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«Arbitro, occhiali!»: le giacchette nere tra insulti e tecnologia

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Da che mondo è mondo, i giudici super partes, i cosiddetti terzi, sono criticati, contestati e perfino odiati E, da che calcio è calcio, anche gli arbitri subiscono lo stesso trattamento. È del tutto ovvio che, in ambo i casi e in tutti gli altri in cui esista una figura preposta a giudicare e a dirimere, è chi ne esce perdente a urlare, strepitare e a mettere in discussione la capacità, l’imparzialità e molto spesso la buonafede di chi emette un parere vincolante.

Se, come è da nostra competenza, circoscriviamo l’argomento all’ambito calcistico, non possiamo esimerci, ancora una volta, da considerare l’evoluzione tecnologica della figura arbitrale, del Super Partes. Una delle proteste, forse la meno becera, rivolta al direttore di gara era, nell’era preinformatica, ‘Arbitro, occhiali!’ e ovviamente chi la lanciava era la tifoseria soccombente e, altrettanto ovviamente, tale invocazione era sommersa da decine di altre che alla malcapitata giacchetta nera non imputavano un semplice deficit oculistico, ma gli attribuivano, e lo fanno ancora, le peggiori abitudini in ambito della propria sfera familiare, compresa quella di genitori, avi ecc. Per svariati decenni, questo andazzo si è ripetuto ogni domenica su ogni campo di gioco di ogni categoria e grado, giovanili comprese. Migliaia di partite ogni fine settimana e migliaia di arbitri, anche giovanissimi, vessati insultati, a volte addirittura picchiati.

Senza voler ripetere la storia del VAR, ci limitiamo a una considerazione che crediamo importante. Innanzitutto, sembra proprio che di tutti gli insulti ricevuti dai fischietti in campo, gli Organi Supremi del Calcio siano intervenuti per correggere l’unico di competenza, diciamo così, scientifica, oggettiva. L’arbitro non vede bene o non vede abbastanza? Diamogli degli occhiali! E, già che ci siamo e che il progresso lo consente, diamoglieli tecnologici, precisi, veloci, che permettano addirittura di tornare indietro nel tempo e di rivedere l’azione sospetta o già incriminata tutte le volte che è necessario. Non solo, si può adesso modificare, rivisto meglio il tutto, una decisione già presa.

E non è ancora finita. L’arbitro sul campo è affiancato da un collega, ubicato in uno studio tecnologico raffinatissimo e situato in un altrove quasi metafisico, con cui può consultarsi e con il quale può prendere decisioni in tranquillità e totale sintonia. Addirittura, e qui siamo all’apice, è il collega davanti al pc con il quale può vedere anche ciò che l’occhio umano dal vivo invece non può, a poter chiamare il collega, tramite interfono perennemente acceso, a controllare, a rivalutare, a rivedere al monitor qualcosa che gli era sfuggito, parzialmente o totalmente. In base a questo nuovo elemento, i due arbitri in sintonia, decidono allora e in modo definitivo se la decisione presa in precedenza vada confermata o corretta.

Tutto giusto? Tutto fatto? Neanche per idea, come tutti sanno. Resta da dirimere – e lo resterà temo per sempre una questione fondamentale e di quasi impossibile soluzione – se debba prevalere l’elemento notato dal vero, dal vivo, o quello oggettivo anche se riprodotto in modo elettronico e da prospettive reali ma irrealistiche allo stesso tempo. Insomma, tanto per capirci, se l’occhio elettronico e informatico trova un particolare che l’occhio umano mai potrebbe vedere, è giusto tenerne conto oppure no? La risposta appunto non è semplice e implica questioni etiche e filosofiche di non poco conto. Come quella, per di più, della fallacia umana che, a nostro modesto avviso, mai potrà essere annullata da una presunta infallibilità meccanica.

Anzi, il paradosso del progresso della tecnica è tale per cui l’infallibilità raggiunta rende l’intervento umano inutile, superfluo, per certi versi perfino dannoso. Ciò che succede da tempo nelle realtà produttive, specialmente in quelle meccaniche di precisione, testimonia in modo anche crudo e eticamente ingiusto che l’elemento umano è stato già espulso dal ciclo. Se non totalmente, almeno al 95%.

È possibile dunque, essendo questa l’evoluzione dei tempi, si arriverà a far arbitrare le partite a macchine informatiche cui non sfugge nulla e perciò infallibili? È possibile, temo. Perdendo però in modo inaccettabile, almeno a nostro parere, l’elemento dell’errore che, a pensarci bene, è l’unico vero discrimine per distinguere il valore del gesto, l’efficacia del colpo, la bellezza dell’azione e, perché no?, l’umanità e la perizia dei giudici. Per i quali, questo è l’unico suggerimento che ci sentiamo di dare, va incoraggiata la sintonia e la stima reciproca introducendo, per esempio, la costituzione di ‘coppie fisse’, magari interscambiabili: uno in campo e uno al VAR di Lissone e viceversa.

L’arbitro è arbitrario per definizione. È lui l’abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l’ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l’arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo, che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento, e il rosso che lo condanna all’esilio.
I guardialinee, che aiutano ma non comandano, guardano da fuori. Solo l’arbitro entra nel campo di gioco e giustamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità del calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.

Eduardo Galeano

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