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Dino Zoff, il monumento del calcio italiano

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Quando, a cavallo tra i cinquanta e i sessanta del secolo scorso, l’Ozo Mantova compì l’impresa di passare in cinque anni dalla D alla serie A, l’universo del pallone di cuoio rimase stupito e affascinato. Il mondo reale, macchelodicoafare?, era molto diverso da quello odierno: era forse più semplice, più leggibile, ma pure più smaliziato, anche se il tutto era ammantato da una presunta quanto ostentata ingenuità. In quell’anno, il 1958, il Brasile di un imberbe Pelé aveva appena stravinto i Mondiali di Svezia passando direttamente dalla cronaca alla leggenda senza transitare dalla Storia ed ecco che quella squadra di fenomeni biancorossi e virgiliani fu denominata ‘Piccolo Brasile’.

Essa era allenata e condotta da Edmondo Fabbri (lui!), un uomo che per quell’impresa perse la misura di sé e la fece perdere anche ad altri, compresi i vertici della Federazione, ed era difesa in porta da uno spilungone nato in riva al Mincio e destinato a inaugurare la lunga sequela di grandi portieri (Girardi, Recchi, Pellizzaro) nati o cresciuti calcisticamente a Mantova. Si chiamava William Negri. Su di lui si erano già posati da tempo gli occhi dei manager delle migliori squadre italiane e il suo primo anno in massima serie, sempre sotto la guida del ‘Mondino di ferro’ fu tanto convincente da procurargli convocazione ed esordio in Nazionale.

In quegli anni, tutto ciò che toccavano i dirigenti mantovani, tra cui spiccava un certo Allodi (sì, proprio lui), sembrava mutarsi in oro. Era il tempo in cui ogni squadra di A poteva tesserare tre stranieri e metterne però solo due in campo e, tanto per essere precisi, si era nell’immediata vigilia di quella trovata, un po’ truffaldina e molto italiota, di inventarsi oriundi, per giunta italianizzabili, a destra e a manca. Come già negli anni trenta… Comunque, la prima infornata del neo promosso Mantova fu miracolosa. Non tanto per Allemann, navigata ala elvetica, quanto per il giovane brasiliano Sormani, arrivato con la nomea di vice Pelé al Santos, un ruolo che era in realtà tutto da dimostrare. In quegli anni affollati di stelle brasiliane e di arrivi di campionissimi sconosciuti, ognuno di questi ultimi era sempre un vice stella, garantito e certificato. Il terzo straniero del Mantova, tal Nelsinho, arrivò con il pedigree di riserva di Garrincha. Si dimostrò un bidone assoluto che del fantastico uccellino brasileiro poteva essere tutt’al più un vicino di casa.

Quando stavamo per prenderlo alla Juve si era infortunato. Per tentare di pagarlo meno, gli feci dire da Altafini che non giocasse troppo bene le ultime partite, così sarebbe stato più facile portarlo a Torino. Lui mi rispose: nemmeno per sogno. Se mi vuole sono così, altrimenti prenda un altro. Questo è Zoff.

Italo Allodi

Quel Mantova riuscì ad arrivare nona in campionato, a 18, con 32 punti e nel mercato estivo successivo fu preso d’assalto come un fornaio manzoniano. Perse Fabbri, proiettato direttamente verso la Nord Corea, poi, l’anno successivo, Negri che si accasò a Bologna e Sormani che andò, strapagato in soldi e giocatori in prestito, tra cui Schnellinger (lui, proprio lui!), alla Roma. Il Bologna, in cambio di Negri, cedette ai virgiliani nientemeno che Santarelli, un monumento storico che aveva difeso per anni la porta felsinea. Il caso però volle che, già alla prima gara contro il Milan al Martelli, l’anziano estremo difensore franò addosso ad Altafini lanciato a rete e venne espulso.

Allora non c’erano né il dodicesimo né le sostituzioni per cui il Mantova finì in dieci con Giagnoni (lui, proprio lui!) in porta e perse di brutto. Con Santarelli squalificato, nella partita successiva l’allenatore Hidegkuti (No! Lui? Certo che sì!) fu costretto a far esordire un giovane portiere friulano arrivato in estate dall’Udinese dove aveva già disputato partite nella massima divisione, e pure in Serie B, con rendimento alterno a essere benevoli.

Zoff in maglia Mantova

Dino Zoff difese, tra la preoccupazione generale, la porta virgiliana per la prima volta il 22 settembre 1963 a Bari e non solo la mantenne inviolata, ma cominciò a guadagnarsi in fretta la fiducia dei tecnici biancorossi e l’amore, una vera e propria venerazione peraltro corrisposta, del tifo virgiliano e di tutta la città. Dino era un ragazzo schivo, di pochissime parole, e la sua espressione attenta e un po’ accigliata contribuiva a disegnarne un profilo di persona seria, molto più matura dei suoi 21 anni e molto affidabile. Anche quando il Mantova, peraltro debolissimo, retrocesse l’anno dopo in B, la fiducia in lui non si affievolì di un grammo da parte di tutti e forse fu proprio questo fattore, peraltro tutt’altro che casuale, che favorì e permise la sua ascesa inarrestabile.

Le due stagioni che seguirono quella delusione furono infatti trionfali in modo quasi più incredibile della già citata ascesa dalla D alla A e le gesta meritorie di Zoff, estremo difensore di quella compagine allenata da Giancarlo Cadé, cominciavano a far girare le rotative e ad attirare la ancor giovane televisione. Il Mantova, zeppo di giocatori stagionati, esperti fin che si vuole, ma pur sempre esodati da altre squadre e a fine carriera, dominò la serie cadetta e l’anno dopo, praticamente senza modificare l’organico, riuscì veramente in un impresa memorabile. Quella di pareggiare in campionato ventidue (22!) gare su trentaquattro, di vincerne sei e di perderne altrettante, una miseria per una neopromossa priva di ogni credito. La classifica finale di quel campionato 1966-67 vide i mantovani, trascinati da Zoff in porta e da Carletto Volpi a centrocampo, piazzarsi noni alle spalle del Milan e davanti, per esempio, alla quotata Roma. In 34 partite, la porta biancorossa subì 23 reti, appena 4 più della Juventus, prima e Campione d’Italia.

L’ultima gara di quel torneo, che coincise con l’ultima apparizione di Zoff con la divisa della squadra virgiliana, fu proprio quel Mantova-Inter del 1° giugno ’67, terminata 1-0 e già evocata in altro articolo su questo magazine, che decretò lo sgretolamento improvviso quanto inatteso della Grande Inter di H.H, al secolo Helenio Herrera. Pochi giorni dopo la conclusione di quel torneo, Volpi fu prelevato proprio dalla Juve (ma non riuscì mai a mantenere le promesse e le aspettative che avevano accompagnato il suo arrivo sotto la Mole), mentre diverse grosse società cominciarono a contendersi il portiere delle meraviglie. Quando tutti avevano dato per fatto il suo passaggio al Milan, un vero blitz partenopeo nelle ultime ore di mercato portò Dino Zoff all’ombra del Vesuvio.

È cominciato così il volo di quello che ancor oggi ritengo essere il più grande portiere italiano della Storia e uno dei migliori interpreti del ruolo a livello mondiale di tutti i tempi. Detto che la sua carriera da quel suo trasferimento al Napoli ricevette un impulso notevole tanto da farlo esordire in Nazionale già nel 1968 in una partita decisiva per gli Europei contro la Bulgaria e che Zoff difese la porta azzurra anche nella doppia finale vinta contro la Jugoslavia, diversi sono i fattori che mi fanno ritenere il friulano oggi ottantunenne il più grande di tutti.

Zoff alla Juventus

Al di là della sua capacità di essere un vincente, soprattutto con la maglia della Juventus, con cui vinse sei scudetti, due Coppe Italia e una Uefa, e con la Nazionale, con cui si laureò, unico a riuscirci in Italia, sia Campione Europeo nel 1968 sia Mondiale nel 1982. Proprio quel trionfo in Spagna, inaspettato quanto meritato, ha consegnato per sempre la figura di Zoff alla leggenda e la sua statura sportiva a un Olimpo del Calcio molto alto, molto rarefatto e molto poco frequentato. Il grande pittore Renato Guttuso, incaricato di dipingere l’effigie celebrativa di quella impresa, ritrasse le mani protese di Dino nella classica azione di un’uscita in presa alta con la Coppa Rimet in luogo del pallone. Non c’è volto in quell’immagine, non c’è numero, non c’è neppure trionfalismo. Ci sono solo polsini scuri, forse azzurri, al termine di maniche grigie da cui si prolungano braccia paterne e mani serie, le dita ferree di Zoff che portano la Coppa del Mondo in Italia. È un capolavoro taciturno, lo dico senza enfasi, che rende un omaggio di giustizia estrema al Capitano quarantenne di quel trionfo sorto sulle ceneri di se stesso.

Sopravvissuto a ogni tipo di squallida diceria tipica di un autolesionismo italiota che non ha emuli al mondo, ai più beceri sospetti di combine con gli ignari camerunensi, alla graticola ardente su cui era rosolato continuamente Enzo Bearzot, reo di aver convocato e di far pure giocare un Paolo Rossi, fuori forma e fuori dal gioco, e di aver convocato e di fare pure giocare in porta un giocatore, Dino Zoff, già finito da almeno quattro anni, colpito e affondato dai siluri Olandesi e Carioca sparati da lontano ai Mondiali in Argentina. È un capolavoro, tornando a Guttuso, che parla di due geni assoluti, il pittore e il portiere, due geni che parlano poco e che danno il meglio di sé guardando il mondo un po’ da fuori, che si ritirano volentieri sulla linea di fondo e che, quando è necessario, sanno intervenire.

Tutta Italia, tutto il mondo, Germania finalista battuta compresa ed escluso forse solo il Brasile, troppo ferito, celebrano la favola irreale di Pablito Rossi capace, una volta uscito dal letargo, di annichilire gli avversari. Ma l’icona indelebile di quella vittoria rimangono la mani di Zoff. Mani paterne, materne, filiali, mani mediche, rassicuranti seppur protese, mani da estremo difensore. E quelle mani sono quelle che avevano detto no ai verdeoro con quella parata, inventata di sana pianta tanto era fuori da logica e realtà, su Oscar negli istanti finali di Italia-Brasile: una parata talmente bella che sarebbe tale anche se non fosse mai successa, e talmente importante che il fatto che sia successa non rende giustizia alla sua bellezza.

Il francobollo celebrativo di Zoff griffato dal pittore Guttuso

E al fatto che a compiere quello scatto fulmineo, quel tuffo lunghissimo e a bloccare sul terreno quel proiettile sia stato un uomo di quarantenni, in pensione da almeno quattro secondo i detrattori, ma in procinto di perdere i contorni del certo come succede solo alle leggende. Dino Zoff, io c’ero, ne aveva già compiuta un’altra così impressionante durante un Lecco-Mantova di serie B in aprile del ’66. Vittima di allora un altro brasiliano, Sergio Clerici, all’alba, lunghissima, della sua gloriosa carriera italiana. Si giocano gli ultimi minuti di gara e il Mantova, in giornata di grazia, conduce 5-0 a casa della capolista e, a stadio ormai abbandonato dai tifosi locali e in balia etilica di quelli virgiliani, si batte un angolo per il Lecco.

Lo stacco di Clerici al limite del lato corto dell’area piccola è una frustata sul primo incrocio, una botta siderale da due metri scarsi. È il gol della bandiera, il 5-1 che rende forse ancor più foneticamente impressionante il trionfo o la disfatta, ma la mano di Dino, la mano de Dinòs, non ci sta. Vola, forse staccata dal corpo, e ribatte. Non è possibile! Si materializza un silenzio irreale in campo e nella curva ospite, tacciono le bandiere biancorosse. Sono dieci/dodici secondi che potrebbero durare fino all’82 al Nou Camp, ma sono interrotti dal coro: ‘Di no! Di no! Di no…’

Che cos’ha avuto Zoff più degli altri? Niente e tutto allo stesso tempo. Aveva un senso della posizione che lo faceva apparire, in qualche modo, l’erede diretto di Lev Jascin cui lo accomunava, in effetti, la prontezza nel calcolo delle probabilità. E questa dote gli permetteva di assumere in netto anticipo rispetto a colleghi, e soprattutto avversari, la postura e la posizione giuste. Ma, a differenza del grandioso sovietico, Zoff riusciva a pescare nel proprio repertorio anche le prestazioni più lontane, meno previste. Le due parate ‘non vere’, quella su Clerici a 24 e quella su Oscar a 40 anni assumono una dimensione così straordinaria proprio perché compiute da uno specialista d’altro. È come se Tamberi, fantastico atleta, vincesse nel salto con l’asta… Più degli altri Zoff aveva anche la sobrietà, l’autorevolezza, l’essenzialità in campo e anche fuori, anche quando fu c.t. della Nazionale, sfiorando una vittoria agli Europei del 2000 che sarebbe stata strameritata, è stato così.

Si dimise a seguito delle parole poco rispettose di un Presidente del Consiglio che aveva deciso di usare le leva del calcio per manovrare l’opinione pubblica. Si dimise usando frasi secche quanto appropriate e sparì nel nulla, dando a quel gesto, al di là delle valutazioni, un valore simbolico quasi epico, un’eco etica molto profonda. E, a proposito di gesti, come scordare la sua uscita dal campo dopo il più volte citato scontro con il Brasile nell’82? Ha appena portato i suoi in semifinale con quel miracolo e vicino alla scaletta degli spogliatoi Bearzot, giacca dimenticata sulle spalle e pipa tormentata in mano, risponde sorridendo al telecronista di turno. Passa il portiere, passa la sua faccia oblunga e serissima, molla un bacio sulla guancia del c.t. che continua a parlare senza scomporsi neanche un po’. È evidentemente il linguaggio schietto dei friulani, dei furlans, della gente che ama e che soffre come le montagne e che il silenzio, prima di essere tagliato, va pesato come il pane, va capito come un monito.

Con quelle poche sillabe, con quei gesti urlati, Dino Zoff è stato non solo un portiere, è stato uno dei più forti difensori italiani, sia per quello che riguarda le uscite in presa altissima sia per il governo dei compagni. Sul primo aspetto, credo proprio sia stato il più forte di tutti i tempi al mondo, essendo dotato, come già detto, della capacità di calcolare con netto anticipo sugli altri traiettorie e pericoli. Uno straordinario talento simile l’ho visto, personalmente, solo in Dennis Rodman nel mondo NBA. La capacità di condurre i compagni di difesa nel posto corretto è invece una dote ereditata da colleghi che ha evidentemente studiato, in Italia lo stesso Negri, Ghezzi, Sarti e altri, ma Dino ci mette del suo e porta questo aspetto a livelli altissimi e, a parer mio, mai più raggiunti nemmeno dopo.

Buffon e Zoff [Photo by Claudio Villa/Getty Images]

E, a proposito del dopo, molti si chiedono se ci sia e chi sia stato l’erede di Zoff. A parer mio, nessun portiere, in Italia e forse nel mondo, ha raggiunto i suoi livelli. Molti, specialmente nel nostro paese, hanno più volte fatto il nome di Gigi Buffon, un portiere forse anche più vincente del friulano di cui, in effetti, ha ricalcato le orme sia nella Juventus che in azzurro. E battendo record su record come presenze si nel club che in Nazionale, minuti di imbattibilità e molto altro ancora. Eppure, secondo me, non c’è paragone possibile tra i due sia come statura tecnica sia sul piano di quella morale. Si assomigliano, è vero, per grande senso della posizione sia per una certa essenzialità, specialmente nella seconda parte della carriera di Buffon, di movimenti e interventi.

Ma le similitudini finiscono qui. Sulle uscite alte, il raffronto si fa inquietante per il toscano ed è soprattutto sul piano della disciplina e della moralità sportiva che il parallelo si sbriciola dopo neppure un passo. Certe uscite verbali come quella sull’arbitro inglese di Real-Juve del 2018, poi misteriosamente perdonate in sede disciplinare europea, sono impensabili in bocca a Zoff. Come pure, e a maggior ragione, certe frequentazioni in tabaccherie equivoche che hanno portato Buffon, a suo tempo, a difendersi con argomentazioni perlomeno fantasiose e discutibili.

In conclusione, Zoff vince a mani basse ogni confronto possibile con i colleghi, anche quelli più vincenti e accreditati. Vince per vita e opere, per parole e silenzi, vince perché le sue sono le mani de Dinòs.

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