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Béla Guttmann, l’ebreo errante che conquistò l’Europa e l’America

Nella Giornata della Memoria raccontiamo le vicende sportive ed extrasportive di uno dei più geniali e longevi allenatori di sempre

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Immagine di copertina: Béla Guttmann con le due Coppe dei Campioni

Istrionico. Lunatico. Giramondo. Carismatico. Vincente. Innovativo.
Quando si parla di Béla Guttmann il rischio è di iniziare con gli aggettivi e non finire più.
Perché l’allenatore ebreo ungherese, che sopravvisse all’Olocausto e fu l’unico tecnico capace di conquistare la Mitropa Cup (la competizione per club più importante d’Europa prima della guerra) e la moderna Coppa dei Campioni – il suo naturale proseguimento -, fu un uomo davvero dalle mille vite e personalità.

Un mix tra Mourinho e Guardiola, capace di portare il proprio credo un po’ ovunque, dalla natia Ungheria all’Italia, dal Portogallo al Sudamerica, ebreo errante sempre in cerca di un’occasione diversa, incapace di resistere in un luogo per più di qualche anno. Forse solo a Vienna si sentiva realmente a casa. Il giornalista Hardy Grune scrisse di lui: «Molte volte si sedeva a San Paolo, New York o a Lisbona, sognando di gustarsi un melange in un tipico cafè viennese e chiacchierare amabilmente con alcuni dei suoi più cari amici parlando di calcio».

La lista dei campioni da lui allenati e forgiati è infinita: da Gyula Zsengellér ai big della Grande Ungheria con in testa Ferenc Puskás, da Alberto Spencer a Zizinho, da Mario Coluna a Pedro Rocha, da Nils Liedholm a Gunnar Nordahl, da Juan Alberto Schiaffino a Eusébio. E in modo indiretto contribuì anche alla valorizzazione di Pelé, che lui considerava il più bravo di tutti.

Il calciatore

Béla Guttmann all’Hakoah Vienna nel 1925

Era nato a Budapest il 27 gennaio 1899 in una famiglia di ballerini: i genitori Abraham ed Eszter tentarono di trasmettere al figlio la medesima passione e a 16 anni Béla era istruttore di danza classica. Ma a lui interessava di più il calcio. Dopo la trafila nel vivaio del Torekves, a 18 anni debuttò in prima squadra nel ruolo di centromediano metodista, fulcro e governo del gioco. Si trasferì all’Mtk Budapest con cui vinse due campionati.

Esordì anche in nazionale e partecipò ai Giochi Olimpici del 1924 a Parigi, nei quali l’Ungheria venne sorprendentemente eliminata agli ottavi dall’Egitto. Guttmann mostrò il suo spirito ribelle e goliardico: per protestare contro le tattiche dell’allenatore e l’organizzazione della federazione (secondo lui inadeguata) catturò dei topi all’interno dell’hotel dove la squadra era in ritiro, li legò per la coda e li appese alle maniglie delle camere dei dirigenti. Quando si scoprì che era stato lui l’autore del gesto, fu allontanato.

Ma l’Ungheria doveva fronteggiare una situazione ben peggiore degli scherzi di Guttmann: il capo del governo, l’ex ammiraglio dell’esercito austriaco Miklós Horthy, al potere dal 1920, varò leggi sempre più discriminatorie nei confronti degli ebrei, fatto che costrinse il giovane Béla a riparare a Vienna, dove aprì una scuola di ballo e si laureò in psicologia. Nel frattempo continuava a giocare a calcio, nell’Hakoah, la squadra della comunità sionista. Vinse il primo campionato professionistico nel 1925 e partì con i compagni per un tour negli Stati Uniti. L’obiettivo era promuovere la causa sionista al di là dell’Oceano, ma Guttmann aveva in mente per sé altri piani: gli americani, che erano ancora abbastanza digiuni di soccer, rimasero elettrizzati dallo stile mitteleuropeo dell’Hakoah – fraseggi palla a terra e movimenti d’insieme – e soprattutto da Guttmann, che era il perno del gioco.

I New York Giants gli fecero un’offerta faraonica – 500 dollari al mese – convincendolo a rimanere. Lui iniziò a dare lezioni di danza e contemporaneamente aprì uno spaccio clandestino di bevande alcoliche. Ma la fortuna che era riuscito a costruire in pochi si sgretolò nel 1929, dopo il crollo della borsa di Wall Street: Guttmann perse tutto e con sarcasmo commentò: «Ho fatto dei buchi negli occhi di Abramo Lincoln sulla mia ultima banconota da cinque dollari. Ho pensato che così la banconota non avrebbe potuto trovare la porta per andarsene».

Dopo aver messo in piedi una squadra di All Stars, radunando tutti i giocatori dell’Hakoah che dopo la tournée americana avevano deciso di rimanere negli Stati Uniti, Guttmann tornò in Europa e chiuse la carriera calcistica nell’Hakoah Vienna.

I primi anni in panchina

Più che la carriera da calciatore – buona, ma non eccezionale – Guttmann è entrato nella storia dalla porta principale per le sue idee e i suoi risultati da allenatore.
La prima esperienza, a 34 anni, naturalmente all’Hakoah Vienna, con due decimi posti in campionato. Quindi il passaggio all’Enschede, in Olanda. Una possibilità arrivata grazie a Hugo Meisl, che era amico di suo padre. Sotto la sua guida il club chiuse al terzo posto il campionato dopo una grande rimonta, alle spalle di Feyenoord e Ajax.

Guttmann cercò di tornare all’Hakoah, ma l’invasione nazista dell’Austria sconvolse i suoi piani e riparò in Ungheria, all’Újpest, alla guida di una squadra particolarmente competitiva. Era la stagione 1938-39 e Guttmann pose il primo, importantissimo, tassello della sua straordinaria carriera: conquistò sia il campionato ungherese sia la Mitropa Cup, la Coppa dei Campioni del periodo prebellico: nella finale tutta magiara contro il formidabile Ferencvaros, l’Újpest si impose per 4-1 all’andata e pareggiando 2-2 al ritorno. Il capocannoniere del torneo fu Gyula Zsengellér, attaccante completo e accreditato di 387 reti in 325 partite nella serie A magiara, protagonista nel dopoguerra anche in Italia: negativa l’esperienza alla Roma, più produttiva quella all’Ancona, che guidò alla promozione dalla serie C alla serie B.

La guerra

Proprio nel momento in cui la sua carriera stava per decollare in via definitiva, scoppiò la Seconda guerra mondiale. Anni di sofferenza, soprusi e violenze. Soprattutto per gli ebrei, che andarono incontro a uno dei momenti più tragici della loro storia.

Guttmann si trovava in Ungheria, Paese alleato dei nazisti, ma che era riuscito a mantenere la propria indipendenza. E dove, nonostante diverse leggi antisemite del governo di Miklós Horthy, gli ebrei non erano stati deportati. La situazione però cambiò radicalmente a marzo del 1944: Horthy, attraverso il Primo ministro Miklós Kallay, si era reso conto che la Germania era vicina alla sconfitta e aveva così cercato una pace separata con gli Alleati e con i sovietici. Hitler per ripicca invase il Paese e per gli ebrei ungheresi si aprirono le porte dell’inferno, con violenze e deportazioni all’ordine del giorno. Esattamente come capitava nelle nazioni sotto il diretto controllo del Reich.

Guttmann venne nascosto a Budapest dalla moglie cattolica Mariann Moldovanyi in un attico sopra l’appartamento del fratello, proprietario di un salone di bellezza. Ma un po’ per sfortuna e un po’ per incoscienza – lo sprezzo del pericolo faceva parte del suo carattere e portò Guttmann a uscire più volte di casa nonostante i rischi del caso – l’allenatore fu catturato e condotto in un campo di prigionia.

Miklós Kallay e Lajos Csatay

Forse a convincerlo erano state anche le parole del Ministro della Difesa Lajos Csatay, che aveva sottolineato come gli ebrei se si fossero sottoposti a dure e faticose attività quotidiane avrebbero avuto più possibilità di salvarsi la vita. La confusione politica e una sconfitta che per la Germania si faceva sempre più imminente spinsero Hitler a deporre Horthy e il suo governo (tra cui lo stesso Csatay, morto suicida per evitare la cattura della Gestapo) e favorire l’insediamento del feroce Ferenc Szalasi, leader delle Croci Frecciate, un’organizzazione che si macchiava dei peggiori crimini contro gli ebrei.

Guttmann però riuscì a fuggire dal campo di lavoro e salvarsi la vita: il padre, il fratello e alcuni nipoti non furono così fortunati e morirono nelle camere a gas. Nella sua biografia, scritta anni dopo, l’allenatore ebreo ungherese evitò di parlare di certi argomenti. E si limitò a scrivere: «Fu Dio a salvarmi. Negli ultimi 15 anni sono stati scritti un’infinità di libri su quanto distruttivi siano stati gli anni in cui si fece una fatica enorme per riuscire a sopravvivere e non morire. Sarebbe quindi alquanto superfluo affliggere i lettori di questo mio libro con dettagli di quel tipo».

Il difficile dopoguerra

Tipico ebreo errante in cerca sempre di nuove avventure, uomo ambizioso e vulcanico, istrionico, Guttmann dopo la guerra ricominciò ad allenare, deciso ad aggiungere altri trofei alla Mitropa Cup del 1939. Dopo un’esperienza al Vasas Budapest, si trasferì in Romania, nel team ebraico del Ciocanul (ex Maccabi Bucarest), dove chiese di essere pagato in natura alla luce dei problemi economici del Paese. Dotò il club di una struttura moderna, ma litigò con un dirigente e se ne andò.

Tornò all’Újpest e riportò il club alla vittoria del campionato. Nel 1947 passò alla Kispest, anticamera della Honved, dove plasmò la generazione che da lì a pochi anni stupì il mondo. Ebbe un rapporto di “odio e amore” con la stella Puskás, che a 20 anni era già la guida carismatica della squadra, ma questo non impedì a Guttmann di fornire al futuro Colonnello preziosi consigli per affinare il proprio bagaglio tecnico. Per un certo periodo lavorò anche al fianco di Gusztav Sebes nella costruzione dell’Aranycsapat, la squadra d’oro che dominò le Olimpiadi del 1952, sventrò gli inglesi a Wembley nel 1953 e mancò in modo beffardo e sorprendente l’appuntamento con il titolo mondiale nel 1954.

Nel suo carnet, naturalmente, non poteva mancare l’esperienza italiana. Iniziò al Padova, stagione 1949-50. Avvio di campionato portentoso, anche grazie ai durissimi allenamenti a cui sottopose i giocatori, con i veneti che persero una sola partita nelle prime 13. Al ritorno il tracollo, con Guttmann esonerato e la squadra che chiuse decima. Ancora più travagliata l’esperienza alla Triestina. Guttmann venne squalificato dalla federazione poiché l’anno prima al Padova pareva essersi intascato dei soldi per l’acquisto del portiere croato Zvonko Monsider. La Corte di Giustizia Federale accolse il ricorso dei friulani e l’allenatore poté tornare a guidare la squadra nel finale di campionato conducendola a una sofferta salvezza. La stagione seguente, 1951-52, partì male e venne esonerato.

Tentò l’avventura in Sudamerica, al Quilmes, Seconda divisione argentina, ma non era aria. Dopo un trasferimento mancato al prestigioso Boca Juniors, fu ingaggiato dall’Apoel Nicosia a Cipro. Pareva aver esaurito il tocco magico. Ma all’improvviso, nell’estate del 1953, si presentò un’occasione importante: il Milan che il presidente Angelo Rizzoli stava potenziando in modo considerevole, come confermava l’acquisto del regista uruguagio Juan Alberto Schiaffino, uno dei migliori giocatori al mondo.

Béla Guttmann al Milan

Guttmann sembrò ritrovare l’entusiasmo perduto. Diede ai rossoneri un gioco spumeggiante ed efficace, costruito intorno al faro Schiaffino, mentre al centro della difesa lanciò titolare senza remore il 22enne Cesare Maldini, prelevato dalla Triestina, confermando di avere un occhio particolarmente attento nell’individuare giovani talenti. Il Milan volava: nove vittorie nelle prime dieci giornate e una stagione destinata a diventare trionfale.

Ancora una volta però emersero i limiti del suo carattere: accanto al genio visionario, c’era un uomo contraddittorio, permaloso, insofferente, scorbutico e non avvezzo ai compromessi. In un locale di Milano litigò furiosamente con il tecnico della Sampdoria ed ex del Milan Lajos Czeizler, ebreo come lui e teoricamente un amico, visto che ne aveva caldeggiato la candidatura per la panchina rossonera. Poi entrò in collisione con la società e con alcuni giocatori. Così, nonostante fosse in testa al campionato, Guttmann venne cacciato e in una conferenza stampa al vetriolo sbottò: «Sono stato licenziato anche se non sono né un criminale né un omosessuale». Da quel momento pretenderà di firmare sempre una clausola nei contratti che impediva di esonerarlo in caso di primo posto in classifica. Per la cronaca senza di lui il Milan vinse il tricolore.

Passò al Vicenza, ma fu un annus horribilis, soprattutto per fatti extra-calcistici: a Milano investì in auto due giovani studenti e uno, Giuliano Brene, morì. Il proprietario della vettura, seduto in quel momento al posto del passeggero, era Deszo Soldi, un sopravvissuto della Shoah trasformatosi in un ambiguo e molto chiacchierato dirigente calcistico. Rinviato a giudizio, Guttmann lasciò per sempre l’Italia. Firmò un contratto con l’Atletico Madrid, ma non assunse la carica e tornò a Budapest nella Honved. Era il 1956.

Un’epoca di successi

Durante una tournée in Brasile con la Honved, rimase incantato dal Paese sudamericano e decise di restare. Forse un modo per tenersi lontano da Budapest, dopo la rivolta dei cittadini schiacciata nel sangue dai carri armati sovietici. Ingaggiato dal San Paolo, Guttmann conquistò a sorpresa il titolo statale 1957: buona parte del merito andava ascritto ai suoi allenamenti innovativi e all’applicazione di un sistema di gioco ancora poco in voga in Sudamerica, il 4-2-4, già sperimentato con successo in Ungheria.

Il 4-2-4 rivitalizzò il 36enne Zizinho, campione del Brasile ’50 e ritenuto ormai sul viale del tramonto. Zizinho non giocava più da mezzala sistemista, a metà strada tra centrocampo e attacco, ma giostrava intorno a un centravanti. Correndo di meno e muovendosi più vicino alla porta, tornò a offrire un rendimento eccezionale.

Quel nuovo sistema di gioco ispirò uno dei suoi allievi, Vicente Feola, allenatore del Brasile, in vista del Mondiale 1958: al posto di Zizinho, Feola collocò il 17enne Pelé intorno alla boa Vavá riuscendo così a sprigionare tutto l’immenso potenziale della futura Perla Nera.

Lo stesso principio fu alla base nel Benfica dell’esplosione del giovane Eusébio, 20enne di origine mozambicana che Guttmann volle fortissimamente e strappò alla concorrenza dei rivali dello Sporting Lisbona. Muovendosi intorno alla pertica Torres, Eusébio poteva mettere in mostra un devastante arsenale fatto di accelerazioni devastanti palla al piede, tecnica invidiabile e micidiale senso del gol.

Dopo la fruttuosa parentesi brasiliana, Guttmann infatti si era trasferito in Portogallo: al primo anno, 1958-59, condusse il Porto alla vittoria del campionato al termine di un’epica rimonta sul Benfica. Poi si trasferì proprio al Benfica, toccando l’apice della propria carriera, con una nuova affermazione in patria a cui fecero seguito i due trionfi nelle Coppe Campioni 1961 e 1962.

Vittorie che sommate a quella nella Mitropa Cup 1939 hanno proiettato Guttmann nel mito, unico allenatore della storia a laurearsi campione d’Europa nelle due massime competizioni di club prima e dopo la guerra.

Guttmann in mezzo ai giornalisti

Gli ultimi anni

Guttmann lasciò il Benfica subito dopo la seconda vittoria in Coppa dei Campioni: ai dirigenti che non volevano corrispondergli un aumento di ingaggio dopo il duplice e storico successo, il tecnico rispose: «Il Benfica non vincerà più una coppa internazionale per i prossimi 100 anni». Ne sono passati 60 e quell’infausta profezia è ancora valida: il club ha partecipato a 8 finali europee senza più vincere.

Ma se il Benfica non è più riuscito da quel momento a rinverdire gli antichi fasti, anche Guttmann ha cominciato un lento e inesorabile declino. Alla fine del 1962 cercò di estendere il proprio dominio dall’Europa al Sudamerica, chiamato a guidare il grande Peñarol di Rocha e Spencer, ma nella finale di Coppa Libertadores contro il Santos dovette cedere il passo a un magnifico Pelé. Malgrado una gabbia studiata ad hoc, prima della partita decisiva per limitarne le devastanti scorribande palla al piede, la Perla Nera irrise la difesa uruguagia con due reti e una prestazione monstre.

A Guttmann non restò che inchinarsi e guardare oltre. Ma quell’oltre offriva oramai poco: si riciclò senza grandi risultati al Benfica, quindi nella nazionale austriaca, al Servette, al Panathinaikos e all’Austria Vienna. Chiuse la sua quarantennale avventura in panchina al Porto, nel 1973-1974, dopo che un suo giocatore, Pavão, morì in campo per ragioni mai del tutto chiarite. L’autopsia stabilì che la causa del decesso era stata una lesione delle capsule renali dovuta a un brusco scarico di adrenalina, ma non fu possibile spiegare cosa l’avesse provocato.

Sospettato di obbligare i giocatori a fare uso di doping, oggetto di continue critiche, stanco e provato da mille battaglie, Guttmann, a 74 anni, decise di ritirarsi. Trascorse gli ultimi anni di vita a Vienna, la città che più amava, fino alla morte nel 1981.

All’attacco, ma con prudenza

Gioco palla a terra, passaggi rapidi e corti, dominio degli spazi e l’attacco più importante della difesa.
Sono i concetti base del Donaufussball, il calcio totale danubiano precursore di quello olandese, a cui si sono ispirati tutti i grandi allenatori ebrei della Mitteleuropa: da Hugo Meisl a Béla Guttmann, da Árpad Weisz a Ernó Egri Erbstein, da Lajos Czeizler a Imre Hirschl, da Lippo Hertzka a Jenó Konrad, da Gyula Mandi a Izidor Kürschner, da Gyula Feldmann a Richard Kohn.

Guttmann provò a diffondere questi principi in 11 Paesi, specchio di un carattere che lo portava a viaggiare spesso, fedele al concetto dell’ebreo errante che si considera un autentico cittadino del mondo. In quanto tale Guttmann non covava risentimenti nei confronti di nessun popolo. Anche quando nel 1964, a 19 anni dalla fine della guerra, molti giornali austriaci gli rovesciarono addosso un’ignobile campagna antisemita, lui si limitò ad alzarsi dalla sedia e andarsene senza gridare allo scandalo.

Difficile capire il perché del suo comportamento e del suo modo di fare: come detto, Guttmann era un personaggio particolare, ricco di tante sfumature. Di certo, da un punto di vista calcistico, era estremamente flessibile. Non aveva moduli preconfezionati: per lui non erano i calciatori a dover seguire un canovaccio tattico, ma gli schemi che andavano adattati alle caratteristiche dei singoli. I soli principi inalienabili erano il gioco d’attacco («non mi sono mai preoccupato se la formazione avversaria riusciva a segnare un gol, perché ho sempre pensato che i miei sarebbero riusciti a realizzarne un altro») e l’idea di imbastire la manovra con una fitta rete di passaggi: il passa-repassa-chuta (passa-ripassa-tira). Ma in caso di necessità non erano disdegnati i lanci lunghi per liberare l’area.

A conferma della sua flessibilità tattica, Guttmann sceglieva i giocatori in base agli avversari, alle condizioni del meteo e del campo. Ogni mossa era studiata e spesso per gli avversari più forti erano predisposte marcature studiate a tavolino. Così fece contro Pelé nella finale Libertadores del 1962: l’idea era limitarlo con raddoppi sistematici, sporcargli le linee di passaggio e tagliargli i rifornimenti. La tattica non sortì gli esiti sperati, ma fa capire comunque l’attenzione ai particolari di Guttmann.

Altro punto forte del suo verbo calcistico era la parte comunicativa. Sosteneva che l’allenatore era come un domatore di leoni, che «domina gli animali, nella cui gabbia conduce il proprio​ spettacolo, finché li tratta con fiducia in sé e senza paura. Ma nel momento in cui diventa incerto della sua energia ipnotica, e i primi segni di timore appaiono nei suoi occhi, è perso». Anticipò l’idea del tecnico-manager alla Herrera o alla Mourinho, mescolando un po’ di sana arroganza, battute al vetriolo, un’invidiabile dialettica e uno spiccato culto della propria persona. Ma il suo calcio, a differenza dello spagnolo e del portoghese, non era orientato sul pragmatismo e la difesa, ma sull’attacco.

Guttmann spiega la tattica ai suoi giocatori

L’adozione del 4-2-4

Accanto allo stile di gioco, l’altra grande rivoluzione di Guttmann fu l’adozione del 4-2-4. Non fu lui il primo a usarlo, ma fu uno dei primi a renderlo efficace su larga scala.
Lo aveva partorito ai tempi della Grande Ungheria, lavorando al fianco di Sebes e Mandi. La base di partenza era il Sistema rovesciato, il 3-2-3-2, con il centravanti nominale Nandor Hidegkuti arretrato rispetto alle mezzali Sandor Kocsis e Ferenc Puskás. L’ispirazione a Sebes era arrivata da Márton Bukovi, allenatore dell’Mtk Budapest, che per ovviare all’addio dell’ariete Norberto Hofling ceduto alla Lazio, aveva scelto di invertire il centravanti con i due interni.

Sebes, Mandi e Guttmann dal 3-2-3-2 erano passati in breve a un flessibile 4-2-4 in fase di non possesso palla, con il trattore Zakarias che arretrava al fianco dello stopper Loránt e con i terzini Buzanskyi e Lantos formava una difesa a 4; e con Hidegkuti che si spostava indietro di qualche metro formando con il cervello Bozsik un inimitabile duo di costruttori di gioco capaci di abbinare qualità tecniche, visione di gioco periferica e dinamismo.

Quando si trasferì in Brasile, Guttmann trovò terreno fertile dato che anche i brasiliani erano già arrivati a concepire il 4-2-4 attraverso strade diverse: in quel caso erano stati i piccoli club ad adottare il 4-2-4 come reazione allo schema della Diagonal che stava spopolando in Brasile (così giocò anche la meravigliosa nazionale del 1950 beffardamente superata dall’Uruguay nell’ultimo atto del Mondiale): il modulo di gioco prevedeva una diagonale offensiva che partiva da una delle mezzali e passando dal centravanti arrivava all’altra mezzala, l’uomo più avanzato dello schieramento.

La posizione arretrata del centravanti obbligava il terzino sinistro che lo marcava a uscire spesso dall’area. Di conseguenza la mezzala sinistra poteva infilarsi nello spazio lasciato libero, ritrovarsi davanti al portiere e colpire a rete indisturbata. La gente era contenta e gli stadi erano pieni perché i gol fioccavano in abbondanza e assecondavano lo spirito del futebol bailado. Non altrettanto felici erano però gli allenatori delle piccole squadre, che subivano rovesci clamorosi. Per correre ai ripari, uno di loro, Martim Francisco, tecnico del Vila Nova, nel 1951, aveva arretrato un uomo in difesa e uno a centrocampo, arrivando così al 4-2-4. I risultati furono notevoli: il Vila Nova registrò la tenuta della difesa che subì appena 16 reti e vinse a sorpresa il campionato dello Stato del Minas Gerais.

Il 4-2-4 iniziò a farsi conoscere e quando Guttmann lo propose al San Paolo e conquistò il campionato Paulista, il Brasile comprese che poteva essere sperimentato con successo anche nei grandi club. Da lì il passo a Vicente Feola e alla nazionale fu breve. E con quel modulo il Brasile vinse tutto.

Federico Buffa racconta Béla Guttmann

per riuscire a sopravvivere e non morire. Sarebbe quindi alquanto superfluo affliggere i lettori di questo mio libro con dettagli di quel tipo » . Un minuzioso lavoro di ricerca condotto dallo storico David Bolchover nel libro “The Greatest Comeback” ha permesso di ricostruire la sua vicenda. Dopo l’invasione nazista dell’Ungheria a marzo 1944, Guttmann venne nascosto a Budapest dalla moglie cattolica Mariann Moldovanyi in un attico sopra l’appartamento del fratello, proprietario di un salone di bellezza. Tuttavia la sua indole irrequieta e imprevedibile gli fece correre dei rischi assurdi. In più di una occasione uscì per strada e fu fermato dalla Gestapo, riuscendo a cavarsela con un po’ di arguzia e parecchia fortuna. A un certo punto si ritrovò però confinato in un campo di lavoro: forse a convincerlo erano state le parole del Ministro della Difesa Lajos Csatay, che aveva sottolineato come gli ebrei se si fossero sottoposti a dure e faticose attività quotidiane avrebbero avuto più possibilità di salvarsi la vita. Ma la confusione politica e una sconfitta che per la Germania si faceva sempre più imminente spinsero Hitler a destituire i vecchi reggenti (tra cui lo stesso Csatay, che fu catturato dalla Gestapo e si suicidò) e favorire l’insediamento del feroce Ferenc Szalasi. Il passo dal campo di lavoro al lager fu breve per migliaia di ebrei. Non per Guttmann però, che come abbiamo visto, architettò un’ingegnosa fuga insieme a Erbstein e ad altri tre prigionieri. Il padre, il fratello e alcuni nipoti, invece, non furono così fortunati e morirono nelle camere a gas. Al termine del conflitto, Guttmann riprese ad allenare al Vasas Budapest. Pochi mesi dopo si trasferì in Romania, nella squadra ebraica del Ciocanul (ex Maccabi Bucarest). Vista la scarsità di cibo e la crescente inflazione che stavano investendo l’Europa dell’Est pretese di essere pagato in natura con prodotti commestibili. In cambio dotò il club di una struttura all’avanguardia sottoponendo i giocatori ad allenamenti rigorosi. Ma un acceso battibecco con un dirigente lo portò a rassegnare le dimissioni dopo sole 13 giornate. Tornò allora in Ungheria, in quell’Ujpest con cui quasi dieci anni prima si era laureato campione d’Europa e lo condusse a un nuovo brillante successo in campionato. Nell’estate 1947 passò al Kispest, anticamera della grande Honved, dove plasmò alcuni dei futuri assi del calcio ungherese. Tra di loro c’era anche un giovanissimo Ferenc Puskas. I due inizialmente si intendevano a meraviglia, ma l’idillio si ruppe in occasione di una pesante sconfitta per 4-0 subita a Gyor. Per tutto il primo tempo Guttmann dalla panchina se la prese con il terzino Mihaly Patyi, reo di aver commesso errori in serie e di un atteggiamento troppo aggressivo. Nell’intervallo gli​ ordinò di non presentarsi in campo: poco importava che la squadra avrebbe giocato la ripresa in dieci (ai tempi non erano ancora previste le sostituzioni). Pur avendo appena 20 anni Puskas era già il giocatore più influente e di maggior personalità dello spogliatoio e disse a Patyi di restare al suo posto. Il terzino era in imbarazzo, non sapeva che fare, ma alla fine seguì il consiglio di Puskas disobbedendo a Guttmann. Il tecnico ebreo-magiaro non disse una parola, guardò il secondo tempo seduto in tribuna leggendo un giornale e poi se ne andò, lasciando la squadra per sempre. Puskas e Guttmann si chiariranno poi negli anni successivi, quando il tecnico di origine ebraica entrerà nello staff di Gusztav Sebes per disegnare e ispirare la mitica Aranycsapat. Prima di quell’esperienza però Guttmann tentò, con scarso successo, l’avventura italiana. La tappa iniziale fu il Padova, annata 1949-50. L’accordo prevedeva che non percepisse alcun compenso extra salvo dei premi da distribuire ai giocatori ad ogni partita, a seconda delle prestazioni e dei risultati. Sottoposti a durissimi allenamenti atletici, i veneti partirono fortissimo perdendo una sola volta nelle prime 13 giornate. Ma nel ritorno ci fu un brusco calo e Guttmann fu allontanato nel finale di campionato, con la squadra che chiuse al 10° posto. Ancora più travagliata l’esperienza alla Triestina. L’allenatore ebreo-magiaro venne squalificato dalla federazione poiché l’anno prima al Padova pareva essersi intascato dei soldi per l’acquisto del portiere croato Zvonko Monsider. La Corte di Giustizia Federale accolse il ricorso dei friulani e Guttmann poté tornare ad allenarli in tempo per guidarli a una sofferta salvezza. La stagione seguente, 1951-52, partì male e venne esonerato. Dopo aver contribuito tatticamente a dare il via all’epopea della Grande Ungheria, ebbe un primo approccio con il calcio sudamericano, scendendo al Quilmes, seconda divisione argentina. Alla sesta giornata piantò tutti in asso, convinto di raggiungere un accordo con il blasonato Boca Juniors, che però si concluse con un nulla di fatto. Indignato, si rifugiò all’Apoel Nicosia, a Cipro, ma a novembre 1953 rientrò in Italia, al Milan, con cui giunse terzo in campionato. In estate il nuovo presidente Andrea Rizzoli gli regalò Juan Alberto Schiaffino, campionissimo uruguayano, reduce da uno sfavillante Mondiale svizzero. Guttmann seppe coniugare il valore degli interpreti con il suo credo tattico, dando fiducia anche ad alcuni giovani, su tutti il 22enne Cesare Maldini, prelevato dalla Triestina e lanciato titolare nel ruolo di stopper. Nove vittorie nelle prime dieci giornate proiettarono la squadra al comando. Pareva il preludio a un’annata di gloria, ma i rossoneri cominciarono a perdere colpi e la situazione precipitò. Ancora una volta venne fuori​il lato scorbutico e insofferente di

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