È passato alla storia come il Divino, e già dal soprannome si capisce tutto o quasi del mito che è stato Ricardo Zamora Martinez, il più grande portiere del mondo nel periodo dell’anteguerra, nonché una delle leggende del ruolo che resistono ancora oggi, in Spagna e non solo, e questo malgrado la concorrenza di straordinari portieri moderni e televisivi, dal russo Lev Jašin (unico a vincere il Pallone d’Oro) ai nostri Dino Zoff e Gianluigi Buffon, fino al tedesco Manuel Neuer. È forse eccessivo dire che abbia inventato il ruolo per come lo conosciamo oggi, ma di sicuro Zamora ha contribuito in modo decisivo a elevarlo, a portarlo in una nuova dimensione, a far capire che il portiere non era solo l’ultimo baluardo del gioco, un mero respingitore spesso vittima degli attaccanti, ma poteva trasformarsi in elemento chiave di una squadra, determinante non meno degli assist di un numero 10 o dei gol di un numero 9. Lo stile appariscente, con un basco in testa e maglie alla moda, e il carattere sicuro, determinato e un po’ guascone, un personaggio capace di far parlare di sé anche fuori dal campo, hanno contribuito ad alimentare la sua leggenda, tramandola ai posteri.
Giornalista: «Zamora, lei si considera il Pelé dei portieri?»
Zamora: «No, io sono venuto prima. È Pelé che è lo Zamora degli attaccanti».
Era nato il 21 gennaio 1901 a calle Diputación, a Barcellona, da una famiglia agiata: il padre Francisco era medico, titolare di un ambulatorio in plaza de Toros, in centro città; la mamma, Amparo Martinez, arrivava da Valencia. Il calcio fu da subito la sua passione, anche se il padre non vedeva di buon occhio quel passatempo e sperava che il figlio seguisse le sue orme, diventando medico come lui. Le preoccupazioni del genitore forse non erano del tutto infondate: Ricardo aveva una salute piuttosto cagionevole, si ammalò di una febbre misteriosa e i famigliari temettero si trattasse di tubercolosi. Poi quando aveva 8 anni si ferì al piede destro: non disse nulla per alcuni giorni, la ferita si riempì di pus e per poco non andò in cancrena, facendo temere l’amputazione. Alcuni colleghi del padre convinsero la famiglia a mandarlo a Tona, località balneare non lontana da Barcellona, dove le miracolose acque sulfuree riuscirono a guarire il piede.
I genitori tentarono più volte di orientarlo verso altre discipline, dalla pelota basca all’atletica sino al pugilato: Ricardo, che aveva una predisposizione naturale per lo sport, eccelleva in tutte, ma la sua passione prioritaria restava il calcio. Iscritto al collegio San Vincenzo de’ Paoli, i compagni lo trascinarono di peso nella squadra dell’istituto non appena si accorsero che aveva delle qualità fuori dall’ordinario. Il suo ruolo era mezzala, a volte centravanti: gli piaceva comandare il gioco e segnare. Ma un giorno il portiere della squadra si infortunò e l’allenatore gli chiese di andare in porta, visto che Ricardo era più alto della media dei compagni.
Fu una rivelazione, e da quel momento dalla porta non uscì più. L’anno seguente fu ingaggiato dall’Universitary di Barcellona, un club studentesco frequentato dai ragazzi dell’Università, su indicazione del presidente del club Puig de Bacardi che si era invaghito di lui. Al debutto contro l’Internacional, una succursale del Barcellona, subì 4 gol (due da Josep Samitier, che sarebbe diventato poi suo compagno e grande amico) ma secondo le cronache ne evitò altrettanti. In breve scalò tutte le gerarchie. E José Maria Tallara, tecnico dell’Espanyol, società di alto livello in Spagna, lo segnalò al proprio presidente Genaro de la Riva. Aveva solo 15 anni, Zamora, quando firmò il suo primo contratto tra i grandi. L’esordio avvenne il 23 aprile 1916 contro il Madrid non ancora Real.
Lo scetticismo iniziale dei compagni («Dobbiamo farci difendere da uno che porta ancora i pantaloni corti?») si trasformò ben presto in ammirazione: Zamora appariva forte in ogni fondamentale, sicuro di sé malgrado la giovane età, e fu uno dei protagonisti della vittoria del campionato catalano. Passò ai rivali del Barcellona, ma per volere del padre infermo, abbandonò momentaneamente il calcio. L’amico Samitier e il presidente del Barcellona lo convinsero a tornare sui propri passi, e guidò il Barça al successo in Coppa del Re nel 1920, 2-0 all’Athletic Bilbao. Essendo che a quei tempi non c’era ancora il campionato spagnolo, la Coppa del Re era di fatto la competizione più importante del Paese.
Considerato oramai il talento emergente del calcio spagnolo nel ruolo di portiere, gli si spalancarono le porte della nazionale. Il tecnico Francisco Paco Brù lo lanciò titolare nelle Olimpiadi di Anversa del 1920. Al debutto contro la Danimarca la Spagna si impose 1-0 e le parate del 19enne Zamora furono decisive per conservare il risultato. Eliminato dal fortissimo Belgio – futura medaglia d’oro – la squadra iberica vinse il Torneo di consolazione in finale contro l’Olanda, fregiandosi di una prestigiosa medaglia d’argento. Zamora aveva sorpreso in positivo tutti gli addetti ai lavori: era oramai nata una stella del firmamento internazionale.
Dopo aver vinto un’altra Coppa del Re con il Barcellona nel 1922, tornò all’Espanyol per 20mila pesetas e un’automobile in regalo. Ma è con la nazionale che nel corso degli anni ’20 assurse ai massimi livelli: nonostante la Spagna non appartenesse all’élite europea (nazionali come le potenze mitteleuropee e l’Italia erano di un’altra caratura), Zamora riusciva a tenere molto spesso la propria porta inviolata con interventi fuori dal comune, permettendo alla propria nazionale di giocarsela quasi ad armi pari contro i colossi dell’epoca. Nelle 26 partite che la Spagna disputò a livello internazionale tra il 1920 e il 1928, la squadra subì appena 16 gol, e il merito era soprattutto della bravura del numero uno, tanto che in patria iniziò a girare il detto: «Ganamos 1-0 y Zamora de portero», ossia che con lui in porta bastava segnare un gol e il successo era garantito.
La stessa Italia, pure come detto sulla carta superiore, fece non poca fatica: si impose 1-0 su autorete alle Olimpiadi di Parigi ’24, ma venne costretta allo 0-0 da Zamora nell’amichevole di Milano del 9 marzo 1924 e dovette arrendersi 1-0 agli iberici (anche qui senza riuscire a segnare) nel 1925 a Valencia. Per spiegare il perché di quei due risultati, i giornali titolarono: Italia-Zamora 0-0 e Zamora batte Italia 1-0. Finalmente, nel 1927, gli azzurri vinsero 2-0: fu la mezzala del Torino Adolfo Baloncieri ad aprire le danze, prima dell’autogol di Zaldua. Baloncieri divenne così il primo italiano a segnare un gol a Zamora. Soddisfazione che non capitò mai al suo grande erede in maglia azzurra, il mitico Giuseppe Meazza: il Pepp confidò che uno dei suoi più grandi rimpianti in carriera fu proprio quello di non essere mai riuscito a segnare al portiere spagnolo.
Un rimpianto che ebbero in diversi comunque, perché perforare Zamora non era semplice: gli avversari sapevano che per segnare un gol era come bisognasse farne due. Con Zamora in porta la Spagna elevò il proprio standard qualitativo, e lo dimostrò anche l’amichevole del 15 maggio 1929 a Madrid contro l’Inghilterra. La formazione iberica conquistò un successo storico, per 4-3. Fu la prima nazionale non britannica a superare i “maestri” e le parate di Zamora furono determinanti anche quel giorno, malgrado i tre gol subiti: il portiere giocò per altro una buona parte dell’incontro con lo sterno rotto dopo uno scontro di gioco, ma nonostante l’infortunio continuò a parare come se nulla fosse. L’episodio, naturalmente, alimentò ulteriormente la sua leggenda.
Il 1929 fu uno dei suoi anni migliori, e Zamora guidò il piccolo Espanyol a vincere la Coppa del Re in finale contro il Real Madrid per 2-1, mentre nel primo campionato nazionale, vinto dal Barcellona, chiuse al settimo posto. Il Real, forse stanco di trovarselo di fronte, l’estate seguente decise di rompere gli indugi, potendo contare già allora su un certo potere economico, suffragato dal fatto che fosse la squadra della capitale e dal titolo “Real” conferitogli dal re Alfonso XIII nel 1920. Il presidente Luis Urquijo, tramite il dirigente Luis Usera Bugallal, avanzò all’Espanyol, quasi per sfida, un’offerta senza senso: 150mila pesetas, con un ingaggio di oltre 50mila pesetas e 3mila mensili. In tutto, l’operazione sfondava il muro delle 250mila pesetas. Inutile dire che la trattativa andò in porto. «Questo Zamora guadagnerà più di un ministro e di conseguenza il calcio diventerà una roba da professionisti» disse, inorridito, il re Alfonso XIII. Ebbe ragione.
Zamora non solo divenne il primo professionista del calcio spagnolo. Ma anche il primo giocatore della penisola iberica capace di valicare i confini del campo, e d’altronde con un simile stipendio era il minimo che si prestasse per attività extra-calcistiche: sponsorizzò così vestiti e scarpe, recitò in un film, divenne uomo immagine sui rotocalchi alla moda. Lui non si tirava indietro. Anzi: alimentava il suo personaggio con uno stile impeccabile, a suo agio in ogni situazione, posato, ben vestito, con il suo inconfondibile basco in testa e un pupazzo-mascotte che appendeva dietro la rete all’inizio di ogni partita.
Ma la popolarità e la fama non intaccarono il suo valore sul campo: Zamora era sempre il portiere meno battuto del campionato e, potendo finalmente fare leva su una squadra forte e un pacchetto difensivo di alto livello (con i mitici terzini Criaco e Quincoces che ritrovò anche in nazionale), fu tra le colonne del Madrid che vinse due campionati in fila, nel 1932 e nel 1933, guidato in panchina prima dall’ebreo-ungherese Lippo Hertzka e poi dall’inglese Robert Firth. In quei due campionati Zamora subì appena 15 e 17 gol in 28 partite.
Di pari passo con le imprese in patria, il portiere continuò a regalare meraviglie sul suolo internazionale. Ai Mondiali del 1934, malgrado un’età non più giovanissima (33 anni) Zamora si rivelò ancora come l’estremo difensore più forte del mondo, malgrado la concorrenza del ceco František Plánička, dell’azzurro Giampiero Combi, dell’austriaco Peter Platzer, che aveva preso il posto da poco in nazionale di un altro meraviglioso numero 1, Rodolphe Hiden.
La Spagna, con Zamora tra i pali e il cannoniere Isidro Lángara in attacco (accreditato di circa 900 reti in carriera) come stelle assolute, superò di slancio il Brasile per 3-1 del grande Leônidas nel primo turno, e si arrese nei quarti di finale alla padrona di casa e favoritissima Italia solo nella seconda partita. Nella prima infatti, con Zamora tra i pali, la Spagna vendette carissima la pelle: andò in vantaggio con Regueiro e subì il pari di Ferrari, dopo una carica di Schiavio sul portierone spagnolo, probabilmente irregolare e non ravveduta dall’arbitro. Secondo le cronache quel giorno Zamora disputò una delle partite più belle della sua carriera, respingendo ogni tentativo degli attaccanti azzurri e consentendo ai suoi di conservare il pareggio anche nei tempi supplementari, con la ciliegina di un autentico miracolo su Guaita all’ultimo minuto. Non essendo previsti i rigori, il giorno dopo la partita si rigiocò. Ma la Spagna ne aveva fuori sette, tra cui lo stesso Zamora: pressioni del Duce che voleva vincere il Mondiale a tutti i costi o reali infortuni? Fatto sta che senza il suo talismano, la Spagna perse 1-0 (gol di Meazza) e salutò il Mondiale a testa alta.
Due anni più tardi, nel 1936, Zamora diede l’addio alla nazionale con un bilancio eccellente: 46 partite disputate, 41 gol subiti, 21 volte la porta inviolata. Sempre nel 1936 regalò al Real la Coppa del Re (la quinta della sua carriera) nella finale di Valencia contro il Barcellona, vinta 2-1: decisiva una sua fantastica parata all’angolino, all’ultimo minuto, su Escolà, di cui in Spagna si è continuato a parlare per anni. Allo scoppio della guerra civile, venne accusato di simpatie monarchiche e arrestato, anche se Zamora non si è mai dichiarato politicamente. Per questo era un personaggio amato da tutti, repubblicani e nazionalisti, un simbolo di un Paese intero. Venne subito rilasciato e fuggì in Francia, dove chiuse con due stagioni nel Nizza.
L’alone mitico che circonda la sua figura continua a riecheggiare in patria (in suo onore, per esempio, è stato istituito il “Premio Zamora” assegnato al miglior portiere del campionato) e all’estero. Nessuno lo ha visto giocare, ma tutti sanno chi è stato. Mi ha sempre molto colpito che quattro straordinarie firme del nostro giornalismo sportivo, pure di idee calcistiche spesso diverse, come Gianni Brera, Antonio Ghirelli, Adalberto Bortolotti e Vladimiro Caminiti, abbiano indicato in Zamora il più forte portiere di tutti i tempi.
Impossibile da stabilire, ma di certo dopo di lui il portiere non è stato più lo stesso. Riflessi felini, completissimo in ogni fondamentale, con uno straordinario senso del piazzamento, gli avversari erano talmente terrorizzati quando se lo trovavano di fronte che dicevano avesse doti magiche e li stregasse con gli occhi. Specialista nei tiri frontali e nel respingere i rigori, sicuro nelle uscite (prima di lui una rarità), inventò un modo di parare con l’avambraccio (che da lui prese il nome di zamorana), e celebri erano i suoi interventi negli angoli con la mano di richiamo, come a voler fiaccare ulteriormente gli avversari dal punto di vista psicologico. A fare da cornice alle immense qualità tecniche, poi, l’iconicità e il carisma che hanno incrementato ulteriormente il mito.