciatore europeo della storia con Gerd Müller, Zinedine Zidane e Mario Mandzukic, a segnare sia nella finale di Coppa del mondo sia nella finale di Coppa dei Campioni/Champions League
Disputò solo un Mondiale, nel 1954, segnò 3 gol nelle prime 2 partite, fu azzoppato dal difensore tedesco Liebrich e tornò per la finalissima ancora contro la Germania Ovest. Il tecnico Gusztav Sebes voleva tenerlo fuori. Ma Puskás non intendeva mancare. Seppur con una caviglia gonfia come un melone, scese in campo, segnò un gol, gliene annullarono uno probabilmente regolare, diede vita ad accelerazioni e numeri di alta scuola per tutta la partita, fermato solo dalla vena del portiere tedesco Toni Turek, vero artefice del miracoloso successo tedesco.
La media-gol di altri fenomeni epocali (Di Stéfano, Puskás) resta superiore
A proposito di medie-gol. Di Stéfano nei club ha totalizzato, pur non essendo neppure un vero e proprio attaccante ma un uomo a tutto campo, 376 gol in 521 partite (media 0,7), non così distante da Messi e Cristiano Ronaldo. Ma nei momenti davvero importanti – vedi Coppa Campioni/Champions League – la sua media risulta superiore: Di Stéfano conta 49 reti in 58 partite (media 0,84) contro lo 0,81 di Messi (115 gol in 143 partite) e lo 0,75 di Cristiano Ronaldo (131 gol in 174 partite). In nazionale Di Stéfano ha giocato per Argentina e Spagna con una media di 0,78 (29 gol in 37 apparizioni), migliore di quella dei due fuoriclasse contemporanei, senza contare che vinse la Coppa América del 1947 da assoluto protagonista con 6 reti in 6 presenze.
E Puskás? Anche la sua media-gol nei club è migliore di quella di Messi e Cristiano: 0,97, frutto di 508 reti in 521 partite, quasi una a gara. In Champions, competizione che il fuoriclasse magiaro – ribadisco – ha giocato solo dopo i 31 anni si parla anche lì di un sensazionale 0,90 – 37 reti in 41 presenze, e come ho evidenziato qualche riga sopra con tre titoli di capocannoniere.
A chi vi farà notare che Cristiano Ronaldo ha segnato in nazionale 101 gol aggiungendo o cercando di far passare il messaggio che nessuno si sia mai spinto così in alto nella storia, rispondete pure che il portoghese lo ha fatto in 165 incontri. E che Puskás in nazionale ha segnato 84 reti in 85 incontri. Quale dato è più sconvolgente?
Senza dimenticare che se parliamo di media-gol ci sono stati altri fuoriclasse straordinari superiori a Messi e Cristiano Ronaldo. Un nome su tutti: Gerd Müller. Per quanto non sia affatto vero che il tedesco fosse solo un uomo d’area tecnicamente limitato (vedasi certi scambi in velocità con Uli Hoeness, e la capacità di saper giocare molto bene senza palla) è però indubbio che Müller non possedesse la globalità di risorse di Cristiano Ronaldo e il genio di Messi. Tuttavia come doti realizzative rimane un mostro difficilmente avvicinabile: 404 gol in 459 partite nel Bayern (media 0,88); 68 gol in 62 partite con la Germania (1,09); 34 reti in 35 partite in Coppa dei Campioni (0,97).
Un’epoca con pochissimi grandi difensori
Insomma: se parliamo di cifre, vittorie e longevità, Messi e Cristiano Ronaldo sono due dei giocatori migliori della storia, NON i migliori. E ho tralasciato Pelé, volutamente. Quello che balza all’occhio in realtà è che nel calcio di oggi, un po’ come capitava negli anni ’40, ’50 e ’60, i calciatori offensivi hanno carriere tendenzialmente più lunghe e numeri superiori rispetto ad altre epoche (anni ’70, ’80 e ’90).
Si potrebbe tentare di capire perché e questo sarebbe un argomento di discussione interessante. Il calcio prima della rivoluzione olandese dei primi anni ’70 era un inno al talento individuale, continui uno contro uno, dribbling. Dagli olandesi in avanti il gioco si è fatto più chiuso, tattico e difensivo. Questo fino alle regole che nei primi anni ’90 hanno cercato di riportare nuovamente al centro della scena gli attaccanti a scapito dei difensori.
La differenza è che negli anni ’60 c’erano comunque difensori molto forti in marcatura diretta: prendiamo Moore, Schnellinger, Popluhar, Burgnich, Figueroa, Zozimo, Orlando, Mauro Ramos… Oggi a mio parere molto meno. E il il calo della qualità dei difensori dell’ultimo decennio ritengo sia un altro fattore che ha agevolato non poco la messe di gol di Messi e CR7.
Per esempio, io credo che complessivamente Messi e Cristiano Ronaldo abbiano qualcosa in più di Ronaldinho, Zidane e Ronaldo il Fenomeno. Ma – a parte che i secondi hanno inciso di più in nazionale rispetto ai primi – è indubbio che Ronaldinho, Zidane e Ronaldo abbiano dovuto affrontare difensori di tutt’altro livello: gente come Nesta, Cannavaro, Thuram, Cafu, Maldini, Stam, Samuel, Puyol oggi in giro non c’è. Forse la sola eccezione è rappresentata dall’olandese van Dijk e in prospettiva dallo juventino De Ligt.
Questo senza dimenticare che ai tempi di Ronaldinho, Zidane e Ronaldo il Fenomeno la concorrenza nei ruoli offensivi per la palma di numero uno al mondo era superiore a oggi: i vari Neymar, Suárez, Lewandowski, Griezmann, Dybala secondo me sono un gradino o mezzo gradino sotto a gente come Figo, Raúl, Shevchenko, Henry, Eto’o, Drogba, Nedved, Giggs.
La velocità? Un falso mito
Confrontare atleti di epoche diverse è sempre un esercizio di stile ed è un’operazione tutt’altro che semplice: sono tanti, troppi, i criteri da analizzare. E sicuramente i calciatori di oggi, che hanno visto propagarsi su larga scala gli effetti della Bosman, sono ancora meno confrontabili con quelli di un tempo. Tra un calciatore degli anni ’60 e uno degli anni ’90 ci sono meno differenze a livello di contesto di quanto non ce ne siano tra un calciatore degli anni ’90 e uno di oggi.
È anche vero il discorso che i calciatori di oggi sono molto più sotto la lente d’ingrandimento rispetto ai loro colleghi del passato, vengono vivisezionati in ogni aspetto e quindi i difetti emergono di più. Ma è anche vero l’altro lato della medaglia: certi fenomeni di un tempo vengono apprezzati ed esaltati nonostante alcune loro straordinarie partite vengano solo tramandate dai racconti. Vedi i soliti Di Stéfano, Puskás e Pelé. Chissà quali altre meraviglie racconteremmo di loro se fossero visionabili in tutte le loro più straordinarie partite…
Esiste poi il falso mito dei ritmi più veloci, come se una volta camminassero. A parte che capita di imbattersi anche in partite di un tempo più veloci di oggi, ma poi nel calcio contemporaneo gli allenatori tentano spesso di emulare il tiki-taka guardioliano pur non avendo le medesime qualità di palleggio e la medesima qualità degli interpreti. I risultati sono un fitto e sterile possesso palla a ritmi bassi e molte volte infruttuoso. Un tempo invece si assistevano a maggiori ribaltamenti di fronte, un’azione te, un’azione io e via di questo passo.
Il calcio poi, a proposito di cambiamenti della velocità, non presenta mai cesure nette. Stanley Matthews ha iniziato a giocare negli anni ’30 con Orsi e Meazza e ha finito nei ’60 con Charlton ed Eusebio e quando già si stavano affacciando Beckenbauer e Cruijff. Ma è rimasto sempre Stanley Matthews. Non ha dovuto subire fantomatiche accelerate al proprio corpo per passare dai tempi di Meazza a quelli di Cruijff. Sul campo i giocatori si adattano al passare degli anni in modo assolutamente fluido e naturale.
I passaggi generazionali uniscono il calcio
Di Rivera si scriveva spesso, per esempio, che fosse un abatino, un giocatore poco dinamico che faticherebbe a reggere i ritmi di oggi. Non che Pirlo fosse diverso. Pirlo faceva la differenza con i piedi e una visione di gioco superiore, mica con la corsa. Esattamente come Rivera. Dunque perché se si è adattato splendidamente Pirlo, Rivera avrebbe dovuto incontrare difficoltà a giocare nel calcio contemporaneo?
Che poi Rivera – e mi riallaccio al discorso di sopra su Matthews – sul campo ha affrontato Scirea, a volte lo dribblava, a volte veniva fermato. Scirea è lo stesso che in uno Juventus-Milan 1985/86 superò in pallonetto un giovanissimo Maldini. Maldini è lo stesso che in quella partita ha sofferto le accelerazioni di Platini, ma nel 2007 – più di 20 anni dopo – ha controllato con minori patemi il 22enne Cristiano Ronaldo in Manchester United-Milan di Champions League.
Con 3-4 passaggi generazionali, che non sono nulla, si possono unire quasi cento anni di calcio. La velocità è un parametro relativo, può essere allenata e i calciatori di ieri sarebbero ancora più performanti se potessero allenarsi con i mezzi tecnologici di quelli di oggi, se potessero curarsi con le terapie di oggi, se potessero giocare sui perfetti terreni di gioco di oggi, se potessero calciare gli evolutissimi palloni moderni.
Il talento, la capacità di giocare a pallone, invece non possono essere allenati: o li hai o non li hai. E un campione sarebbe un campione sempre, indipendentemente dall’epoca e dal contesto.