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Fuori dal coro, Gianfranco Zigoni

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Non è un’icona del calcio, ma una figurina sì. Se si guardano le edizioni Panini anno per anno, la figurina di Zigoni è l’emblema perfetto dei tempi che cambiano. Genoa 1964/65: capelli abbastanza corti, ben pettinati, accenno di basetta. Juventus 1966/69: capelli più lunghi, basetta piena ma look ancora ordinato perché alla corte di Agnelli si sta in un certo modo. Roma 1971/72: Zigoni sembra un militante di Autonomia Operaia: barba incolta e lunghissima, capelli che scendono fino alle spalle e vanno dove vogliono, manca solo l’eskimo. Verona 1972/78: non c’è più la barba ma i capelli sono sempre quelli e le basette…anche. Pazzo, ribelle, indolente, giacobino, genialoide, incompreso, sovversivo. Non si contano i modi in cui Zigoni è stato definito, anche se spesso sono cliché da maledetto di maniera. Di certo, è stato un talento inespresso (o espresso in parte) del suo tempo, un dissacratore del sistema pur facendone parte. E qui una riflessione ci starebbe. 

Senza padrone

Gianfranco Cesare Battista Zigoni nasce a Oderzo (Treviso) il 25 novembre 1944. Sa fin da ragazzo di avere un talento nel giocare al calcio, ma forse, nell’interrogarsi, capisce una cosa che non sempre fa piacere capire: quel mondo nel quale vuole entrare, perché lui ha tutte le capacità per starci ad alti livelli, non gli somiglia. È un mondo qualunquista, freddo, fatto di gente spesso ignorante (che non è per forza sinonimo di semplice), venduta, disposta a tutto. Al calciatore medio dei tempi di Zigoni non è attribuita un’anima ed è apprezzato soltanto colui che tace, acconsente e che spesso è connivente con quanto di peggio vi graviti intorno. Se è vero che nessun pasto è gratis, alla mensa della sincerità i prezzi sono spropositati.

Non ho mai frequentato il gregge. Ho accumulato più giorni di squalifica che gol perché non sottostavo ai soprusi degli arbitri. Dicono: bisogna credere alla buona fede di quei signori. Ma per favore, ho visto furti inimmaginabili e ho pagato conti salatissimi. Una volta mi diedero sei giornate di squalifica e trenta milioni di multa perché dissi a un guardalinee di infilarsi la bandierina proprio là. Trenta milioni degli anni 70: all’epoca con quei soldi compravi due appartamenti. Il prezzo della mia libertà di opinione. 

Concetto molto personale della libertà d’opinione, non c’è dubbio, ma è questa la cifra caratteriale. Un calciatore che ama le donne, l’alcool e i motori più del pallone oggi sarebbe il conformismo personificato, allora era un diverso, specie se non faceva nulla per nasconderlo. Mario Balotelli lasciava la macchina in terza fila per far parlare di sé o più probabilmente per sommo disinteresse verso il prossimo. Se Zigoni a suo tempo avesse fatto altrettanto, sarebbe stato per una forma di protesta verso il tal potente di turno o contro una certa decisione. Cambiano i tempi, cambiano i protagonisti e i modi di concepire la realtà. 

Zigo-gol

Fin da ragazzino, Zigoni è il turbolento protagonista dei suoi giorni: «Da bambino giravo armato di fionda, più cresciuto tenevo sotto controllo il territorio con la carabina». Quella delle armi sarà sempre una delle sue oscure passioni, ma non è, e non sarà mai, una sorta di scriteriato solista del mitra. Narra la leggenda che un episodio ne scuoterà la sensibilità tanto da fargli abbandonare le armi, almeno per un po’. Anzi, narra lui stesso.

Un giorno a caccia, colpii un merlo, che cadde vicino a un laghetto. Mi avvicinai per raccoglierlo e incrociai il suo sguardo. Lui era ferito, ma vivo, e i suoi occhi mi dicevano: ‘Brutto bastardo che non sei altro’. Mi sentii un mostro. Lo strozzai per non farlo soffrire, gettai la carabina e mi ferii volontariamente alla fronte con il filo di ferro di un vitigno. Sanguinavo. Il giorno successivo vendetti i fucili

Estroso e irruento, ma non privo di una certa sensibilità, Zigoni porta in campo se stesso senza sconti fin da quando un emissario della Juventus fa il giro dell’oratorio di Oderzo per visionare un ragazzo bizzarro ma capace di giocate difficilissime e di gol favolosi. È bravo, certe invenzioni illuminano il gioco del Patronato Turroni, squadretta locale. Bravo ma troppo indisciplinato. Specie per una squadra di soldatini diligenti come la Juventus. La quale però decide comunque di ingaggiarlo, perché due piedi così sui campi di calcio non si incontrano tutti i giorni. Però a Torino la concorrenza è spietata e il ragazzo non va certo a genio a tutti. In tre anni, quattro presenze e un gol. 

Sotto la Lanterna e poi di nuovo alla Juve

Meglio fargli fare le ossa al Genoa, dove può avere più spazio ed esprimersi appieno, prima di tornare alla base. I due campionati sotto la Lanterna rappresentano un buon momento di crescita, perché Zigoni si trova in sintonia con la città e la città con lui. In un Genoa-Milan segna tre gol e Trapattoni giurerà di avere visto in campo la reincarnazione veneta di Pelé. 16 gol in 58 partite (8 esatti a stagione) non evitano comunque la retrocessione in B. Torna alla Juve e trova un sergente di ferro in panchina, Heriberto Herrera. Il rapporto tra i due sarà duro e poco lineare, perché in fondo uno si rivelerà immagine speculare dell’altro. Dittatoriale nell’imporre la disciplina l’uno, assolutista nel rifiutarla l’altro. 23 presenze, 8 gol e scudetto 1966/67. Alla lunga, l’incompatibilità fra i due rimane tale, anche se oggi Zigoni attribuisce anche meriti al suo “oppositore”: «Mi sono preso un esaurimento nervoso. Heriberto mi ha distrutto mentalmente. Però era onesto, giocava chi era in forma. Alla Juventus mi sentivo un numero. Non mi sono mai abituato al taglio dei capelli imposto dalla società, alle telefonate di controllo alle 10 di sera. Mi sembrava di stare in un campo di concentramento». Tutto vero, ma il calcio è anche disciplina e a volte bisogna saper obbedire a logiche di squadra. Altrimenti, meglio uno sport individuale, comunque soggetto a regole e disciplina.

Di Herrera in Herrera

Dopo quattro stagioni tormentate alla Juventus (35 gol in 122 partite) Zigo-gol viene ceduto alla Roma. La Capitale potrebbe essere la piazza giusta, perché la Roma ha bisogno proprio di una punta che possa garantire realizzazioni in doppia cifra annuale. L’attaccante di Oderzo troverà un altro Herrera, forse quello più autoritario: Helenio. E non saranno rose e fiori neppure stavolta. La concorrenza è spietata e Zigoni gioca solo quando riesce a convincere il mister. Due stagioni, 12 gol, 48 presenze. Durante la militanza a Roma, conoscerà Pelé in amichevole, contro il Santos. «Vedo Pelé dal vivo e mi prende un colpo. Madonna, che giocatore. Ho una botta di depressione, di malinconia, penso che a fine partita annuncerò in mondovisione il mio ritiro dal calcio. Mi preparo la dichiarazione in terza persona: ‘Zigoni lascia l’attività, non sopporta che sul pianeta ci sia qualcuno più forte di lui’. Poi a un certo punto il Santos beneficia di un rigore, Pelé va sul dischetto e Ginulfi, il nostro portiere, para. Allora è umano, penso, e così resto giocatore».

Verona

Seguono sei stagioni (di cui una in serie B) alla corte scaligera. In una dimensione meno metropolitana rispetto a Roma e a Torino, Zigo-gol emerge in tutto il suo essere personaggio fuori dagli schemi. L’allenatore Valcareggi riesce in qualche modo a gestirlo. Per un breve periodo vive addirittura in una parrocchia, ma i fatti terreni lo richiamano presto alla realtà. «Monsignor Augusto mi aveva preso a ben volere. Così ho vissuto nella chiesa di San Giorgio in Braida. Mi stavo convincendo ad andare per un mese in un convento di frati camaldolesi. Ma poi tante donne si son messe a piangere. Dai Zigo, non puoi lasciarci. Mica potevo far piangere tutte quelle donne. E il mese in convento è saltato».
C’è inoltre un aneddoto di quegli anni che dà l’idea del livello di insofferenza alle gerarchie. È Zigoni stesso a raccontarlo: «Un giorno Valcareggi mi dice che non mi avrebbe fatto giocare. E gli dico ridendo: ‘Ma come? Tiene fuori il più grande giocatore del mondo?’. Comunico ai compagni che sarei andato in panchina con pelliccia e cappello da cowboy, in cinque scommettono che non l’avrei fatto. E invece presi posto sulla panchina del Verona conciato in quel modo». 

Zigoni e le sue opinioni fuori dall’ordinario

Le categorie inferiori, con la stessa classe di sempre

Ha 36 anni quando lascia Verona. Zigo-gol fa due stagioni a Brescia e poi tre in serie D. Torna a Oderzo: l’Opitergina è pronta ad abbracciare il suo talento incostante più conosciuto. Dopo tre campionati, nel 1983 si trasferisce al Piavon, squadra di Terza Categoria con la quale ottiene una promozione in Seconda. A Piavon, frazione di Oderzo, termina la carriera a 43 anni, contribuendo alla salvezza della squadra. L’ultima partita in assoluto, nel maggio 1987, la gioca contro il Musile di Piave, segnando quattro gol: la gara finisce 5-4 per la sua squadra. Con quest’ultimo regalo ai suoi ammiratori si conclude la carriera in campo di un genio che non ha mai voluto essere regolatezza né integrazione completa al sistema calcio. 

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