Immagine di copertina: Trapattoni portato in trionfo dai suoi giocatori dopo la conquista della Coppa UEFA
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Era cupa l’atmosfera sulla grigia Torino del 1977, segnata dagli anni di piombo del terrorismo tra manifestazioni di piazza, lotte sindacali e crisi economica. A riportare il sorriso alla sua gente regalando domeniche di svago, spensieratezza e identificazione nei simboli del successo, ci pensavano però le sue due espressioni calcistiche, che avevano fatto tornare la città della Mole indiscussa capitale del calcio italiano, con lo spettacolare Torino di Gigi Radice fresco di scudetto strappato l’anno prima ai rivali di sempre che duellava con la granitica Juventus condotta in panchina dal giovane e rampante Giovanni Trapattoni.
Un braccio di ferro infinito in campionato, che alla fine di 30 giornate al cardiopalma incoronò i bianconeri per una sola lunghezza di vantaggio sui granata, alla straordinaria ed incredibile quota di 51 punti conquistati sui 60 disponibili (+ 6 in media inglese) in un torneo a 16 squadre che all’epoca premiava ancora la vittoria con i 2 punti. Per rendere l’idea dello strapotere delle due formazioni subalpine basti pensare che la Fiorentina, terza classificata, si fermò a 35, con un distacco siderale di 16 punti dai vincitori e di 15 dalla “damigella d’onore”.
Un tabù infranto
La stagione 1976-’77 è stata anche quella che ha segnato la fine del digiuno europeo della Juventus, indice di un rapporto travagliato, che nel corso dei decenni successivi ha assunto in alcuni casi i connotati dello psicodramma (leggi la “maledizione” della Champions League), con le competizioni internazionali, anche se per paradosso la Vecchia Signora può vantare il primato di essere stata la prima società ad aver conquistato tutti i trofei per club. Per mentalità e “vocazione” il sodalizio di proprietà da quasi un secolo della famiglia Agnelli ha sempre dato la precedenza al giardino di casa, capendo in ritardo e poi cercando affannosamente di recuperare il terreno perduto, l’importanza di primeggiare soprattutto in Europa per consacrarsi tra i grandi del calcio.
Quasi snobbate con eliminazioni dai passivi clamorosi le prime partecipazioni alla Coppa dei Campioni a fine Anni ’50, tenuto testa nel ’62 al Real Madrid di Di Stefano, qualificatosi solo allo spareggio dopo aver visto violare per la prima volta il Chamartin dall’astuta stilettata di Sivori, la Juventus ebbe il suo battesimo delle finali nella Coppa delle Fiere (l’antesignana della Coppa UEFA) del 1965, dove iniziò la sua “maledizione”: atto conclusivo in gara unica a Torino contro i magiari del Ferencvaros, che sbancarono il Comunale grazie a un gol di Fenyvesi a metà ripresa.
Incredibile il pugno di mosche che i bianconeri strinsero in mano nella Coppa delle Fiere ’71, quando guidati in panchina prima dal compianto Armando Picchi, poi da Cestmir Vycpalek quando un male incurabile si stava già portando via il tecnico livornese, chiusero il torneo imbattuti vedendo il trofeo prendere il volo verso Leeds a causa del maggior numero di reti segnate in trasferta dagli inglesi nella doppia finale (2-2 nell’andata a Torino, 1-1 nel ritorno Oltremanica). Tensione e timori reverenziali bloccarono quindi Madama nel suo ballo da debuttante sul palcoscenico che assegnava la Coppa dei Campioni davanti all’ormai declinante Ajax del ’73. Per sfatare il tabù sarebbe servita una rivoluzione tattica e caratteriale, che plasmò una squadra granitica diventata l’unica italiana a vincere una coppa europea senza stranieri in rosa.
La genialità di Boniperti e le intuizioni di Trapattoni
Scottato dallo scudetto andato sul filo di lana ai “cugini” granata, il presidentissimo Boniperti fu protagonista nell’estate 1976 assieme al fido braccio destro Pietro Giuliano di colpi di mercato inattesi accolti dallo scetticismo generale, che si rivelarono invece veri e propri capolavori. Obiettivo principale era congedare i “ribelli” Anastasi e Capello e trovare un nuovo centravanti al posto di Altafini, andato a svernare a Chiasso. Sull’asse Torino-Milano andarono in scena due clamorose operazioni, con i “vecchietti” Boninsegna e Benetti che approdarono in bianconero assieme a 900 milioni di lire dirottati per riscattare la comproprietà del ventenne Antonio Cabrini dall’Atalanta e far rientrare alla base dal Novara il centrocampista Alberto Marchetti, mentre l’attaccante catanese e il compassato regista goriziano andarono a cercare fortuna (non troppa per la verità) in nerazzurro e rossonero. Il geometra di Barengo chiuse ancora più in attivo il mercato con la cessione di Damiani al Genoa per 650 milioni. Per la panchina fu scelto a sorpresa il trentasettenne Giovanni Trapattoni, che si era fatto le ossa nelle precedenti tre stagioni al Milan prima come “secondo” di Rocco, Cesare Maldini e Giagnoni, poi come condottiero in prima persona.
Bersagliato dalla critica, secondo la quale sarebbe stato destinato a fare le nozze con i fichi secchi, il Giuan da Cusano Milanino sfornò invece geniali intuizioni tattiche plasmando una squadra dalla difesa difficilmente perforabile, formidabile in fase di interdizione e pronta ad abbattersi sugli avversari come una furia quando attaccava. La personalità di Zoff tra i pali garantiva sicurezza ai compagni di reparto, schierati con una moderna zona mista. L’unica marcatura fissa era quella sul centravanti avversario di Morini, coperto dalla classe e dal tempismo del libero Scirea, sempre pronto, date le origini da mezzala, a sganciarsi in avanti diventando l’arma in più in fase di impostazione e finalizzazione. Sulle corsie esterne della retroguardia Cuccureddu e Gentile, anch’essi memori dei loro esordi agonistici nel settore nevralgico del campo, sfruttavano la loro duttilità contrastando il dirimpettaio di turno e spingendo come stantuffi a supporto della manovra.
Ma è nel cuore del terreno di gioco che Trapattoni costruì il suo il suo capolavoro tattico avanzando Tardelli da terzino a interno. L’indemoniato Schizzo, ricalcando le orme dell’olandese Neeskens, divenne l’uomo-ovunque dal moto perpetuo abilissimo in interdizione e letale negli inserimenti a rete, mentre Furino e il rigenerato Benetti completavano una barriera frangiflutti che recuperata palla si trasformava in regìa mobile fatta di atletismo e lucidità nell’impostazione con continui cambi di posizione, riportando alla mente il “movimiento” predicato da Heriberto Herrera un decennio prima e culminato nel rocambolesco scudetto del 1967 vinto a spese dell’Inter.
Classe pura e potenza sul fronte offensivo, dove l’estro, le serpentine e gli assist di Causio, al pari di quanto succedeva sull’altra riva del Po con Claudio Sala, partivano dalla fascia destra per svariare a piacimento senza vincoli tattici, mentre Bettega svolgeva il doppio compito di attaccante di manovra (innumerevoli gli spazi creati e i triangoli per gli inserimenti dei compagni) e finalizzatore, con l’implacabile Boninsegna terminale principe offensivo.
La cavalcata europea
Una Juventus camaleontica, dunque, all’apparenza tradizionalista nel solco del calcio all’italiana, ma attenta a recepire le novità tattiche provenienti dall’estero e pronta ad innestarle sulla propria consolidata struttura per cercare di reggere il confronto tecnico, tattico e atletico con le big del calcio europeo e sollevare finalmente il suo primo trofeo internazionale. In tal senso va vista la scelta di rinunciare al regista puro per creare un complesso che si esprimesse sul piano del collettivo. Una compagine meno classica e spettacolare delle precedenti, ma più realistica e pratica, tutta forza e dinamismo, votata alla sincronia dei movimenti ed agli inserimenti a turno dei i suoi componenti, creando una vera e propria cooperativa del gol.
Con tali premesse la banda di Trapattoni si affacciava all’avventura europea della Coppa UEFA 1976-’77, il cui sorteggio riservò ai bianconeri nei primi due turni altrettanti Everest da scalare con le sembianze delle squadre di Manchester. Debutto il 15 settembre in casa del City, che si impone di misura con una rete di Kidd al tramonto della prima frazione, complici anche un paio di errori di Causio in zona gol e l’assenza di Boninsegna, rimpiazzato, scontando un retaggio ancora difensivista, da Alberto Marchetti, con Bettega unica punta. Tutt’altra musica nel ritorno del 29 settembre, quando la Juve fa valere classe superiore e praticità regolando gli inglesi con un gol per tempo. Da incorniciare quello del vantaggio, siglato da Scirea a coronamento di uno dei suoi tipici sganciamenti offensivi, di pura potenza la stoccata con cui Boninsegna chiudeva conti e qualificazione nella ripresa su sponda di Bettega.
Nei sedicesimi la Vecchia Signora riservava lo stesso trattamento allo United, al termine di due gare fotocopia di quelle del turno precedente. Ancora sofferenza il 20 ottobre all’Old Trafford, dove Hill faceva pendere alla mezz’ora l’ago della bilancia a favore dei Red Devils e la prodigalità offensiva negava alla Juve il pareggio. Senza storia il ritorno del 3 novembre, quando sovrastando i rivali proprio sul piano atletico gli uomini di Trapattoni li travolgevano concretizzando la loro superiorità con la doppietta dello scatenato Boninsegna e la stilettata di Benetti.
Tra fine novembre e inizio dicembre la Juve trovava sulla sua strada gli sconosciuti sovietici (oggi ucraini) dello Shakhtar Donetsk. Altra prova di forza dei bianconeri, che archiviavano la pratica già prima dell’intervallo mandando a segno Bettega, Tardelli e Boninsegna. Dai connotati simili alla gita turistica il confronto in Ucraina disputato il giorno dell’Immacolata e preceduto dai reportage dei cronisti italiani alla scoperta degli aspetti nascosti e folkloristici del paese sovietico. Gara di puro contenimento di fronte agli assalti dei padroni di casa, con passivo limitato al gol di Starukhin e sconfitta indolore.
Slancio primaverile
Ancora calcio dell’Est nel menù proposto a marzo dai quarti di finale. Il cliente scomodo questa volta erano i temuti tedesco orientali del Magdeburgo, giustizieri tre anni prima del Milan nella finale di Coppa delle Coppe. Trapattoni ricorreva alle sue consumate alchimie tattiche, schierando Spinosi terzino destro e Cuccureddu ala tornante in luogo dell’indisponibile Causio. Proprio un’incursione del polivalente sardo metteva la partita in discesa dopo appena due minuti, ma Sparwasser ristabiliva la parità attorno alla mezz’ora. Nella ripresa Benetti e Boninsegna ipotecavano la qualificazione. Ancora Cuccureddu protagonista il 16 marzo a Torino, con una cannonata dopo un quarto d’ora che apriva le porte della semifinale.
Esame di greco in semifinale, dove il cammino della Vecchia Signora incrociava quello dell’AEK Atene, coriacea compagine dalla maglia color giallo frittata balzata agli onori delle cronache per aver estromesso nel turno precedente i londinesi del Queens Park Rangers, favoriti numero uno del torneo. Il 6 aprile a Torino era ancora Cuccureddu ad aprire le danze, ma gli ellenici non demordevano raggiungendo il pareggio grazie a Papadopoulos. Nella ripresa i bianconeri si scatenavano e le tambureggianti iniziative fruttavano la doppietta di Bettega e il timbro di Causio per il 4-1 che metteva una seria ipoteca sull’approdo alla finale. Temutissimo l'”inferno” ateniese per la gara di ritorno del 20 aprile, in cui il Trap decideva di nuovo di coprirsi schierando Spinosi terzino e Cuccureddu ala tattica, lasciando inizialmente Causio in panchina. Gli assalti dell’AEK venivano contenuti senza problemi e dopo l’intervallo il Barone veniva gettato nella mischia rilevando Tardelli con l’accentramento del sardo, dando un’impronta più offensiva alla manovra. Il colpo di testa in tuffo di Bobby-gol a cinque minuti dallo scadere suggellava il capolavoro bianconero.
L’apoteosi dopo la sofferenza basca
La Juventus era così ad un passo dal coronare il sogno di conquistare la sua prima coppa europea. Ultimo, tremendo ostacolo, i baschi dell’Athletic Bilbao. L’andata della doppia finale andava in scena a Torino il 4 maggio. La squadra di Trapattoni si trovava di fronte un avversario tignoso, estremamente chiuso, per lunghi tratti addirittura rinunciatario, quasi esclusivamente teso a blindare la porta di Iribar chiudendo ogni varco ai torinesi col “gioco corto” e affidandosi a sporadici affondi di rimessa, in attesa di scatenare l’arrembaggio nella partita di ritorno. Dopo un quarto d’ora i bianconeri riuscivano comunque a sbloccare il risultato con un beffardo colpo di testa-spalla di Tardelli su centro dalla destra dell’avanzante Scirea (il migliore in campo). Prima dell’intervallo Gori rilevava l’infortunato Boninsegna, mentre nella ripresa la Juve incontrava difficoltà sempre crescenti a fare breccia nella retroguardia spagnola e il muro bilbaino reggeva.
Resa dei conti il 18 maggio nella “cattedrale” del San Mames ribollente di tifo e di istanze indipendentiste. In una serata di pioggia britannica tipica dell’anomalo clima atlantico che caratterizza i Paesi Baschi, Madama forniva l’ennesima prova stagionale di praticità, concretezza e maturità. Dopo 7 minuti Bettega colpiva sbucando nel mezzo della difesa biancorossa e siglando di testa su cross dalla destra di Tardelli il gol che sarebbe valso la coppa. Cinque minuti più tardi una fortuita deviazione di Irureta su tiro in mischia di Churruca rimetteva in corsa i padroni di casa e da quel momento si assisteva ad un assalto degli uomini di Aguirre dai toni del crescendo rossiniano. La Juve, costretta sulla difensiva e quasi mai in grado di rilanciare la manovra, ricorreva questa volta al sano e sempre redditizio catenaccio facendo di necessità virtù. Gladiatori Furino e Benetti a protezione dei difensori, cui dava una mano anche Bettega, che sfruttava la sua abilità nel gioco aereo in versione di stopper aggiunto.
Nell’ultima mezz’ora Trapattoni alzava ancora di più le barricate inserendo Spinosi al posto di Boninsegna, e mentre il presidentissimo Boniperti, dopo aver abbandonato secondo tradizione lo stadio all’intervallo, si rifugiava in un bar ordinando un Don Carlos, proprio l’omonimo subentrato operava il sorpasso dell’Athletic facendogli andare il brandy di traverso. Da attentato alle coronarie dei tifosi juventini gli ultimi dodici minuti. La disperata sfuriata basca veniva però respinta al mittente e al triplice fischio liberatorio dell’austriaco Linemayr, grazie al doppio valore della rete segnata in trasferta, capitan Furino poteva alzare al cielo il primo trofeo internazionale della Vecchia Signora.
Quattro giorni più tardi, lo straordinario collettivo di Trapattoni regolava a Marassi la Sampdoria per 2-0 e si aggiudicava l’appassionante volata scudetto con il Torino, coronando una stagione irripetibile in cui scriveva una pagina di storia del calcio che lo consacrava come prima, e finora unica, squadra italiana capace di imporsi in campo internazionale senza stranieri in rosa.