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Garrincha, l’Angelo dalle gambe storte

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Quella di Garrincha è una storia triste. È la storia di come un bimbo pelleossa e dalla schiena storta che cresce tra i fiumi e le foreste tropicali di Pau Grande diviene, in pochi anni, una figura mitologica dello sport più amato del mondo.
E’ la storia di un bambino che passa tutta la sua giornata tra alberi e fiumiciattoli, cacciando e pescando come un vero abitante della giungla. Sin dalla più tenera la sorellina Rosa ravvisa l’incredibile somiglianza di Manoel con un passerotto che vive in quelle zone , il “garrincha” (o cambaxirra), nomignolo che gli resterà incollato per tutta la vita.


“ Capitano, quando la giochiamo la partita di ritorno? ”

Garrincha, rivolgendosi a Bellini, il capitano, dopo la vittoriosa finale contro la Svezia (1958)


Fin dalla più tenera età Mané vive in stato semi-selvatico, in un ambiente degradato tra droga, alcool e tabagismo. Il pallone è la sua unica via di fuga: il giovane Manoel infatti dimostra una naturale abilità con la sfera ai piedi, specialmente nel gesto tecnico del dribbling. Nessuno, neanche i ragazzini più grandi, riesce a togliergli la palla.
A 12 anni, in terza media, interrompe agli studi, e qualche anno dopo inizia a svolgere i primi lavoretti. A 16 anni lavora in una fabbrica tessile del luogo: nel lavoro è caotico e indisciplinato, esattamente come quando gioca a calcio nella squadra amatoriale della fabbrica. Rifugge gli schemi, le tattiche, pensa solo a divertirsi.
Inizialmente venne schierato trequartista, ma dura poco: dopo poche partite viene spostato sulla fascia destra, la sua vera casa.
In pochi mesi il suo nome è sulla bocca di tutti, e gli osservatori delle squadre locali cominciano ad accorgersi di lui. Molto giovane, neanche maggiorenne, viene ingaggiato dal Cruzeiro do Sul di Petrolis e, dopo un anno gioca nel Serrano.

Un episodio che risale a questi anni ne dimostra tanto l’abilità quanto la popolarità acquisita: durante una partita tra Grêmio de Raiz da Serra e Pau Grande, Garrincha, che non aveva disputato un buon primo tempo, viene ripetutamente insultato dai giocatori avversari. Nella seconda parte dell’incontro, iniziata con il punteggio di 0-0, dribbla l’intera squadra rivale partendo dalla propria area di rigore ed effettuando un assist finalizzato poi da un compagno; un avversario irritato lo ferma con un fallo, subendo non solo un’espulsione, ma anche un tentativo di linciaggio da parte dei suoi stessi tifosi, i quali nutrono grande ammirazione per Garrincha nonostante sia un giocatore del club avversario. La partita termina 6-0 per il Pau Grande. Il tempo passa, e Garrincha ha 18 anni: le sue abilità calcistiche sono ormai alla luce del sole ormai, ma il giovane non sembra interessato ad una carriera da professionista.

Sono i suoi amici che lo costringono a fare provini per diverse squadre. Il primo lo realizza con il Vasco da Gama, ma non viene ingaggiato perché si dimentica gli scarpini a casa.
Fallisce anche i provini con il São Cristóvão e la Fluminense. Non si impegna Garrincha, per lui il calcio non è un lavoro, ma solo una passione: sul rettangolo di gioco esprime e lascia libero tutta il suo estro, la sua genialità, la sua indole da giocoliere.

Nel 1951, a 19 anni, la sua vita – però – cambia radicalmente. Manoel effettua un provino con il Botafogo: dopo aver impressionato nella squadra riserve, l’allenatore di quest’ultima decise di fare un test prima squadra vs. squadra riserve, con Garrincha militante in quest’ultima. Il suo diretto avversario è lo straordinario terzino sinistro Nilton Santos, leader del Botafogo e della Nazionale Brasiliana, nonché uno dei terzini più forti di sempre. Durante la partita Garrincha umilia ripetutamente Nilton, sgusciandogli via diverse volte e, addirittura, concedendosi il lusso di fargli diversi tunnel. Nilton Santos rimane così colpito da questo giovanotto che, così si racconta, ne parla direttamente con il presidente chiedendogli di tesserarlo. Ha così inizio la carriera professionistica di Manoel Francisco dos Santos, al secolo “Garrincha” o “Manè“.
E pensare, che secondo i medici, lui non avrebbe mai potuto giocare a calcio. Il suo referto medico doveva risultare più o meno così:

” (…)il giovane è affetto da un leggero strabismo, ha la spina dorsale deformata, uno sbilanciamento del bacino, sei centimetri di differenza in lunghezza tra le gambe; il ginocchio destro affetto da varismo mentre il sinistro da valgismo nonostante un intervento chirurgico correttivo. Per via di tale malformazione — dovuta probabilmente alla poliomielite o alla malnutrizione — il giovane Manoel Francisco dos Santos è dunque dichiarato invalido, e gli è assolutamente sconsigliata ogni tipo di attività fisica agonistica, come il calcio”.



Quanto si sbagliavano. Quello che era il suo difetto divenne invece suo punto di forza. La sua finta con la gamba più corta divenne leggendaria, e non c’era avversario che riuscisse a fermarlo con le buone o le cattive . Sulla fascia destra era una vera furia: un tripudio di finte, controfinte, tunnel, scatti, giravolte. Garrincha ERA il dribbling, l’espressione di fantasia più naturale del calcio. Ma non era solo questo: era un giocatore rapido, agile, con un tiro potente e preciso e un cross al millimetro. In 581 presenze con il Botafogo, raccolte nell’arco di dodici anni, mise a segno qualcosa come 232 reti: un’enormità per un’ala pura come lui . Era anche un incredibile tiratore di punizioni e di calcio d’angolo, che calciava spesso con l’esterno del piede, imprimendo grande effetto e traiettorie imprevedibili al pallone. Gli unici suoi punti deboli erano di natura tattica e disciplinare, ed è questo il motivo per cui l’allenatore del Botafogo, Mister Joao Saldanha lo lasciava libero di fare quel che voleva sul rettangolo di gioco.
La carriera in nazionale di Garrincha fu altrettanto impressionante. Con lui e Pelé in campo la nazionale Brasiliana non perse mai: in 40 partite giocate assieme 35 furono quelle vinte e 5 le pareggiate. 

Il Mondiale del 1958, che lo consacrò, lo vide saltare le prime due partite per futili motivi (si parla di razzismo da parte di alcuni dirigenti brasiliani, secondo i quali i giocatori bianchi erano più “adatti” ad affrontare alcuni avversari più educati tatticamente): le ultime partite però Garrincha le giocò da titolare. E diede spettacolo. Nei match in cui scese il campo lasciò subito il segno, saltando avversari come birilli e fornendo diversi assist decisivi (come i due al centravanti Vava nella finalissima contro la Svezia). Dopo la finale contro la nazionale scandinava , mentre tutti i compagni piangevano dalla gioia tranne Garrincha, totalmente confuso e non cosciente di quanto stava accadendo, chiese al capitano della squadra, Bellini, “ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”

Dopo la partita contro il Galles, il terzino che marcò Garrincha affermò: «Credo che fosse più pericoloso di Pelé a quel tempo. Era un fenomeno, capace di pura magia. Era difficile capire in quale direzione stesse andando per via delle sue gambe e perché era a suo agio col piede sinistro come con il destro, quindi era in grado di tagliare verso l’interno o andare verso il fondo e, inoltre, possedeva un tiro tremendo».

L’apice della carriera de Il Chaplin del calcio e Alegria do Povo (Allegria del Popolo), come era conosciuto all’epoca, fu raggiunto però nel successivo mondiale, nel 1962. Pelé, la stella più luminosa del Brasile, si infortunò all’esordio dopo diversi interventi fallosi nei suoi confronti. Fu Garrincha a trascinare di peso il Brasile alla vittoria della Coppa del Mondo a suon di goal e assist, figurando inoltre anche capocannoniere e miglior giocatore della competizione. Durante la partita contro la Cecoslovacchia fu addirittura predisposta per lui una tripla marcatura a uomo, cosa mai vista fino a quel momento. Fu tutto inutile: la stella di Mané rifulse come non mai. Probabilmente, insieme a Maradona, è il giocatore che seppe fornire prestazioni individuali così determinanti da permettere alla squadra l’agognata vittoria della Coppa del Mondo.

Un curioso episodio, relativo a questi anni, rivela probabilmente la sua vera natura: si dice che l’allora presidente brasiliano (altre fonti parlano del governatore di Rio), dopo la prestigiosa vittoria della nazionale ai mondiali di calcio, convocò tutti i giocatori verdeoro per complimentarsi con loro personalmente e sommergerli di regali: c’è chi chiese una macchina, chi soldi, chi una casa. Arrivò il turno di Garrincha«Allora, cosa ti piacerebbe avere?» gli chiese il presidente. Mané ci pensò su, poi guardò un uccellino rinchiuso in una gabbia che il presidente teneva nel suo studio. «Signor Presidente, mi piacerebbe tanto che liberasse quell’uccellino (alcune voci dicono fosse proprio un “garrincha”, uccellino da cui prende il nome il giocatore). Sì, questo è il mio desiderio».

Nei primi anni ’80, ormai ritirato dal calcio professionistico, Garrincha si trasferì in Italia, a Torvaianica, con la sua compagna dell’epoca, Elza Soares.
Il suo declino è evidente: ha ripreso a bere con preoccupante frequenza, è ingrassato, ha problemi di salute e – pur di tirare su qualche spicciolo – diventa uomo immagine dell’Istituto Brasiliano del Caffè in Italia.

E riprese a giocare.
Sì, avete letto bene. Manoel Francisco dos Santos, in arte “Garrincha“, l’ala destra più forte della storia del calcio, vincitore di due titoli mondiali da protagonista, firmò per la squadra del Sacrofano, un paese di 2000 anime nei pressi di Roma. All’epoca militavano in Prima Categoria (oggi sesta serie nazionale), ed erano allenati da Dino da Costa, amico di Manoel nonché vecchia gloria del calcio brasiliano e della AS Roma. Fu lui che lo convinse a firmare. Non si sa bene quante partite disputò, ma quello che si sa è che un Garrincha ormai appesantito e fuori forma trascinò di peso la squadra alla vittoria di un quadrangolare con due goal da calcio d’angolo e regalò spettacolo e lampi da fuoriclasse.

C’è chi giura addirittura di averlo visto scambiare due passaggi con dei ragazzini a Campo de Fiori il sabato sera. E io ci credo. Perché Mané, in fondo, è come un bambino intrappolato in corpo adulto: un anima pura, innocente, e per questo totalmente senza difese dall’enorme successo che l’ha travolto come un maremoto, dai falsi amici che l’hanno circondato quando era lassù ma l’hanno presto abbandonato, dalle donne che l’hanno usato, dai vizi. Vizi che purtroppo Mané si portò appresso per tutta la vita: l’alcool e il fumo su tutti.

Telmo Zanini afferma nel suo “Manè Garrincha“: «(…) egli visse i suoi ultimi venti anni totalmente avulso dalla società. Affondò nell’alcolismo, restò incapace di rapportarsi con ognuno dei quattordici figli che lasciò sparsi  per il mondo. Bistrattato dalle compagne, sveniva per le porte delle osterie, dormiva per i marciapiedi, era accolto da omosessuali e sopravviveva solamente grazie ai favori e alla filantropia del potere pubblico».

Garrincha al Sacrofano

Fu in una brutta sera del gennaio 1983, dopo che aver bevuto per tre giorni di fila, che un’edema polmonare se lo portò via. Mané spiccò il suo ultimo volo.
Manoel Francisco Dos Santos, al secolo Garrincha, più di ogni altro giocatore fu amato dai brasiliani per la sua ingenuità, per il suo sorriso sincero, perché il calcio era stato al tempo stesso la sua salvezza e condanna.

Concludo con un proverbio brasiliano: «Ancora oggi, se chiedi ad un vecchio Brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange».

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