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Sir Claudio Ranieri, da capitano del Catanzaro a baronetto di Leicester

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Non molto tempo fa, occupandomi di Klopp per tracciarne un ritratto, mi sono imbattuto in una tra le più singolari carriere di allenatore che abbia incontrato avendo il carismatico Jurgen guidato solo tre squadre: il Mainz e il Borussia Dortmund in Germania e il Liverpool in Inghilterra. Certo, vista l’età, 57, è ipotizzabile che la sua carriera non sia affatto conclusa, ma fa comunque effetto vedere la tabella riassuntiva del suo curriculum formata da sole tre tacche, specialmente per un tecnico della sua fama, del suo carisma e dei suoi successi. E specialmente se paragonata anche a quella di molti suoi colleghi, come per esempio di Claudio Ranieri, di cui mi accingo a occuparmi.

È pur vero che il nostro baronetto di borgata di anni ne ha un po’ di più, 73, e che di questi ne ha passati quasi 40 a guidare squadre di calcio contro gli appena 23 del tedesco, ma resta comunque impressionante, se messe vicine, il confronto tra il numero di esperienze diverse tra i due. Delle tre di Klopp si è già detto, ma il numero di quello di Ranieri è veramente da non credere: 24!! Al di là di questa enorme discrepanza, sono invece molteplici gli aspetti che accomunano questi due grandi tecnici il più evidente dei quali, perla quasi rarissima nel mondo del pallone, è la grande educazione, la signorilità dei modi accostata da un’intelligenza che ne impreziosisce ulteriormente il profilo.

Pochi giorni fa è scomparso senza coglierci di sorpresa, ma lasciandoci sgomenti per vuoto e dolore diffuso e condiviso, un altro baronetto del Calcio: Sven Goran Eriksson, altro fulgido esempio di signorilità. Mi fermo un attimo, in silenzio…

Torno alle nostre note. Senza voler offendere nessun singolo o alcuna popolazione o tifoseria, possiamo sostenere che Ranieri sia un romano atipico, un romanaccio di borgata, appunto e per giunta romanista, la cui compostezza di modi, il cui aplomb britannico, esibito peraltro molto prima di allenare in Inghilterra, fanno a pugni con il cliché, abusato fin che si vuole ma anche piuttosto aderente alla realtà, con cui siamo abituati a riconoscere i capitolini doc, caciaroni quanto pittoreschi, specialmente se di fede giallorossa.

Ranieri è stato soprattutto un camaleonte sincero, lontano dall’opportunismo e dalla faciloneria, uno che ha cambiato mille bandiere interpretando però quasi sempre il ruolo di alfiere designato, di portabandiera naturale. La sua serietà, prima ancora del suo essere professionista, lo ha portato anche da giocatore a spendere tutto se stesso per la causa, per la maglia. La sua carriera da giocatore, piuttosto breve essendo durata tredici anni, lo ha visto indossare solo quattro casacche, tre se escludiamo quella della Roma con cui esordì ma con cui giocò solo sei gare: Catanzaro, Catania e Palermo, tre compagini quindi del profondo Sud.

Claudio Ranieri da calciatore, simbolo del Catanzaro anni ’80

Parliamo di un periodo a cavallo tra la metà degli anni settanta alla metà degli ottanta e la maglia della squadra calabra, non a caso giallorossa come quella da lui amata fin da bambino, è diventata la sua seconda pelle fino a diventarne l’indiscusso Capitano, oltre che il giocatore con il maggior numero di presenze in Serie A.

Era un Catanzaro abituato in quegli anni a fare la spola tra massima serie e cadetteria e nella quale le figure più rappresentative e note erano Gianni Di Marzio, allenatore loquace, e Massimo Palanca, attaccante famoso per i gol impossibili. Un Quagliarella ante litteram, insomma. Al di là, però, di queste figure carismatiche o di altre poi diventate famose, come il Turone della “questione di centimetri”… o di Menichini, altro futuro romanista, la fascia di Capitano era sempre al braccio di questo giovinotto moro, scuro di carnagione e con un cespuglio folto in testa.

Ero ancora un collezionista di figurine, cosa anomala visti i miei vent’anni suonati e visto che allora quella pratica era considerata “roba da bambini”, ma mai avevo fatto caso al fatto che questo Claudio Ranieri non fosse di Catanzaro, o almeno calabrese. Me ne accorsi solo quando nell’83 lo trovai con la magli rosso azzurra del Catania. Avevo trent’anni, e facevo ancora la raccolta delle figurine, anzi, diciamo che la facevo già, dal momento che anche adesso che ho valicato i settanta me ne diletto con sommo godimento.

Claudio Ranieri ai tempi della Roma

Tutto questo per dire che Sir Claudio era già così fin da giovane, fin da calciatore: un uomo capace di amare profondamente la propria piazza e, nel contempo, di essere amato da essa nel presente e nel futuro. Ciò che capitò a Catanzaro cinquant’anni fa, si è ripetuto poi infatti puntualmente in quasi tutti gli ambienti in cui ha allenato in una carriera che, come si è già detto, è stata lunghissima e molto variegata. Quasi tutti, perché il carattere, la signorilità e l’onestà intellettuale, lontanissima da certe logiche di potere di quest’uomo senza compromessi, l’hanno fatto amare più delle tifoserie e da quelle realtà abituate a lottare nelle retrovie che in quelle, pur frequentate, dove gli obiettivi erano più alti o più altisonanti. È un po’ come se il marchio del Catanzaro non l’abbia mai lasciato.

Eppure, si diceva, il suo valore e i suoi risultati hanno convinto molte piazze importanti, in Italia e all’estero, a rivolgersi a lui, specialmente per risollevarsi da crisi prolungate o inspiegabili. È il caso di Juve, Inter, Napoli, Fiorentina, la stessa Roma in Italia e di Atletico Madrid, Chelsea, Valencia e Monaco fuori confini.
Da tutte queste esperienze, Ranieri è uscito a testa alta, senza lasciare gloria ma neppure detriti. Ben diverse sono le sue avventure nei piccoli club, in quelli dove si lotta per una pagnotta magra e dove il successo è spesso rappresentato dal salvare la pelle. A Cagliari, dove ha condotto la prima panchina nell’88 e dove poi ha concluso la carriera quest’anno, gli intitolano grati vie e giardini come a Gigi Riva, nella Genova blucerchiata il suo nome è luminoso e intoccabile.

Ultima esperienza in panchina: Claudio Ranieri che salva il Cagliari in Serie A

Al di là, quindi, della sua longevità e della caratteristica di aver giocatoo tutti e quattro i derby storici del nostro Campionato, ma soltanto su una delle due panchine (Roma, Juve, Inter e Samp), l’epicità di Claudio si lega sempre al sudore dei bassifondi, ai calcoli per non annegare o per risalire, allo sporcarsi ogni indumento mantenendo intatto l’aplomb e la testa alta di chi è rimasto onesto e ha fatto tutto il possibile.

Ma c’è un’anomalia nella vita di questo straordinario signore. Un’anomalia impensabile prima che succedesse, improbabile, irreale e bellissima mentre succedeva, incredibile, ai limiti del leggendario, ancor oggi che è successa, storicizzata e resa indimenticabile da chi da vicino l’ha vissuta. Nel 2014, dieci anni fa, Ranieri corona il suo sogno, ancora attuale in verità, di guidare una Nazionale e risponde all’invito della Federazione greca. Non è un’esperienza felice e il soggiorno ellenico si conclude dopo pochi mesi, rischiando di costare al tecnico romano un periodo di crisi per mancanza di autostima, ma, come si sul dire, quando si chiude una porta, spesso si apre un portone.

Quando nel luglio del 2015, i dirigenti del Leicester lo chiamano a sostituire Nigel Pearson, a Claudio più che un portone appare uno spiraglio, anche angusto, ma forse scatta e riaffiora in lui l’antica foga catanzarese. Del resto, questa pugnace, storica ma piccola società inglese assomiglia più alle nostre Catanzaro, Cagliari e Samp che non a Juve, Inter, Milan ecc.

Ciò che accade nella Premier 2015/2016 è qualcosa di inatteso, clamoroso e impossibile da credere nello stesso tempo e anche noi italiani, che avevamo già assistito agli exploit di Lazio, Verona, Fiorentina e Cagliari, rimaniamo senza parole. Questo miracolo sportivo, per dimensione, bellezza e umanità, supera ogni precedente. Quell’umanità, fragile e fortissima nello stesso tempo, ha la figura diritta come un fuso del vecchio Capitano del Catanzaro, del romanista romanaccio che ha l’ironia con la sintassi corretta, del Baronetto felice che fa finta di avere il raffreddore per camuffare l’acquolina agli occhi. È il trionfo dell’umiltà e del lavoro pulito, è l’apoteosi di un sogno che si è realizzato prima ancora di nascere.

Quel trionfo, quella vittoria in barba a tutto e a tutti, non ha però cambiato di un centimetro la statura di Ranieri, non gli ha cambiato la testa, il cuore e il carattere. Ed è tornato, se mai l’aveva smesso a essere se stesso. Uomini così, come anche Klopp, come era Eriksson, sono più forti delle cose che fanno. E sono più veri delle cose che si ricorderanno di loro. Molto più veri.

La grande impresa di Ranieri: lo scudetto vinto a Leicester

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