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Ciao, scandinavo latino. Omaggio a Sven-Göran Eriksson

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Arriva la notizia della scomparsa di Sven-Göran Eriksson mentre sto scrivendo di un suo collega appena più giovane, Claudio Ranieri. Arriva improvvisa come uno sparo, ma attesa come un’esecuzione annunciata. Scrivo di questo e penso a quello. Mi diventa quasi naturale riflettere su un possibile parallelo tra i due e penso subito alla straordinaria gentilezza e alla imperscrutabile signorilità che li accomunano.

Prima che la sordida malattia trasfigurasse, gonfiandolo, il viso di Sven, anche i tratti somatici eleganti erano un fattore comune, così come la loro cultura internazionale, calcistica e non, ne faranno per sempre due uomini multiformi e poliedrici, con mille radici e nessuna vera tra esse.

Eriksson ai tempi dei Goteborg

A vederli accostati sembrano due lord inglesi, come effettivamente sono diventati, ma pure due signori di Stoccolma o, meglio, due amici di Trastevere. Uno romanista e l’altro laziale, giunto però nella Capitale per allenare proprio i giallorossi, prima di trasferirsi sull’Arno, dove qualche anno dopo approderà proprio Ranieri.

Le altre due esperienze comuni sono state la Sampdoria, molto positiva per lo svedese e il Leicester, indimenticabile per il romano. Mai, però, le rispettive panchine si sono toccate o accavallate, ma uno ha rimpiazzato l’altro. E non mi sembra abbia senso nemmeno andare a vedere quando e quante volte si sono affrontati.

Eriksson il giorno della festa dello scudetto alla Lazio

La prendo alla larga, perché parlare del dolore non mi piace. Nemmeno quando, come in questo caso, si tratta di un dolore appunto largamente annunciato, di un lutto previsto a scadenza imminente. Tutte le volte ci casco, è un mio limite anche quando il coinvolgimento affettivo non è altissimo. Tutte le volte penso naturalmente a qualche esagerazione negativa o a qualche nascosto elemento salvifico dell’ultimo momento. Spero nella nebbia, nel rinvio a data da destinarsi: l’ho sperato per mio fratello, per quella zia lontana, per Vialli e anche per Eriksson, travolto e depistato dal suo modo spettacolare e molto nordico di andare lui a salutare tutti.

Prepararsi per queste cose tristi e inevitabili, specie se precedute da ultimo avviso, è pratica saggia ma a me sconosciuta o impossibile da praticare. E, dal momento che scrivo di persone in tutte le loro forme esistenziali, ciò può essere vista come una lacuna, una leggerezza, una scarsa previdenza.
Ma, chiedo scusa, non mi ero preparato. Io il ‘coccodrillo’ su Sven-Göran Eriksson preferisco farlo sgorgare adesso, a notizia appena battuta, parlando degli aspetti della sua magnifica storia quando si è appena conclusa, una volta appurato che la clamorosa sorpresa di cui parlavo nemmeno stavolta si è avverata.

Ed è un coccodrillo asciutto, come si conviene fare per il più latino degli scandinavi e per il più glaciale dei calienti di sangue, un uomo cui la vita e il calcio hanno dato tutto in cambio, come sempre, del tempo e forse di qualche rimpianto, un uomo cui poi la vita stessa, come sempre, ha tolto tutto, ma non quel sorriso divertito e soddisfatto che si è portato con sé fino all’ultimo.

I giornali on line di oggi e quelli in carta di domani sono e saranno colmi di dati, date e statistiche bagnate di lacrime di stampa forse perfino sincere e il suo curriculum sarà snocciolato facendo da sottofondo a mille aneddoti narrati da colleghi, collaboratori, discepoli e subalterni in una girandola di elogi senza ombra e di rievocazioni di successi che solo il fato cinico e baro ha voluto non essere molto più numerosi. Quello stesso fato che una mattina di gennaio di quest’anno, toccandolo su una spalla mentre camminava tranquillo, gli ha sussurrato: «Ehi, grand’uomo, preparati. Fra un po’ si va».
Ciao, Sven. Grazie di cuore.

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