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Fabio Quagliarella, l’artista e il girovago del gol

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Ritiratosi due mesi fa a 40 anni suonati, Fabio Quagliarella merita di apparire nel novero di quei giocatori italiani, non molti in verità, che possiamo definire ‘sempre utili alla causa’. A mio avviso, esiste una categoria di giocatori che non sono certo stelle, non sono nemmeno satelliti e men che meno meteore e che, proseguendo nel lessico astrale, si possono definire pianeti, duri e concreti, mobili ma ben piantati. Elementi poco appariscenti sul piano sempre affollato dell’iperbole e della possibile consacrazione, ma che quando ricompaiono, magari dopo qualche appannamento, ci si accorge che non erano mai spariti e nemmeno nascosti. E che quando si decide che ‘no, non meritano di stare lassù, nell’Olimpo degli irrinunciabili’, mille sono i dubbi e i ripensamenti, spesso cifre alla mano, che rendono quell’esclusione difficile fino all’ultimo e anche oltre.

Quagliarella ha avuto una carriera lunghissima, quasi tutta in Serie A e, come si diceva, ovunque andasse sposava in toto la causa e si dimostrava l’elemento giusto per raggiungere gli obiettivi. Della squadra più che propri: utile, concreto, perfino fondamentale. Ha vinto scudetti ed evitato retrocessioni con lo stesso piglio, la medesima abnegazione. È stato bandiera, è stato amato, è stato riaccolto anche, e in luoghi diversissimi tra di loro o in ambienti apparentemente non conciliabili. Per esempio, a Torino è stato ben quattro volte: tre sulla sponda granata, quella tra l’altro dove ha fatto la gavetta delle giovanili, e una, l’unica ricca di trofei, sul fronte juventino. Ha segnato dappertutto e ha fatto caterve di gol, anche alle sue ex squadre e quasi sempre con la naturalezza di chi conosce bene il proprio mestiere e il suo valore. Solo una volta, ma ne parleremo più avanti, non ha esultato e questo gesto, o mancato gesto, gli è costato caro sul piano umano.

Fabio Quagliarella in maglia Juventus

Giocatore utile e concreto si diceva, eppure, anche questo lo vedremo, estremamente fantasioso e calcolatore, un calcolatore però anomalo, senza freddezza. Un calcolatore caldo, partenopeo nel cognome, nelle fattezze e nel cuore. Come i lettori avranno capito, a me piacciono molto i calciatori ossimorici, quelli cioè in grado di far coesistere nel proprio essere due caratteristiche opposte, due peculiarità inconciliabili e di farne sintesi proficua. Fabio è stato forse il giocatore italiano più emblematico in questo senso, anche se la sua caratteristica più evidente, più famosa, la prima che viene alla mente quando si pensa a lui, è quella legata ai gol impossibili, e bellissimi, che riusciva a fare.

Erano gol difficili pure solo da immaginare e anche molto diversi tra di loro: pallonetti da metà campo, girate al volo in corsa e in diagonale, colpi di tacco ‘no look’, rovesciate senza far intuire il colpo sul pallone e tanti altri, uno più assurdo dell’altro. Ma erano talmente frequenti, anche se molto vari appunto, che l’allocuzione ‘rete alla Quagliarella’ è divenuta corrente nel lessico degli addetti al lavoro del pallone e che, quando una di queste accedeva, nessun cronista e nessuno spettatore poteva immaginare che quel gesto fosse stato fortuito, non casuale, anche solo tentato. Quanta differenza, giustamente, a cambio d’autore! Poche settimane fa, per esempio, Dimarco, esterno del’Inter che pure non è l’ultimo arrivato in trovate balistiche, ha realizzato un gol da posizione defilata sulla linea di centrocampo contro il Frosinone. Ha fatto un gol alla Quagliarella, appunto, ma la domanda è: l’ha fatto apposta? L’ha cercato davvero? Si è aperto, da subito, un dibattito sulla questione che, però, non ha ancora dato un risultato certo, e non lo darà mai. Quello che è certo. è che se quella prodezza l’avesse fatta lui, Fabio o’scugnizz, nessuno avrebbe messo in dubbio quell’intenzione. Anzi, sarebbe stata solo la sua ennesima perla, forse perfino un po’ scontata, quasi già vista

Scherzo ed esagero, naturalmente, ma è solo per rimarcare un marchio di fabbrica peraltro notissimo. Meno noto, forse, è il modo con cui con cui questa icona vivente della beffa geniale e impossibile abbia affinato questo suo talento. L’ha rivelato lui stesso in un’intervista di poco tempo fa: lui, a dimostrazione di un’intelligenza scaltra, viva e concreta, ha sempre studiato i portieri, fin da giovanissimo. Li osservava in tv o dal vivo, parlava in allenamento con quelli della propria squadra con l’intento, non tanto di carpirne i segreti individuali come fanno i rigoristi, ma di coglierrne la mentalità comune, il vizio del ruolo in senso generale, il punto debole ritenuto punto di forza. I suoi gol più belli e più celebri sono così, infatti, frutto di quello studio teso a capire come e quando, più che dove, l’estremo difensore non si aspetta il tiro, non avverte il pericolo. È propio in quell’istante, istante che abbiamo ammirato in decine di occasioni ma stupendoci ogni volta, che scatta il genio di Quagliarella. Un genio imparabile.

Quagliarella nell’Udinese

Si dice che la sua carriera abbia avuto alti e bassi e che il calcio italiano non abbia goduto a fondo della grandezza di questo giocatore dalla maschera impenetrabile e uguale a se stessa per quasi un quarto di secolo, a causa di sue debolezze extra calcistiche. Ovviamente non voglio entrare nel merito di tali questioni, siano esse dicerie o verità, ma non posso esimermi dal sottolineare il fatto che una di queste gli è costato non uno, ma ben due allontanamenti da piazze, peraltro amatissime quanto lontanissime, in cui ha militato. E come premessa, prima di entrare nel merito, desidero sottolineare l’anomalia del fatto che quasi ogni giocatore, quando arriva o torna nella propria città, lì (ivi direbbero le forze dell’ordine), lì si ferma a chiudere la carriera.

Quagliarella, no. Lui approda nella sua Napoli nel 2010 a 27 anni, a coronamento del suo ovvio sogno e convinto di rimanerci a lungo e forse anche per sempre. Viene dal biennio favoloso di Udine e in effetti il suo rendimento è tutt’altro che trascurabile. Ma una voce, una diceria poi rivelatasi almeno giudiziariamente infondata, infastidisce alquanto la Società (quella partenopea, si sa, è formata dal solo Aurelio De Laurentis) e Fabio è costretto a fine stagione a emigrare. Subito. Non va a dormire sotto i ponti, approda alla Juventus dove vive l’esperienza più alta in merito a vittorie e trofei alla conquista dei quali lui, che forse ha cuore anche e soprattutto granata, dà il solito contributo di utilità, concretezza e spericolata fantasia.

Alla fine di quel quadriennio luminoso, Quagliarella rimane all’ombra della Mole, ma sul versante colorato opposto e qui subisce, dopo un paio di stagioni, la seconda cacciata cui facevo riferimento. Fabio segna al Napoli e non esulta. Apriti cielo! Il tifo organizzato, il tamburo di curva batte sempre a favore e si leva sempre contro. È un attimo passare dall’amore al rancore e per Fabio quella piazza, quella tana vista come rifugio protettivo, diventa ostile, non più frequentabile. Non ha baciato una rivale, peraltro parente, non l’ha accarezzata, si è solo rifiutato di oltraggiarla dopo averla comunque colpita, come da contratto e da dovere. Niente da fare, il tifo lo condanna e Napoli lo costringe all’ennesima, ultima migrazione.
Ma anche, lasciatemelo dire, all’ultimo capitolo di una storia d’amore, quella di Quagliarella verso tutte le maglie che ha indossato e onorato, che si è conclusa appunto a novembre scorso con il definitivo ritiro. E, manco a dirlo, anche nella Genova blucerchiata della Samp, lo scugnizzo di Castellammare ha regalato perle incredibili e abnegazione da ammirare e portare ad esempio. Anche lì è diventato un simbolo, una bandiera, anche di quei colori ad anello si è ammantato il cuore.

I gol più belli di Quagliarella

Mi si permetta allora un parallelo finale con un altro giocatore italiano di cui mi sono occupato, tracciandone un discusso profilo, poco tempo fa: Roby Baggio. Lo so che i due non sono confrontabili sul piano tecnico e nemmeno su quello dei giudizi autorevoli, dei riconoscimenti prestigiosi (lo sono, invece sorprendentemente, sul piano di certi numeri, ma sorvoliamo…), so perfettamente tutto ciò, ma quello che me li fa accostare è la volubilità della carriera, il numero di maglie indossate. Ed è su questo punto, l’unico peraltro in comune, che la forbice si allarga: mentre il Divin Codino non ha mai rappresentato fino in fondo i colori che ha indossato, tranne che nel caso di Brescia (città dove peraltro non si è più visto…), Quagliarella lo ha fatto ovunque, tranne a Napoli (dove peraltro è nato…). So per testimonianza diretta che quando Fabio capita anche in incognito a Udine, dove ha giocato quindici anni fa, se viene riconosciuto non riesce a pagarsi nemmeno un caffè, ma neppure il ristorante, l’albergo ecc. Sono altresì convinto ciò gli capiti, più o meno, ovunque abbia militato. Si può dire la stessa cosa per il tanto osannato Baggio?

Concludo veramente chiamando in causa, già che ci sono, anche Gigi Riva. Anche qui il parallelo mi viene d’obbligo: è divergente anche questo, ma molto meno dissonante. Rombo di Tuono, si sa, ha il cuore rossoblu cagliaritano, e Quagliarella? Fabio ha molti cuori, o uno multicolore. Ma il suo battito è uno, forte e sincero. Un cuore utile, concreto, fantasioso e forse irriverente della logica, ma capace di battere all’unisono sotto ogni curva. Un cuore che batte al volo, da centrocampo.

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