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Sir Bobby Charlton, l’eroe silenzioso

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«Come uomo e come calciatore, Bobby Charlton era vicino alla perfezione»

Matt Busby

Nella lingua inglese c’è un modo di dire molto usato che recita “every cloud has a silver lining“. Letteralmente significa, “ogni nuvola ha un bordo/contorno d’argento“, ma – come molti detti – traducendolo letteralmente se ne perde il senso.
L’origine di questo detto è attribuita al celebre poeta inglese John Milton, che la usò per la prima nella nella sua opera “Comus: a mask presented at ludlow castle“, del 1634.

Il significato è piuttosto intuibile: come una nuvola scura, che quando è illuminata dal sole, rivela un contorno luminoso, è possibile trovare aspetti positivi anche nelle situazioni più buie e tragiche. Nella nostra lingua c’è una parola, ultimamente assai di moda (anche troppo) che ben riassume questo concetto: resilienza.
La resilienza è la capacità di fronteggiare qualunque tipo di avversità uscendone rafforzati.

Perdonate la piccola parentesi, ma quando penso a Bobby Charlton la prima parola che mi viene è proprio resilienza.
Sì, perchè questo termine ben rappresenta quello che è considerato il giocatore inglese più forte di sempre. In realtà la resilienza è un concetto profondamente radicato nella cultura inglese e si riflette in vari aspetti della società, da William Shakespeare (molti dei suoi personaggi affrontano e superano grande sfide), alla letteratura post-bellica, piena di storie di sopravvivenza e rinascita.

Bobby Charlton con la maglia del Manchester United

Ma andiamo con ordine: Bobby Charlton nel 1958 ha solo 21 anni, è un giovanotto di belle speranze come molti altri, ed è allo United da 5 anni, se includiamo le giovanili.
Fu ingaggiato direttamente per volere dello straordinario Matt Busby – uno dei più grandi allenatori di sempre (anche lui scozzese come Ferguson, sarà un caso ?) – che lo notò giovanissimo ad una rappresentativa di scuole dell’Est Northumberland (contea ai confini nord dell’inghilterra, vicina alla Scozia), zona di cui Bobby è originario.

Dicevamo: è il 1958, è la squadra dello United è sul volo di ritorno da Belgrado, dove ha incontrato in una partita di coppa la Stella Rossa ed ha pareggiato 3-3 con due assist proprio di Charlton. Quello United è una squadra giovane e talentuosa: affidata nel 1945, ben 13 anni prima, nella mani di quello che allora era uno sconosciuto, o meglio un’odiato “nemico”, in quanto ex giocatore dei rivali del City e del Reds. Frank Nicklin, giornalista del Manchester Evening News – in quegli anni ribattezzò quel Manchester United “Busby Babes“, ovvero “I ragazzi di Busby”.

Torniamo a noi: prima di tornare a Manchester l’aereo fa tappa a Monaco – in Germania – per rifornirsi, ma le condizioni meteo peggiorano improvvisamente: la neve cade fitta, il vento è gelido e c’è una visibilità molto ridotta. Dopo due tentativi di decollo falliti – a causa di problemi meccanici – il terzò tentativo si rivela fatale: l’aereo non riesce a prendere quota in tempo colpendo in pieno una casa prima di fermarsi. Ben 23 delle 44 persone a bordo perdono la vita, di cui 8 giocatori dello United. Bobby viene trovato miracolasamente illeso (se non per una leggera botta alla testa) in stato di shock, semi-incosciente, ancora legato al sedile. Fu tragedia nazionale: Bobby seppe della morte di suoi compagni e amici solamente in ospedale.

Questa tragedia fu uno spartiacque per lui: non si riprese mai del tutto, almeno psicologicamente. Si ritenne un miracolato, e non accettò mai di essere sopravvisuto ai suoi amici.
E qui entra in gioco la resilienza di cui abbiamo parlato: invece di sprofondare nella depressione e in un mondo sempre più cupo, il “figlio del minatore”, com’erano conosciuto in gioventù, si tirò su le maniche ancora una volta, strinse i denti, e si promise di andare avanti. Doveva tenere duro per i suoi amici e compagni che non c’erano più, come il giovanissimo Duncan Edwards, a detta di molti uno dei talenti più brillanti di quella squadra, uno di quelli destinati ad alzare la coppa del mondo da capitano molti anni dopo.

«È stato uno dei giocatori più forti che io abbia mai visto, il fulcro della mia nazionale campione nel 1966»

Sir Alf Ramsey



Come rivelò lo stesso Charlton in un’intervista, la sua unica motivazione nella vita diventò quella di vincere una coppa internazionale per i suoi compagni che non ce l’avevano fatta.
Questa motivazione diventò una fiamma che non si estinse mai, che lo portò a dare sempre il 100% in ogni partita…ma facendolo da inglese, da vero “gentleman“. Si,perché Bobby era l’epiteto del gentleman inglese: un vero e proprio uomo d’altri tempi, calmo, riservato, serafico… ma anche tenace e determinato, professionale, amato dai compagni e rispettato dagli avversari, tra cui lo straordinario Franz Beckenbauer, da poco scomparso, che di lui dice “provo più ammirazione per Charlton che per qualsiasi altro giocatore, anche Pelé“.
L’obiettivo di Charlton e compagni si concretizzò nel 1968, quando il Benfica di Eusebio fu annientato 4-1, con due goal siglati proprio da Bobby. In quel momento Charlton ammise di sentirsi incredibilmente leggero, come se un enorme zavorra gli fosse stata finalmente tolta dalle spalle. La sua promessa era stata adempiuta.

Ma facciamo un salto indietro nel tempo: Robert “Bobby” Charlton, nacque in una comunità mineraria ad Ashington, nel Northumberland, nel 1937.
La sua famiglia adorava il football: i quattro fratelli di sua madre giocavano a calcio professionistico, mentre suo cugino era addirittura Jackie Milburn, leggenda del Newcastle. Charlton ricordava: “Mi è sempre sembrato facile giocare. Quando ero giovane, giocavo nel parco vicino casa anche per 10 ore al giorno“.
Bobby – fin da giovane – mostrò grande doti temperamentali, tecniche e fisiche: era tosto come un toro, dinamico, energico, pragmatico, ma anche dotato di grande tecnica individuale.
Già intorno a 13 anni diversi club inglesi – pare addirittura più di 20 – gli facevano la corte, ma fu lo United a convincerlo. Joe Armstrong – scout dello united – disse di lui ” “Era una vera e proprio gazzella: aveva un tiro molto potente come quello di un uomo adulto, ma in realtà aveva solo 14 anni!”

Charlton fece il suo debutto a 18 anni nel 1956, e subito si guadagnò un posto tra i leggendari Busby Babes. Parlò sempre con grande affetto e stima di quella squadra: “Avevamo una squadra davvero grandiosa, con giocatori come Tommy Taylor, Billy Whelan, Eddie Colman e Roger Byrne. E poi c’era Duncan Edwards, senza dubbio il miglior giocatore mai uscito da questo posto.

Da un punto di vista tattico Bobby Charlton inizia a giocare come interno destro, per poi trovare il suo posto a centrocampo o come centravanti di manovra: oggi potrebbe essere uno splendida trequartista, una mezzala o anche una seconda punta, volendo. I suoi fraseggi con il meraviglioso George Best sono leggenda. Bobby Charlton era un giocatore incredibilmente eclettico, versatile, potente, aveva grandissimo carisma, dava tutto per la squadra, aveva fiuto del goal, tirava indifferentemente con entrambi i piedi ed aveva splendida visione di gioco e grande tecnica. Queste caratteristiche ben si sposavano con il suo carattere pacifico, riservato, tranquillo e pacato (ma non “molle”, attenzione!) e rappresentano l’antitesi di suo fratello Jack Charlton, con il quale Bobby ha sempre avuto un rapporto burrascoso. Jack – infatti – era uno stopper grezzo, duro, molto “inglese” nel modo di giocare, e questo si rifletteva anche nel suo carattere: era un uomo spigoloso, diretto, molto duro nelle parole e nei modi. Ad aggravare queste tensioni non hanno giovato sicuramente difficili rapporti familiari tra le rispettive mogli Norma e Pat. In realtà le vere motivazioni del difficile rapporto tra i due non sono state rese pubbliche, ma secondo alcuni fonti, sembra che i fratelli abbiano trovato un certo grado di riconciliazione nella parte più tarda della loro vita.

Bobby Charlton (a destra) scherza con il fratello Jack

Questo processo di riconciliazione non è stato necessariamente pubblico o esplicito, ma ci sono stati indizi e momenti che suggeriscono una sorta di distensione tra i due.
Ad esempio, si sono visti insieme durante eventi pubblici e cerimonie, dove sembravano essere a proprio agio l’uno con l’altro. Inoltre, dopo la morte di Jack Charlton nel 2020, Bobby ha espresso pubblicamente il suo dolore e il suo affetto per il fratello, rivelando un legame fraterno che, nonostante le difficoltà, è rimasto importante per entrambi. E poi – parliamoci chiaro – quanti fratelli possono dire di essere campioni del mondo giocando nella stessa nazionale ? A me vengono in mente solo Fritz e Ottmar Walter nel 1954. Comunque – contrasti fraterni a parte – la carriera di Charlton è stata meravigliosa e ricca di successi: una volta appesi gli scarpini al chiodo è rimasto comunque legato ai reds, diventando membro del consiglio di amministrazione fino al 1984. In seguito divenne ambasciatore dello United in numerosi eventi benefici, fino alla sua morte nell’ottobre del 2023.

Concludo in modo un po’ trionfalistico, non prendetevela (!): Bobby Charlton non è solo stato un simbolo del Manchester United o del calcio inglese; è stato un emblema di resilienza e dignità. La sua carriera e la sua vita offrono una lezione di come la grandezza possa essere definita non solo dai trofei vinti, ma anche dall’integrità e dal coraggio di fronte alle avversità. Thank you, Bobby.

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