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Dall’inferno russo al tetto del mondo: gli eroi della Germania 1954

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Immagine di copertina: Fritz Walter con la Coppa del mondo. Al suo fianco, Toni Turek in maglia nera e i loro compagni [https://storiedicalcio.altervista.org]

L’avevano chiamata, molto pomposamente, Operazione Barbarossa. L’idea era di riannodare il filo con le imprese di Federico I di Svevia detto Barbarossa, il più grande degli Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero del XII secolo.

Ma di indimenticabile l’Operazione Barbarossa, ossia l’invasione della Russia stalinista da parte della Germania nazista cominciata il 22 giugno 1941, ebbe ben poco. Nelle intenzioni dei gerarchi del Reich doveva essere l’ennesimo capitolo della Blitzkrieg, la cosiddetta guerra lampo, l’impiego contemporaneo di artigliera, divisioni corazzate e aviazione – sostenute da una efficace rete di radiocomunicazione – che aveva consentito in pochissimo tempo alla Germania di inghiottire buona parte dell’Europa continentale, dalla Polonia ai Paesi Bassi, fino alla Francia.

Poche settimane, al più qualche mese, e i nazisti pensavano di mettere definitivamente le mani anche sullo sterminato territorio russo.
«Sarete a casa prima che le foglie cadano dagli alberi» aveva detto 27 anni prima, nell’agosto 1914, il Kaiser Guglielmo II ai soldati tedeschi in partenza per il fronte nella Grande Guerra, convinto che in una manciata di mesi la Germania avrebbe sconfitto i suoi nemici. Sbagliò totalmente i calcoli. Quattro anni dopo la Germania uscì con le ossa rotte dal primo conflitto mondiale e dalla crisi che ne seguì si originò la crisi economica e politica che portò all’avvento del nazionalsocialismo.

Corsi e ricorsi storici. Ancora una volta i tedeschi, convinti di poter conquistare un agevole successo in Unione Sovietica, fecero malissimo i loro conti. Soprattutto non calcolarono le difficoltà dell’inverno russo e nemmeno l’eroica resistenza non solo dei soldati, ma anche della popolazione.

Così, dopo una serie iniziale di rapidi successi, pian piano la spinta della Wehrmacht e delle divisioni corazzate si esaurì. A dicembre 1941 i russi passarono al contrattacco. E pochi mesi dopo, a Stalingrado, si tenne la battaglia chiave: sette mesi di combattimenti durissimi, casa per casa, corpo a corpo, che terminarono con la vittoria sovietica e l’inizio della fine della Germania, già stoppata da Winston Churchill in Inghilterra e destinata nel giro di una manciata di anni a soccombere sotto i colpi degli Alleati e del decisivo supporto americano.

Gli storici calcolano che dei 17 milioni di soldati tedeschi impegnati nella Seconda guerra mondiale sul fronte orientale oltre 10 milioni morirono.
È stato immediato, per certi versi persino logico, pensare a loro per decenni come ai cattivi contrapposti ai buoni.

Ma i giudizi in storia lasciano sempre il tempo che trovano, sono concetti labili. I soldati della Wehrmacht mandati a morire al fronte erano nella maggioranza dei casi ragazzi di 20-25 anni. Indottrinati dai folli propositi e dalle folli idee di politici che stavano comodamente seduti nelle loro case. E costretti a ubbidire agli ordini di generali al sicuro nelle loro postazioni. Venivano usati per scopi di cui forse a loro importava poco o nulla: annientare il prossimo, conquistare il mondo, sterminare popoli giudicati “inferiori”.

Non erano in fondo molto diversi dai soldati delle altre nazioni. Russi. Inglesi. Francesi. Italiani. Giapponesi. Americani. Giovani che a casa avevano una madre, un padre, fratelli, forse le prime fidanzate. Spinti a odiare e mandati a morire. Vengono in mente le lettere dei soldati italiani delusi, infuriati, spaventati, a volte persino inconsapevoli, della Prima guerra mondiale, raccolte da Lorenzo del Boca nello splendido libro Maledetta Guerra.

Anton Turek detto Toni e Friedrich Walter detto Fritz erano due di loro, due di questi milioni di soldati.
Il primo aveva poco più di 20 anni quando fu spedito nel vortice dell’Operazione Barbarossa.
Il secondo ne aveva 24 quando, catturato, venne salvato a un passo dalla deportazione in un gulag.

Due destini diversi ma incrociati, classici casi di sliding doors dal cui esito è dipeso il futuro della Germania (calcistica e non solo).

Panettiere di Duisburg, città dove era nato il 18 gennaio 1919, Turek aveva iniziato a giocare nell’Eintracht Duisburg e nell’Ulm. Un portiere buono, nulla di eccezionale. Anche se a Herberger, il Ct della nazionale, quel suo stile fuori dall’ordinario, coraggioso e temerario, non dispiaceva affatto.

Fritz Walter, invece, era un talento naturale capace di bruciare le tappe. Nato a Kaiserslautern, Germania del Sud, il 31 ottobre 1920, divenne titolare in prima squadra a 17 anni e tre anni più tardi al debutto in nazionale realizzò una tripletta fantastica nel 9-3 con cui la nazionale tedesca demolì la Romania.

Entrambi arruolati nella Wehrmacht, Turek in Russia rischiò la morte: gelo siderale, fame, e una scheggia di un fucile gli trapassò il caschetto protettivo conficcandosi nel cranio. Per sua fortuna, il colpo fu attutito dall’elmetto e non ebbe gravi conseguenze sulla sua salute. Al più, gli provocava ogni tanto delle forti emicranie. Ma quelli non erano tempi in cui con un’operazione chirurgica si potevano rimuovere pezzi di metallo dalla testa…

Walter ebbe una vicenda più travagliata e avventurosa.
Inizialmente trasferito in Italia, tra la Sardegna e l’Isola d’Elba, contrasse la malaria. Riuscì a guarire, ma la malattia gli lasciò in eredità una serie di dolori muscolari e articolari che venivano accentuati dal caldo. Il suo rendimento stesso, nel calcio, rimase influenzato dalle condizioni atmosferiche: con il sole, Walter rendeva meno. Quando c’era brutto tempo, la sua classe emergeva. Tanto che sui campi tedeschi si parlava di “tempo di Fritz Walter” per indicare la pioggia o il freddo.

Nel 1943 Walter fu arruolato nella Jagdgeschwader 50, reparto della Luftwaffe, l’aeronautica militare tedesca, sotto la guida di Hermann Graf, ufficiale e grande pilota, che era anche un discreto portiere e un appassionato di calcio: Graf formò i Die roten Jäger, i comandanti rossi, squadra di calcio degli aviatori di cui ovviamente faceva parte anche Walter.

Bombardati dagli americani, Walter, Graf e gli altri si salvarono per miracolo. Ma furono catturati e consegnati ai russi come prigionieri di guerra. Il destino era scritto: gulag. Ma nel campo di smistamento di Sighetu Marmatiei, in Romania, Walter trovò la sua salvezza. Vide giocare a pallone delle guardie. A un certo punto il pallone gli arrivò sui piedi. Un palleggio, due, tre. E tutti si accorsero immediatamente che davanti ai loro occhi non c’era un prigioniero comune. Walter improvvisò tunnel e doppi passi, mostrando un’eleganza innata.

Un soldato ungherese lo riconobbe. Lo aveva visto qualche anno prima a Budapest, in un’Ungheria-Germania 3-5 deciso da una sua doppietta. Andò dai vertici militari russi e spiegò che c’era un errore, che Walter era del territorio della Saar, che non era tedesco e che non doveva essere deportato.

L’escamotage riuscì. Qualche settimana dopo Walter tornò a casa sua, a Kaiserslautern. Il calcio lo salvò dal gulag.

Era invece ancora troppo giovane per combattere in guerra il terzo grande protagonista della finale del 1954, l’attaccante Helmut Rahn, autore della doppietta decisiva. Nato a Essen il 16 agosto 1929, era un adolescente negli anni del conflitto e aiutò il padre nella consegna di carbone e altro materiale utile per l’esercito.

Ciò che successe nel 1954 in Svizzera, al termine di una guerra da cui la Germania era uscita totalmente devastata sul piano materiale, di vite umane e nello spirito, è storia nota.

Quel Mondiale sembrava tagliato su misura per consacrare la bellezza e la forza dell’Aranycsapat, l’insuperata macchina di gol e spettacolo ungherese che aveva sconvolto il mondo nei primi anni ’50, violando il tempio di Wembley, dominando le Olimpiadi del 1952, proponendo un calcio modernissimo, dando il via a una striscia di imbattibilità di quattro anni e due mesi.

Ma il 4 luglio, giorno della finale, capitò l’imponderabile. Sul piano sportivo, un risultato ancora più sorprendente del Maracanaço di quattro anni prima perché la differenza tecnica tra l’Uruguay e il Brasile era certamente inferiore a quella tra la Grande Ungheria e la Germania Ovest.

epa00864489 (FILES) A file photograph showing two captains, Ferenc Puskas of Hungary, (R), and Fritz Walter of West Germany shaking hands prior to the start of the Final game at Berne, Switzerland, on 04 July 1954. West Germany defeated Hungary 3-2 in the World Cup final. Ferenc Puskas died at the age of 79 Friday, Nov. 17, 2006 at the Kutvolgyi hospital. Puskas had been hospitalized for six years with Alzheimer’s disease and was being treated for a fever and pneumonia for a couple of days. EPA/- HUNGARY OUT/ANSA I52 HUNGARY OUT

Eppure, nonostante un mare di occasioni create, pali, un gol annullato e un vantaggio iniziale di due reti, l’Ungheria clamorosamente perse.
I protagonisti assoluti furono proprio loro: Rahn, con la sua doppietta; Walter che – guarda caso su un terreno reso viscido dalla pioggia caduta prima del match – guidò la rimonta con il piglio del leader; e Turek, che riscattò uno svarione iniziale compiendo una serie di parate fuori da ogni logica [potete trovare cronaca e pagelle del match qui: https://gameofgoals.it/2013/01/12/1954-finale-germania-ovest-ungheria-3-2.html]

Un successo pazzesco, a cui nessuno credeva. Forse solo il Ct Herberger, alla vigilia, aveva speranze. Prima della partita aveva detto ai suoi, riferendosi agli ungheresi: «Molti di loro non hanno mai perso una partita in nazionale. Non sanno cosa sia la sconfitta. E una cosa che non si conosce fa più paura».

Il radiocronista Herbert Zimmermann, che definì in quella partita Turek «un dio del gioco del calcio» al termine dell’incontro, con un filo di voce, commentò alla radio di Stato: «Signori, benché vi sembri incredibile, la Germania è campione del mondo».

Quel successo rappresentò per la nazione e il popolo tedesco il seme del riscatto che consentì di costruire un’immagine positiva e vincente dopo gli orrori del nazismo. Crebbe la fiducia della gente, l’economia si riprese, la Germania gettò le fondamenta di una nuova era, diventando la nazione che è oggi.

La vittoria del Mondiale 1954 è stata la più importante nella storia della Germania moderna. Non solo sul piano calcistico.

Franz Beckenbauer

Nel 2003 la finale del Mondiale 1954 divenne persino un film, il Miracolo di Berna del regista Sönke Wortmann. Il racconto di un ragazzino tifoso della Mannschaft, che ha come idolo e amico personale Helmut Rahn e vede in lui una sorta di padre putativo, visto che il suo, reduce dalla Campagna di Russia e dall’Operazione Barbarossa, sembra mostrare nei confronti del figlio un atteggiamento ben poco paterno: è autoritario, freddo, perennemente insoddisfatto. In qualche modo è rimasto legato alla vecchia Germania, all’educazione rigida e severa impartita ai tempi del Reich. Ma pian piano anche il padre si apre e scopre un mondo nuovo, ritrova l’amore del figlio e costruisce con lui e la moglie una nuova vita.

Esattamente come ha fatto la Germania: costruirsi una nuova vita grazie a un manipolo di “eroi sportivi” che dopo aver rischiato la morte nelle steppe russe divennero gli alfieri del riscatto tedesco agli occhi del mondo.

Il discorso di Herberger prima della finale nel film “Il Miracolo di Berna” di Sönke Wortmann

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