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Telê Santana: la critica del resultadismo opportunista

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Il dibattito tra belgiochisti e resultadisti (categorie mutuate dal pensiero sportivo argentino, che meriterebbe un’analisi a parte) infiamma i quotidiani sportivi, i social e le discussioni da bar da decenni, forse da sempre.

Da un lato, apparentemente, si collocano gli implacabili del risultato, coloro per cui il valore di una squadra si misura con i traguardi che raggiunge e che declassano ogni argomentazione circa il modo a sofisma velleitario.

Dall’altro, la terribile e nutrita legione degli esteti, che mettono la qualità della giocata e del gioco – spesso peraltro intesi in modo un po’ riduttivo – al primo posto e che snobbano con una certa noncuranza lo schieramento avversario, composto secondo loro da persone che potrebbero limitarsi a consultare gli almanacchi, evitando di addentrarsi in analisi che non gli competono.

In mezzo, una marea di sospetti, occhiatacce reciproce e polemiche, pronte a divampare non appena l’esito di una partita avalla la visione di una delle due fazioni.

Ma esiste davvero una contrapposizione simile, soprattutto in Italia?

Gioco e risultati: due mondi diversi?

Allegri e Sacchi: due modi diversi di intendere il calcio

Io ho qualche dubbio e sospetto che giochismo e resultadismo siano molto più vicini di quanto non si creda, nel nostro Paese, e che la vera vocazione estetica sia una cosa molto più rara, qualcosa che abbiamo intravisto in alcune occasioni, in alcuni momenti specifici, ma che è sempre rimasta lontana dal nostro credo.

Porto qualche esempio per corroborare la mia tesi: Arrigo Sacchi è considerato una sorta di oltranzista del giuoco, un profeta quasi ottenebrato da una sorta di super-ego leninista la cui presenza filtra ogni esame della realtà e lo obbliga a cercare solo conferme della sua visione iniziale e iniziatica – nei suoi articoli si ripetono come mantra parole come coraggio, collettivo, organizzazione, generosità etc.. Di fatto, Arrigo da tempo immemore suona come un disco rotto e non perde occasione di liquidare con una certa sufficienza molte delle espressioni anche più efficaci del nostro calcio, basti pensare alle polemiche con il grande nemico Allegri, visto come l’epigono di una concezione parrocchiale le cui fondamenta sembrano incompatibili con la complessa visione sacchiana.

Ma se analizziamo un po’ più a fondo le parole di Arrigo, a mio avviso scopriamo che dietro e oltre il reticolo dell’elogio al gioco si nasconde quasi sempre una celebrazione del risultato, spesso confezionata in modo opportunista e a posteriori.

Penso alle semifinali degli Europei del 2000, che sono quasi l’epitome della visione di Sacchi e di molti presunti belgiochisti italiani: prima della partita, l’ex allenatore del Milan e della nazionale consuma litri di inchiostro per glorificare lo spumeggiante calcio degli olandesi, coraggioso, tecnico, arioso, tutto votato alla ricerca della giocata e del gol; al contrario, la più essenziale Italia di Dino Zoff viene trattata con poco rispetto e accusata di praticare un calcio vecchio e destinato a essere presto cancellato dalla storia.

La partita finisce come tutti sappiamo ed ecco che improvvisamente il buon Arrigo si produce in una spettacolare inversione di marcia: l’Italia ha trionfato grazie a carattere, collettivo, coraggio, alla capacità di soffrire e gestire i momenti, tutti valori che Sacchi colloca nel proprio campo, nella sua sfera ideale, mentre gli olandesi sono annegati nel proprio narcisismo e in una certa inconcludenza che li ha resi vulnerabili e poco efficaci.

In pochi, all’epoca, si sono resi conto di quanto le argomentazioni di Arrigo rispecchiassero un approccio che da sempre domina i nostri discorsi e che non ha nulla a che vedere con il giuoco.

Esistono peraltro molti episodi simili: il trionfale 2009 del Barcellona di Guardiola trascina tutta la stampa e moltissimi osservatori dalla parte del gioco sofisticato e tecnicamente sublime dei catalani, spacciato come l’ultima e anzi unica frontiera del calcio; quando però la tenace Inter di Mourinho riesce ad avere la meglio sui catalani, ecco un imponente capovolgimento di fronte che lascia quasi interdetti: nel calcio vincono forza fisica, intensità, difesa, solidità, al diavolo le astruserie del cruijffismo e l’ossessione del vecchio Johann per la tecnica, che si traduce quasi sempre in un palleggio sterile e noioso.

Ecco però che la straordinaria finale di Wembley del 2011 riporta larga parte di osservatori e appassionati dentro la trincea cruijffista e belgiochista.

Anche negli ultimi anni il copione si è ripetuto con una precisione e una puntualità quasi disarmanti: l’Ajax del 2019 e i suoi fuochi d’artificio hanno arruolato la simpatia di molti osservatori, ma giusto fino al momento in cui venti minuti di buio hanno agevolato la rimonta del Tottenham, perché in quel preciso istante il gioco degli olandesi è diventato sterile, vanaglorioso e, in sintesi, perdente.

L’Ajax del 2019: esempio di come la critica ha elogiato il gioco degli olandesi fino a quando… hanno vinto

Dopo Ajax-Benfica di pochi giorni fa da ogni parte trasudava ammirazione per il gioco spregiudicato, a uno o due tocchi, degli olandesi, ma mi gioco quello che volete che in caso di eliminazione la critica condannerà senza appello l’estetismo fine a se stesso degli ajacidi.

Ci siamo capiti, credo: l’estetismo e il sedicente belgiochismo di quasi tutti i giornalisti, appassionati e tifosi italiani sono in realtà un resultadismo opportunista. Nel nostro subconscio collettivo è radicata una convinzione, ovvero che la ricerca della pura qualità sia un vizio perdonabile solo quando conduce alla vittoria, mentre in caso contrario vada trattata come una perversione ideologica che nega l’essenza stessa del calcio.

Il belgiochismo italiano è un colossale autoinganno che si ripete da decenni e che viene smascherato dalla sua stessa incoerenza, dalla fragilità delle argomentazioni che lo supportano, dall’elevato numero di voltagabbana che prima sproloquiano di giuoco e poi, di fatto, non fanno che valorizzare i risultati.

Chi ha convinzioni profonde, tuttavia, non le cambia come cambia il vento, ma ha il coraggio di sostenerle anche e soprattutto quando qualcosa va storto. La critica e la cultura, anche in ambito sportivo, non dovrebbero essere solo una forma mascherata di soccorso al vincitore, ma dovrebbero contenere un’analisi.

Per fortuna, abbiamo avuto personaggi che se ne sono fregati dei dettagli e degli incidenti della storia e che hanno sventolato la bandiera delle proprie convinzioni senza farsi fuorviare dal solo risultato.

Intendiamoci: nessuno gioca per perdere e l’esito finale è una parte essenziale della storia, che lo si ammetta o meno. Tutti vogliono vincere. Per qualcuno, però, il lavoro che sta dietro alla ricerca del risultato conta quanto il risultato stesso, se non di più, a volte, mentre per altri è per l’appunto un vezzo sciocco.

La differenza di Telê

Il Brasile del 1982: arte, eleganza e movimento

Telê Santana è uno dei pochi belgiochisti autentici, e lo è in maniera così pura, convinta e incontaminata che mi riesce difficile non ammirarlo e non rispettarlo. Secondo il grande tecnico brasiliano, il calcio è una forma d’arte contemporanea, e se noi abbiamo avuto Pasolini che con intelligenza distingue la nostra prosa dalla poesia dei brasiliani, Telê Santana è forse colui che più di ogni altro abbraccia una visione del calcio totalmente votata alla poesia (un verso libero che possiede però un’armonia naturale, un calcio che ho sempre associato allo stile del grandissimo cantautore brasiliano Caetano Veloso) e alla ricerca dello spettacolo, perché, secondo lui, l’essenza del gioco è ciò che accade nei novanta minuti e non solo il tabellino finale.

Santana ha sempre remato contro la corrente della storia: a inizio anni ’80 la sua vocazione estetica pura e la sua celebrazione della tecnica quale bene supremo e valore più alto suonano già anacronistiche e persino in Brasile sono attaccate come velleitarie da più parti; la sconfitta inattesa subita dagli azzurri di Bearzot, poi, soffia nelle trombe dei numerosi oppositori, ma non scalfisce la visione di Santana, che rimane fedele al suo credo fino all’ultimo, introducendo semmai alcuni accorgimenti. Il fatto che è un artista puro come Santana è anacronistico e fuori luogo per definizione, e che anche in Brasile la sua figura è destinata a sollevare polveroni e polemiche, come ogni concezione radicale – il radicalismo è destinato a dividere, d’altra parte in Italia una figura come la sua non sarebbe durata dieci secondi.

Come e più di Saldanha, che probabilmente aveva un’altra tempra ed era molto più figlio di buona donna, Santana ritiene che la pura qualità sia l’essenza del calcio e, aiutato da una generazione di fenomeni, allestisce un collettivo superbo che sprigiona magia da ogni poro, senza mai rinunciare a un grammo dell’arte che il destino gli ha concesso in dono, ma cercando il modo di armonizzare tra loro i suoi campioni, di valorizzare le cose in cui eccellono. Santana vuole regalare al pubblico un motivo per vedere la partita e non solo un pretesto per esultare alla fine dei novanta minuti, e riesce perfettamente nell’intento, ottenendo anche risultati roboanti in serie.

Il Brasile dei primi anni ’80 è una delle cose migliori della vita, esattamente come quello che dodici anni prima ha trionfato in Messico, e la mancanza dell’ultimo tassello gli regala un’allure romantica che paradossalmente lo rende ancora più mitologico e affascinante.

Chi ha seguito la squadra di Santana durante i mondiali di Spagna, anche a posteriori, difficilmente è rimasto indifferente a quello spettacolo pirotecnico in cui un’utopia per qualche tempo si concretizza sotto gli occhi dell’appassionato: contornati da comprimari non eccezionali, costretti a giocare praticamente senza portiere e con un centravanti non indimenticabile, i numerosi primi violini della squadra incantano la platea e dispongono di ogni avversario, come era accaduto negli anni immediatamente precedenti, sollevando il mondo con la sola qualità tecnica.

Solo un pizzico di ingenuità e un’Italia straordinaria impediscono a quel Brasile di iscriversi nel circolo delle grandissime e vincenti, ma Santana, pur subissato di critiche in patria, non rinuncia al proprio credo, consapevole di aver ottenuto ciò che voleva, ovvero di aver riempito gli occhi degli spettatori, arrivando peraltro a un soffio dal grande risultato.

Quattro anni più tardi, richiamato in fretta e furia per salvare una nazionale che sta rischiando di non approdare in Messico, Santana aggiusta le cose – sapeva fare anche questo – e regala con il suo Brasile alcuni dei momenti più alti del torneo, specie in un quarto di finale con la Francia che passa alla storia come la partita più bella della storia del campionato del mondo.

Nonostante gli assi siano un po’ appannati o a fine carriera, il CT cava il meglio da ciò che il suo paese gli offre e regala un calcio leggermente meno ultraterreno ma sempre in grado di guadagnarsi l’applauso convinto di una fetta importante del pubblico, anche di quello neutrale.

Il titolo gli sfugge ancora ma Santana non negozia i principi fondamentali del suo calcio, a dispetto dell’accerchiamento dei resultadisti, che non gli perdonano la seconda eliminazione consecutiva (opachi all’evidenza di quanto il Brasile fosse in crisi prima del ritorno del CT) e alla fine è proprio la sua convinzione che gli consente di costruire la lunga e gloriosa epopea del San Paolo, che lo riscatta anche sul piano dei risultati.

La trasformazione al San Paolo

Telê Santana mostra con orgoglio i successi nel San Paolo

Il suo San Paolo è giusto un filo più accorto delle sue nazionali, anche perché non dispone dello stesso parterre d’élite in mezzo al campo, ma è sempre fedele ai canoni del futebol bailado che da allora in avanti anche nel grande paese sudamericano saranno in parte abbandonati, domina il suo continente e prevale in due finali bellissime sul Barcellona di Cruijff e sul Milan di Capello.

Santana, in sintesi, è coerente e anche quando la vittoria gli sfugge, spesso in modo episodico, non tradisce le proprie convinzioni e la sua ostinazione è il segreto non solo di un calcio così metafisico che mi ha sempre evocato la leggerezza delle ballerine di Chagall, ed è questo a renderlo un belgiochista autentico e coerente, oltre che, a conti fatti, vincente; forse perché nel suo caso la ricerca della pura qualità è la strada migliore anche per la vittoria, e non è un vezzo: un belgiochista secondo me ragiona così, mentre i tanti sedicenti ammiratori del giuoco che popolano la nostra penisola tendono a credere che vincere sia una cosa diversa dalla ricerca della qualità e che esistano vie molto più efficaci e immediate per arrivare al successo (salvo cambiare rotta quando vince chi punta sulla pura bravura tecnica).

Concludo con un aneddoto: prima della finale di Tokyo del 1992 Telé Santana e Johann Cruijff discutono di calcio fino a tarda notte e si promettono reciprocamente di dare spettacolo, e che avrebbe vinto il migliore, e che nessuno avrebbe cercato trucchetti. Il giorno dopo vince il San Paolo e Cruijff a fine partita dice «Se devi essere investito meglio lo faccia una Ferrari».

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