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Il “Metodo Messi” e l’eccesso di severità con cui si giudicano i calciatori di oggi

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I Mondiali in Qatar hanno chiuso un cerchio, in primis quello di Lionel Messi con la maglia dell’Argentina: al quinto tentativo – e probabilmente l’ultimo della sua immensa carriera – la Pulce è riuscita ad alzare finalmente quella Coppa del Mondo tanto agognata e desiderata, mettendo così a tacere i suoi detrattori – che sono relativamente pochi, ma assai rumorosi e fastidiosi, come vedremo tra poco – sulla sua presunta incapacità di consacrarsi leader e trascinatore in nazionale e di non sapere reggere di conseguenza il confronto con l’altro grande Diez argentino, Diego Armando Maradona, travolgente condottiero della Seleccion alla vittoria dei Mondiali di Messico 1986.

Abbiamo ampiamente commentato su queste pagine l’importanza cruciale del fenomeno di Rosario ai fini della vittoria argentina in termini di giocate decisive – chi scrive reputa il gol di Leo al Messico, con una squadra anemica, imballata e alle soglie di una precoce eliminazione dal sapore amaro del fallimento, come il momento più cruciale del mondiale – e di prestazioni (sublime quella in finale) che non ci ripeteremo ulteriormente.

Ci preme piuttosto sottolineare che i detrattori di cui parlavamo poche righe sopra si sono trovati improvvisamente disarmati. La vittoria finale condita da 5 gol nelle partite ad eliminazione diretta (su 7 totali) di cui una doppietta nella partita più importante, ha fatto crollare il traballante castello di carte della teoria della “sopravvalutazione di Messi”, ossia del fatto che la Pulga nelle partite importanti fosse un pecho frio, un “cuore freddo”, un giocatore senz’anima. 

È paradossale come un giocatore che ha dominato le scene del calcio per 15 anni, infrangendo record su record, collezionando vittorie da protagonista in ogni contesto con la propria squadra di club, sfornando bellezza e magie a getto continuo – la straordinarietà di Messi è essere almeno tre giocatori in uno: lo straordinario funambolo dribblomane, l’implacabile e il chirurgico cecchino sotto porta, l’etereo regista che vede linee di passaggio precluse ai mortali – debba essere giudicato dalle ultime partite di un Mondiale o da una finale, dove una vittoria o una sconfitta condizionano ingiustamente il giudizio, al di là delle singole ed effettive prestazioni.

Che da Messi si volesse una cosa sola, ossia la vittoria da protagonista e trascinatore – dimenticando che il calcio è uno sport di squadra e all’interno di una partita ci sono infinite variabili che non dipendono solamente dalla prestazione del singolo giocatore – mi è parso evidente nelle due finali di Coppa America 2015 e 2016, entrambe perse dall’Argentina ai rigori contro il Cile: nella prima finale Messi fu oggettivamente un fantasma per quasi tutto l’incontro, realizzò il rigore nella serie finale ma non bastò; l’anno dopo invece giocò una finale più pimpante e vispa, almeno in parte, ma sbagliò il rigore nella serie finale. Per quanto le due prestazioni fossero diverse nella sostanza, e fossero altrettanto differenti i motivi delle rispettive sconfitte dell’Argentina, l’effetto finale fu lo stesso: una tempesta di critiche feroci e spietate, che portò all’addio (poi rientrato) di Messi alla nazionale argentina.

Cristiano Ronaldo deluso

Ho personalmente soprannominato questo illogico, spietato, ingeneroso metro di giudizio “metodo Messi”, perché nato e creato negli anni in cui la Pulce e Cristiano Ronaldo (protagonista “ombra” di questo articolo e per certi versi accostabile al suo eterno rivale) si prendevano le luci della ribalta: contano solo le ultime partite di un Mondiale, di un Europeo, di una Champions League, in un’epoca in cui paradossalmente abbiamo a disposizione una quantità infinita di modi per vedere ogni partita di ogni giocatore, dal campionato alle coppe, passando per la nazionale, salvo poi inevitabilmente basare il proprio giudizio su quel pugno di partite, che – per quanto importanti e decisive – sembravano costituire l’unico metro di giudizio per promuovere o bocciare in toto un calciatore.

Sappiamo benissimo che le partite vanno “misurate”, i gol si contano ma soprattutto si “pesano”, e che un fuoriclasse emerge nei momenti importanti, e condividiamo in pieno questo assunto. Ma non bastavano le quattro Champions (in realtà tre, perché la prima del 2006 vede in Messi un talentuoso comprimario, seppur di lusso), gli innumerevoli campionati vinti (non solo da stella tra le stelle, come avveniva nella prima parte della sua carriera, ma anche con squadre in declino e in disarmo come quelle post 2017), le infinite grandi prestazioni europee e intercontinentali per convincere gli scettici, i “san Tommaso” e, più banalmente, i suoi detrattori?

Persino con la maglia dell’Argentina, seppure mancasse il “colpo grosso”, i grandi momenti non sono mancati: un paio di tornei da protagonista (Coppe Americhe 2016 e 2021), sprazzi di momenti decisivi (gironi dei Mondiali 2014, qualificazioni ai mondiali di Russia 2018 e 2021), record di gol – il secondo è Batistuta, che nella classifica marcatori della Seleccion si trova a distanze quasi siderali da Lionel.

È proprio per questo motivo che il sottoscritto reputa Messi uno dei primissimi giocatori della storia – il dibattito sul G.O.A.T. lo lasciamo ad altre sedi e circostanze, sempre che abbia senso farlo – e forse il giocatore con la migliore carriera in assoluto: per la sua continuità nella centralità delle vittorie, in ogni contesto e con diverse tipologie di compagni di squadra e di ambiente – non è esistito solo il Barcellona di Guardiola con Xavi, Iniesta e con il gioco del “tiki taka”, ci sono stati anche i Griezmann spaesati, i Dembelé, i Coutinho, i Suarez al tramonto, gli Arthur involuti e scaricati.

Venendo al dunque, credo che l’eredità di questo “metro di giudizio” non può che essere tossica, nociva, lontana dal buonsenso e dalla capacità d’analisi dell’insieme, e gli effetti li stiamo già vedendo. Neymar è il primo a venire bistrattato: i suoi innumerevoli infortuni nelle fasi cruciali della stagione, uniti ad un’aurea ampliata dai social e dalle community di internet di un personaggio sicuramente poco umile e simpatico, lo hanno reso agli occhi di buona parte degli appassionati un incompiuto, quasi un “talento sprecato”. Incredibile a dirsi, se consideriamo che a 30 anni d’età ha segnato più di 400 gol in carriera e in contesti pesanti (Mondiali, Coppa America, Champions League, big match di campionato).

Neymar in lacrime dopo l’eliminazione del Brasile

Kylian Mbappé è un altro a cui la critica non aspetta altro che tirare pietre, come ha già fatto in occasione dell’eliminazione della Francia dagli Europei 2021 e nella finale di Champions League persa contro il Bayern Monaco nel 2020. Evidentemente due Mondiali da trascinatore e i tanti big match europei decisi dalle sue giocate e dalle sue reti (Champions League 2016/17 con il Monaco, ottavi e quarti di Champions 2020/21, i gol al Real nella Champions 2021/22, prima del black out di squadra che spiana la strada al Real di Ancelotti, tanto per dirne tre) non bastano ancora. Sembra quasi che serva solo una grande cavalcata, con tanto di vittoria finale, ovviamente.

E sarà così anche per gli altri, da Foden ad Håland, da Pedri a Gavi, da Bellingham a Musiala.

Mi si obbietterà che il calcio è cambiato, che negli ultimi decenni abbiamo assistito a una enorme concentrazione di soldi e di risorse (e di conseguenza, anche di talenti a disposizione) nei top club europei, con il conseguente “svuotamento” dei campionati a vantaggio della Champions League, dove le squadre migliori si possono permettere i giocatori migliori in ogni ruolo, e che dunque il vero banco di prova è quello. Non lo nego, per quanto anche le vittorie in campionato restano un segno di grande prestigio, soprattutto se si tratta di campionati competitivi con avversarie toste, dove basta un pareggio o una sconfitta di troppo per compromettere la propria posizione in classifica, e dove a volte nemmeno una “quota” sopra gli 85 o 90 punti è garanzia della vittoria del titolo.

Credo tuttavia che si tratti per lo più di un cambiamento di approccio nella considerazione del giocatore. Sono abbastanza grandicello per ricordare Ronaldo e Zidane, due che giocando insieme per quattro anni hanno raccolto solamente un campionato e raggiunto una sola volta la semifinale di Champions, senza venire per questo svalutati e/o crocifissi annualmente con la stessa veemenza in cui si sono messi in discussione Messi e Cristiano Ronaldo, o gli altri giocatori di oggi.

Ronaldinho viene tuttora giustamente celebrato per il suo biennio 2004/06, fino all’inizio dei mondiali in Germania, dove era indiscutibilmente il giocatore più forte del mondo, ma se vogliamo fare le pulci anche a lui possiamo evidenziare come in finale a Parigi fu tutt’altro che indimenticabile, così come al Camp Nou contro il Milan, e che le giocate decisive sono state piazzate da altri, ma è giusto ragionare in questo modo?

E così via, da Baggio a Bergkamp, fino a Laudrup e a Garrincha, e ancora più indietro. Smonteremmo praticamente tutti, o quasi.

Personalmente, per dare un giudizio sui giocatori seguirò sempre una bussola, con i seguenti punti cardinali: cosa fa un giocatore con la palla tra i piedi, quanto sposta, per quanto tempo, in quale contesto. Lo ritengo più affidabile di un “metodo-ghigliottina”, al quale basta una partita per gettare nella polvere chi fino ad un momento prima splendeva sull’altare.     

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