«Averlo in squadra significava partire dall’1-0»
Vittorio Pozzo
Sua madre era una verduraia. Suo padre un litografo, morto sul Carso nella Grande Guerra. Nato il 23 agosto 1910, è cresciuto povero nel quartiere Porta Vittoria, all’epoca piena periferia di Milano e giocando con una palla di stracci nella squadra dei Maestri Campionesi. È diventato il più grande calciatore italiano. Non solo degli anni ’30, forse di sempre (e quel “forse” non è un “sicuramente” solo perché oltre alle difficoltà dei paragoni tra epoche e contesti diversi, in questo caso manca totalmente la riprova video, a mio avviso l’aspetto più importante per valutare compiutamente un calciatore).
Ancora oggi, a distanza di oltre 110 anni dalla sua nascita, Giuseppe Meazza rimane un mito, un modello, un’icona intramontabile. Il fuoriclasse che con i suoi dribbling irresistibili, i suoi gol beffardi, i suoi virtuosismi tecnici, la sua scaltrezza e la sua fantasia guidò un Paese in cima al mondo, ricevendo lodi ed elogi in ogni angolo d’Europa. «Abbiamo conosciuto il più grande» scrissero i giornali inglesi, il giorno dopo l’amichevole tra i maestri e l’Italia campione del mondo del 14 novembre 1934. Una partita passata alla storia come “la battaglia di Highbury”, terminata 3-2 per i padroni di casa, ma accesa da una doppietta straordinaria di Meazza.
Per i francesi era le grand peintre du football, il pittore del calcio. Mentre Gianni Brera, che per Meazza aveva una vera e propria venerazione, il giorno della morte del Peppìn scrisse: «Grandi giocatori esistevano al mondo magari anche più tosti e continui di lui. Però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario».
Anche Vladimiro Caminiti, torinese, aveva una considerazione altissima di lui: «Chi non ha mai visto giocare Giuseppe Meazza non ha mai visto toccare vette sublimi. Era nato soltanto per giocare al calcio, non fece mai altro nella sua vita, toccò tutti i traguardi più prestigiosi cui un calciatore possa aspirare, entusiasmò le folle di tutto il mondo, umiliò tutti i difensori più celebri di un’epoca d’oro del calcio, beffò tutti i più grandi portieri, tranne uno. La sua bestia nera, il suo incubo, il fantasma delle sue rare notti insonni: Ricardo Zamora, il mitico campione spagnolo».
La donzelletta vien dalla campagna
Motivo popolare degli anni ’30, adattamento de “Il sabato del Villaggio” di Giacomo Leopardi
leggendo la Gazzetta dello Sport
e come ogni ragazza
lei va pazza per Meazza
che fa reti a tempo di fox-trot
Ha giocato in un’epoca antica, pre-televisiva, su terreni paludosi e con palloni cuciti con il fil di ferro che cambiavano peso e dimensione a seconda delle condizioni meteorologiche. I primi vagiti del professionismo intorno e Meazza aveva capito – fu uno dei primi – come sfruttare quel periodo di transizione che avrebbe portato il calcio in una nuova era: pubblicizzava prodotti commerciali (celebre la pubblicità della brillantina), faceva la bella vita tra auto di lusso, donne e champagne, vestiva alla moda.
Divo fuori dal campo, idolo sportivo dentro gli stadi, spauracchio di tutti i portieri del mondo, piegati irreversibilmente ai suoi gol sornioni e beffardi, detti “a invito”: giungeva davanti a loro, li chiamava a uscire, poi li aggirava con una impareggiabile finta e depositava placidamente il pallone in rete.
Un marchio di fabbrica. Come marchio di fabbrica divenne il suo soprannome principe, Balilla, affibbiatogli dal compagno di squadra Leopoldo Conti quando se lo ritrovò davanti ad appena 17 anni nella Coppa Volta. Un soprannome che venne inevitabilmente sfruttato ad arte dal regime fascista, che catalogò in quel modo il fuoriclasse di riferimento, la stella più luminosa del firmamento azzurro, l’uomo che trascinò da leader il calcio italiano in cima al mondo. Ma Meazza della politica se ne infischiava. A lui interessava giocare, interessava segnare, interessava vincere.
Scoperto nelle giovanili dell’Ambrosiana Inter dall’allenatore ebreo-ungherese Árpád Weisz, poi morto ad Auschwitz, su segnalazione di Fulvio Fuffo Bernardini, Meazza impiegò pochissimo per imporsi all’attenzione generale. Da «riservetta di qualità» – le prime parole spese per lui dalla firma della Gazzetta dello Sport Bruno Roghi – divenne subito un crack: 12 gol il primo anno, 33 il secondo, 31 il terzo, a 20 anni, quando guidò i nerazzurri al tricolore.
Inevitabile per un talento del genere la convocazione in nazionale, avvenuta il 9 febbraio 1930, in un’amichevole contro la Svizzera a Roma. Il ct Vittorio Pozzo lo aveva voluto al posto del napoletano Attila Sallustro, così da Napoli erano giunti nella Capitale numerosi tifosi inferociti, pronti a riversare sul 20enne Peppìn ogni genere di improperi. La Svizzera andò in vantaggio per 2-0 e puntuali dagli spalti si levarono insulti e grida di scherno all’indirizzo del giovane attaccante milanese. Meazza reagì sul campo, dimostrando faccia tosta e personalità da veterano: si caricò l’Italia sulle spalle, realizzò una doppietta e gli azzurri ribaltarono la contesa imponendosi per 4-2. A fine partita fu portato in trionfo dagli stessi tifosi che lo avevano offeso.
Fu in quell’istante che nacque la favolosa storia d’amore in azzurro, condita da due successi in Coppa Internazionale (celebre la tripletta con cui, sempre nel 1930, demolì a Budapest l’Ungheria) e soprattutto da due titoli mondiali. Un bilancio complessivo di 33 reti in 53 presenze, primato realizzativo ritoccato solo da Gigi Riva. L’ultimo gol lo segnò al Brasile, nella semifinale del Mondiale ’38, su rigore, mentre con una mano si sorreggeva i pantaloncini dopo che si era rotto l’elastico.
Di pari passo con la sua carriera in azzurro, quella nell’Ambrosiana Inter, con due successi in campionato e uno Coppa Italia; tre titoli di capocannoniere in serie A (quarto marcatore di sempre con 216 reti alle spalle di Silvio Piola, Francesco Totti e Gunnar Nordahl) e tre anche nella Mitropa Cup (la Coppa Campioni del tempo), competizione che però non riuscì mai a vincere nonostante otto partecipazioni.
Centravanti in nerazzurro, mezzala in nazionale al servizio dei cannonieri Angelo Schiavio e Silvio Piola, Meazza ha trovato in azzurro un insospettabile feeling con l’altro interno Giovanni Ferrari (leggere qui il pezzo di Tommaso Ciuti sui migliori giocatori azzurri con il miglior rendimento ai Mondiali), diversissimo rispetto a lui e per questo complementare: la fantasia, il dribbling irridente, il gusto della beffa di Meazza venivano perfettamente bilanciati dall’intelligenza tattica, dalla sagacia e dal senso della misura di Ferrari. Uno dionisiaco e l’altro apollineo, due eccezionali fuoriclasse che tutto il mondo invidiava all’Italia.
Calò drasticamente dopo il Mondiale 1938, in cui ancora una volta era stato l’architrave della manovra, con il presidente francese Albert Lebrun che nel consegnargli la Coppa del mondo al termine della finale vinta 4-2 contro l’Ungheria gli disse: «Ils gagnent tout, ces italiens» (vincono tutto, questi italiani). Si riferiva, oltre che al successo della squadra di Pozzo, alle vittorie del ciclista Gino Bartali al Tour de France e del cavallo Nearco al Grand Prix de Paris, entrambe conseguite in quello stesso anno.
La colpa del suo repentino declino fisico fu la cosiddetta “sindrome del piede gelato”, un’occlusione ai vasi sanguigni che gli impedì di giocare con continuità e rendere come ai bei tempi. Un problema da cui, con le medicine di oggi, si potrebbe guarire abbastanza agevolmente, ma all’epoca non c’erano cure adeguate. Già, perché oltre ai terreni polverosi e sconnessi, ai palloni ingiocabili e alle scarpette sdrucite al primo contrasto, le difficoltà erano anche rappresentate da una medicina sportiva agli albori, assolutamente incapace di fornire un valido sostegno nella preparazione e nell’assistenza degli atleti.
Ma nonostante tutto, Meazza ha saputo imporsi per un decennio all’attenzione globale, diventando il vessillo di un Paese, il simbolo di un’epoca, l’idolo della gente, l’eroe a cui l’Italia calcistica si affidava per conseguire le più grandi vittorie. Gli hanno dedicato lo stadio di San Siro, palcoscenico delle sfide della sua Inter, ma anche del Milan con cui ha giocato due annate a fine carriera (e ha vestito pure le maglie di Juventus, Varese e Atalanta).
Allenatore di fama modesta e risultati scadenti, con un carattere vivace e non avvezzo ai compromessi, Meazza se n’è andato per un tumore al pancreas nel 1979, a due giorni dal suo 69° compleanno. Ma il suo ricordo e la sua leggenda non si affievoliscono. Perché anche se mancano immagini adeguate e video di partite intere, il suo mito continua a tramandarsi di bocca in bocca, di generazione in generazione. Si spegnerà forse solo quando un attaccante avrà scartato il portiere e deposto il pallone in rete per l’ultima volta. L’ultimo gol “a invito”. L’ultimo gol alla Giuseppe Meazza.
CHI È GIUSEPPE MEAZZA Nato il 23 agosto 1910 a Milano Morto il 21 agosto 1979 a Monza Soprannomi Balilla, Peppìn, le grand peintre du football |
CARRIERA NEI CLUB Squadre di appartenenza Ambrosiana-Inter (1927-1940), Milan (1940-1942), Juventus (1942-1943), Varese (1943-1944), Ambrosiana-Inter (1944-1945), Atalanta (1945-1946), Inter (1946-1947). Presenze e reti Ambrosiana-Inter 366 presenze, 244 gol; Milan 37 presenze, 9 gol; Juventus 27 presenze, 10 gol; Varese 20 presenze, 7 gol; Atalanta 14 presenze, 2 gol. Titoli vinti 2 campionati italiani; 1 Coppa Italia |
CARRIERA IN NAZIONALE Presenze e reti 53 presenze, 33 gol. Titoli vinti 2 Coppe Internazionali (1930, 1935), 2 Mondiali (1934, 1938). |