«Se Mario Basler avesse avuto la testa di Franco Baresi sarebbe stato uno dei più grandi calciatori dell’era moderna»
Fabio Caressa
Ho un paio di aneddoti personali che mi legano a Mario Basler, uno dei tanti quasi-campioni di un periodo, quello che si colloca al crocevia tra anni ’80 e ’90, che sembra aver fatto proprio del giocatore talentuoso e problematico la propria cifra estetica.
Il primo è del tutto insignificante ed è la sua data di nascita, che è anche la mia – il 18 dicembre, lui è arrivato 14 anni prima, circostanza appunto del tutto superflua ma che mi rimase impressa la prima volta che lo vidi in campo, nel 1995.
Il secondo è proprio la prima volta in cui l’ho ammirato in campo: era l’autunno del 1995 e per caso mi capitò di accendere la TV su una partita degli ottavi di finale di Coppa UEFA, che vedeva in campo da un lato gli olandesi del PSV Eindhoven e dall’altro i tedeschi del Werder Brema. Conoscevo la fama di un giovanissimo brasiliano del PSV – la squadra olandese, all’epoca, era spesso il viatico dei giovani brasiliani nel calcio europeo, e ovviamente sto parlando di Ronaldo, che si era preso le prima pagine dei quotidiani sportivi qualche mese prima, grazie a una prestazione sbalorditiva messa a referto sempre in Europa e sempre contro una formazione teutonica, in quel caso il Bayer Leverkusen.
Su giovane asso brasiliano già circolavano voci incontrollate e in preda a una sorta di estasi, e il nome che veniva associato alle sue gesta avveniristiche, a uno strapotere atletico che sembrava provenire a un futuro remoto, era quello impronunciabile del Re, Pelé. Questo diventerà ancora più grande del perfido Baixinho che si fa beffe della nostra logica, questo sarà grande quanto Pelé, così dicevano molti tra coloro che avevano avuto la fortuna di ammirarlo mentre bruciava l’erba come un torpedo.
Tra i bavaresi, scopro quella sera, gioca un’altra stella che per il cronista può essere in qualche modo l’avversario del fenomeno brasiliano, in quella duplice sfida: i tedeschi si affidano a uno dei giocatori più talentuosi del mondo, un’ala destra che segna come un centravanti e che deve il soprannome a un videogioco che fece le fortune di noi post-boomer, Super Mario Bros., e questa ala era naturalmente Mario Basler, che con quella precoce stempiatura, alla Mario Corso, i baffetti e l’aria stralunata ma ruvida sembrava proprio la versione tedesca e polemica di Mariolino Corso, o se preferite un personaggio degno di figurare nelle grandi tragedie del geniale regista tedesco Rainer Werner Fassbinder.
Quella partita si concluse con il successo degli olandesi, ma io rimasi colpito soprattutto dalle movenze e dal tocco di palla di quell’allampanato tedesco noncurante di tutti i luoghi comuni italiani sul suo paese, esattamente come il geniale regista della cui mente sembrava il parto.
Come avrei scoperto più tardi, Mario Basler era la grande anomalia del calcio del suo paese, non l’unica della sua gloriosa storia (basti pensare alle invenzioni sudamericane di Helmut Haller, l’uomo che portò il Bologna a giocare nei pressi del Paradiso), ma la più vistosa nel calcio ruvido degli anni ’90, quello tutto votato alle tonnare, a un tatticismo rigoroso e alla ricerca del risultato come unico grande mantra che dominava i suoi discorsi. Come diversi contemporanei, Mario era un giocatore che aveva sbagliato epoca e forse pure paese, ma che per fortuna aveva deciso di infischiarsene: e così incantava il pubblico con le sue magie, con il suo dribbling lento eppure difficilmente prevedibile, con la sua postura alta, il sapiente magistero, e la capacità di inventare colpi balistici degni di quelli del dio anglo-francese che negli stessi anni faceva impazzire i tifosi Oltremanica (Le Tissier) o, per venire a tempi più vicini ai nostri, di quelli del Quagliarella che abbiamo recentemente celebrato come un’altra grande bizzarria.
Super Mario era un mago dei calci piazzati, tanto che, stando alle statistiche ufficiali della Bundesliga, ne avrebbe messi a segno 23, e anche dei corner, tanto da essere uno dei pochissimi giocatori ad aver segnato direttamente da corner e forse l’unico ad esserci riuscito per tre volte nell’arco di una sola stagione. Basler aggiungeva a tutti questi ingredienti una lingua velenosa, che gli valse una grande quantità di cartellini gialli e rossi, e un corredo di vizi che include una passione viscerale per la birra e per le sigarette, giusto per aggiungere altre due affinità con il geniale regista la cui mente sembrava averlo letteralmente inventato: nulla di più in controtendenza rispetto al calcio tedesco del tempo, immolato sull’altare della concretezza e dell’agonismo. Basler faceva parte della schiera dei campioni o a volte fuoriclasse sfiorati, appunto dei Le Tissier, dei Paul Merson, dei Cantona, se vogliamo dei Prosinečki e dei Savićević, tutti giocatori affermatisi contro il vento della storia, nel periodo per loro forse più complicato, tutti caratterini complicati, tutti forse incapaci di diventare ciò che avrebbero potuto essere (o capaci di farlo per poche stagioni, penso soprattutto a King Eric o al Genio), complici tanti guai fisici, una certa antipatia reciproca con i severi metodi di allenamento in voga al tempo, un fisico non sempre all’altezza della situazione, anche a causa dei troppi vizi extracampo.
Nel 1995, tuttavia, Basler non si è ancora guadagnato la nomea di campione parzialmente incompiuto, perché dopo un lungo apprendistato nelle categorie minori, sembra proprio essere a un passo dalla consacrazione definitiva: ha debuttato in nazionale contro l’Italia, nel marzo del 1994, è stato convocato a USA 1994 ed è pure sceso in campo, e nella stagione successiva, il suo calcio tutto fantasia latina e invenzioni estemporanee ha consentito al Werder, telecomandato da uno dei massimi tecnici teutonici di sempre, Otto Rehhagel, di giocarsi fino all’ultima giornata la Bundesliga; contro ogni logica, peraltro, Super Mario nel 1995 non era stato solo riconosciuto, per la seconda volta consecutiva, come il miglior centrocampista del campionato tedesco, ma, pur essendo appunto un centrocampista, aveva vinto anche il titolo di capocannoniere con venti reti.
The Sky is the limit, si diceva al tempo, e Mario sembrava davvero in procinto di scalare tutte le graduatorie calcistiche del suo paese e forse d’Europa, e proprio per questo era stato individuato come il campione da contrapporre al giovanissimo Fenomeno in quella sfida di Coppa UEFA. Nel 1996, tuttavia, Otto ha salutato il Werder e la squadra non può che risentirne: nonostante Super Mario disputi una stagione più che positiva, la squadra sprofonda malinconicamente verso la metà della classifica e Basler chiede di essere ceduto, non senza il solito strascico di polemiche. Pare che lo cerchino le big italiane, al tempo le squadre più ricche del pianeta, ma le versioni sulle trattative in corso non collimano e Mario, dopo aver saltato un allenamento e aver litigato con la dirigenza, viene di fatto messo fuori rosa, chiudendo così in malo modo la sua eccellente carriera nella città del Nord, una carriera che l’ha visto affermarsi come uno dei giocatori tedeschi più dotati e forse come, appunto, la più grande irregolarità del calcio tedesco degli anni ’90.
Prima di trasferirsi a Monaco, nell’estate del 1996 Mario vola nella vicina Inghilterra e vince il titolo europeo, ma per lui è un successo agrodolce, perché un infortunio subìto in allenamento (una delle costanti della sua parabola sportiva) lo priva del posto da titolare dopo la prima partita, e lo costringe a vedere i compagni esultare in faccia ai sudditi di Sua Maestà dalla panchina.
La sua esperienza bavarese ne conferma la statura di campione, ma i colpi di genio, la tendenza alla polemica e una certa discontinuità lo rendono da un lato l’idolo dei tifosi e dall’altro uno dei giocatori più difficili da gestire per la società teutonica. Nel 1997 Super Mario vince la Bundesliga ed è il secondo miglior marcatore della squadra, mentre nel 1998 inizia a soffrire di un po’ di discontinuità, ma decide la finale di Coppa di Germania. Quando il declino sembra a un passo, Mario tira fuori gli artigli e inventa forse la stagione più bella della sua carriera, almeno in termini di prestazioni e impatto internazionali: il genio incompreso e sempre un po’ sopra le righe (la sua collezione di cartellini gialli e rossi è purtroppo infinita) mette un po’ la testa a posto e si carica sulle spalle il Bayern Monaco, un Bayern che non è ancora la collezione di stelle dell’epoca Heynckes-Guardiola e degli ultimi anni, è molto meno glamour, molto più teutonico e che punta infatti sulle armi classiche del calcio tedesco – solidità, fisicità, organizzazione, una difesa di “cattivi”, una vocazione inguaribile alla concretezza, e soprattutto una forza mentale invidiabile. Nella classica cornice bavarese di quel periodo, personificata sul campo dal vecchio leader Lothar Matthäus, ancora valido nonostante sia prossimo alla quarantina, e dal truce leader Oliver Khan, i due giocatori che hanno in mano lo spogliatoio, si inserisce come la classica scheggia impazzita il trentenne Super Mario, che sembra dare un taglio agli alti e bassi delle stagioni precedenti e diventare in qualche modo una garanzia, soprattutto quando la palla scotta.
Se nel 1999 il Bayern sfiora la Coppa dalle grandi orecchie lo deve anche e soprattutto a lui, l’uomo che segna quattro gol e inventa le giocate determinanti: in semifinale, i bavaresi affrontano la coriacea e talentuosa Dinamo Kiev di Shevchenko e in Ucraina la partita si conclude con un rocambolesco 3-3. Al ritorno, in Germania, Kahn si inventa un paio di miracoli e poi ci pensa Super Mario, che non è solo il giocatore più brillante dei suoi, ma che con un sinistro dalla distanza punisce il portiere ucraino e regala ai tedeschi la finale.
Sulla finale sono state sprecate tonnellate di inchiostro, virtuale e non, e non è quindi necessario scriverne nel dettaglio: Barcellona 1999 è una partita in termini di gradazione di follia non he eguali, fatta forse eccezione per la finale di Istanbul di sei anni dopo, e vede come sappiamo tutto la Coppa prendere la strada di Manchester, nonostante i bavaresi giochino meglio e siano in vantaggio fino al novantesimo. Il gol del vantaggio l’aveva segnato Super Mario, anche qui facendo leva su una delle sue doti più celebrate, l’abilità sui calci piazzati, e la definitiva incoronazione come campione di statura mondiale sembrava davvero a un passo, ma non è andata così.
Il cuore infinito e la caparbietà degli inglesi, nell’occasione, hanno avuto la meglio su quelli dei tedeschi, e così per Mario sfuma la possibilità di consacrarsi finalmente tra i grandissimi, complice una iella che ci ha visto sin troppo bene. Sappiamo bene che due anni dopo, all’esito di una finale soporifera e dai contenuti tecnici poverissimi, il Bayern si riscatta, ma per Basler le cose vanno diversamente: ferito a morte dalla delusione del Camp Nou, il centrocampista tedesco inizia male la stagione successiva e diventa più che altro protagonista dei rotocalchi per la sua vita sregolata e quindi, nel mese di novembre, per una rissa in un pub di Monaco, in tarda notte, che costringe Uli Hoeneß a uscire allo scoperto e a denunciare i gravi problemi personali di un Basler oramai del tutto fuori controllo e salutato in via definitiva anche dalla nazionale.
Il suo crepuscolo si consumerà a Kaiserslautern e sarà fatto di luci e ombre, di magie e di lunghi periodi di assenza, e anche questo destino lo accomuna ai tanti talenti incompleti della sua generazione.