È l’estate del 1982. L’Italia viene da anni di incertezze e paure. Il boom degli anni ’60 è un ricordo. Il decennio seguente segna dapprima la crisi petrolifera del 1973: la riduzione dei consumi e della benzina, il settore industriale in calo, chiusure delle attività commerciali, le prime crepe in un sistema capitalistico fino ad allora considerato fonte di illimitato benessere e prosperosa ricchezza. In Italia quelli sono anche “gli anni di piombo”: violenze di piazza, lotta armata, terrorismo, l’assassinio di Aldo Moro.
Nel 1982 il nostro è un Paese fragile, cammina sul filo dell’incertezza. La mafia uccide il segretario del PCI Pio La Torre e il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie. La Corte d’appello di Brescia assolve per insufficienza di prove gli imputati della Strage di piazza della Loggia, attentato terroristico del 1974, mentre a Roma le forze dell’ordine catturano Giovanni Senzani, una delle menti delle Brigate Rosse. Gli italiani sono stanchi, la loro fiducia nei confronti delle istituzioni, della politica e del futuro è ai minimi termini.
L’appiglio è la nazionale di calcio, ma le premesse non sono le migliori, anche perché il pallone è appena uscito dall’onta del calcio scommesse e fatica a ritrovare identità e spensieratezza. Reduce da una brillante spedizione in Argentina nel 1978, la squadra del Vecio Bearzot ha fallito l’appuntamento con la vittoria agli Europei casalinghi del 1980, giocando un calcio molto meno propositivo ed entusiasmante del ’78, e ora nel Mundial spagnolo stenta. I risultati non arrivano, gli addetti ai lavori criticano, la squadra si qualifica alla seconda fase con tre pareggi non esaltanti contro Perù, Polonia e Camerun. I fucili sono puntati, in attesa di sparare non appena gli azzurri subiranno le giuste e meritate batoste da Argentina e Brasile, corazzate piene di nomi altisonanti, Maradona e Zico su tutti.
Ma è a quel punto che nel gruppo scatta qualcosa. Una vittoria di misura, ma pienamente convincente, contro l’Argentina campione del mondo in carica. E poi il 5 luglio l’appuntamento con la storia. Il Brasile di Telê Santana, il guru visionario che intende riportare i suoi ai fasti del futebol bailado, riedizione del Brasile dei cinque numeri dieci di Messico ’70, quando i verdeoro non si erano limitati a raggiungere la perfezione armonica e stilistica, ma lo avevano fatto nel solco di un calcio potente, dinamico, atletico, moderno. Un mix che pareva impossibile da eguagliare. Ma non per Telê Santana e il suo Brasile del 1982, la squadra del centrocampo delle meraviglie (l’arte di Zico, la geometria di Falcão, la danza di Sócrates, l’esuberanza di Cerezo); la squadra dei terzini-factotum (Leandro e Júnior); la squadra del sinistro magico di Éder. Prima fase dominata, Argentina annichilita nello scontro diretto e ora l’Italia, nuova vittima sacrificale da immolare sulla strada della gloria iridata.
Ma il 5 luglio 1982 accade l’imponderabile e lo stadio Sarrià di Barcellona vede la formica battere la cicala. Il Brasile da surrogato del 1970 si trasforma in quello del 1950, eccesso di superbia e tracotanza. L’Italia ritrova d’un colpo certezze e mentalità vincente. Soprattutto ritrova il suo alfiere principe, Paolo Rossi.
Originario di Prato, 26 anni, un grande Mondiale alle spalle (nel 1978 aveva giocato ottimamente in Argentina, tanto da venire inserito nell’All star della competizione e vincere il Pallone d’argento alle spalle di Mario Kempes), un titolo di capocannoniere della serie B (1976-77, 21 reti) e uno di serie A (1977-78, 24 reti) entrambi al Vicenza. Nato ala destra, Edmondo Fabbri in Veneto lo trasforma in centravanti. Ma non come classico terminale. Rossi è un attaccante mobile, rapido, tecnico, fulmineo, bravo anche a partecipare al gioco di squadra. I “falsi miti” che lo vogliono sgraziato e solo dedito alla finalizzazione – gli stessi che presentano in questo modo anche il tedesco Gerd Müller – non tengono conto delle abilità di Rossi, soprattutto il primo Rossi, quello precedente alla squalifica di due anni per il calcio scommesse (anche se certe caratteristiche le conserverà anche dopo: ad esempio un’invidiabile intelligenza nel gioco senza palla che ho potuto apprezzare visionandolo sovente in maglia Juventus nella prima metà degli anni ’80).
Rossi sa giocare a calcio. Altroché. Piuttosto, a parte quei due anni al Vicenza non è uno che segna tanti gol. Ma Luca Vialli, altro eccellente cannoniere italiano di qualche anno più giovane di lui, un giorno dirà una grande verità: «I gol si pesano, non si contano». E i gol di Rossi sono pesanti come macigni, sempre. Anche sul finire di carriera, nel Milan, quando realizza le sue due uniche reti rossonere nel derby contro l’Inter. Anche al Verona, quando è decisivo per la qualificazione del club scaligero in Coppa UEFA.
Rossi non è banale, mai. Non lo sono i suoi gol. Non lo sono soprattutto quel 5 luglio 1982. Viene da tre partite non eccezionali nel girone. È di fatto fermo da due anni per il calcio scommesse, rientrato giusto per celebrare il 20° scudetto della storia juventina (Boniperti e Trapattoni lo hanno fortemente voluto in bianconero, credendo che non sia finito ma possa ancora esprimersi ad alti livelli), con un gol in tre partite. Bearzot sceglie di dargli fiducia contro l’opinione della gente che vorrebbe al suo posto il bomber della Roma Roberto Pruzzo. Rossi parte male in quel Mondiale. Poi d’improvviso, una folgore.
Anzi. Tre. E nel match dal pronostico chiuso, quello contro il Brasile. Un colpo di testa al 5′ su cross di Cabrini: 1-0. Un gol di rapina al 25′ approfittando di un errato disimpegno per vie orizzontali di Júnior: 2-1. E poi il sigillo definitivo, una deviazione sotto misura scaturita da un corner di Conti e da un tiro di Tardelli al 29′ della ripresa: 3-2. Lampo che acceca Valdir Peres, squarcia la sicumera brasiliana e spiana all’Italia la strada del titolo.
Altre due gemme in semifinale, per tramortire la Polonia orfana di Boniek: tocco di piatto nell’area piccola al 22′ del primo tempo, colpo di testa su cross di Conti al 29′ della ripresa.
La finale è già scritta. Troppo forte l’Italia per una Germania Ovest che arriva all’atto conclusivo in maniera fortunosa, dopo aver estromesso non senza polemiche l’Algeria nel girone, dopo aver rimontato di forza una Francia più forte ma narcisa in semifinale. Italia-Francia forse sarebbe stata maggiormente intensa, equilibrata, avvincente. Italia-Germania Ovest no. Azzurri superiori, sempre e ovunque. Rossi sigla l’1-0 al 12′ del secondo tempo, un altro colpo di testa raffinato su traversone dalla destra di Gentile. La squadra di Bearzot domina, si porta sul 3-0 e concede il gol della bandiera ai tedeschi giusto alla fine.
Rossi in pochi mesi passa dalle stalle alle stelle. Capocannoniere del Mondiale, sei gol nelle ultime tre partite, Pallone d’oro meritato a fine anno, nonostante una concorrenza interna molto forte, da Conti ai colossi della Juventus, Scirea e Zoff su tutti.
È il suo anno di grazia e l’Italia si identifica in lui. Campioni del mondo per la terza volta, la prima del dopoguerra, 42 anni dopo il successo di Vittorio Pozzo e Peppìn Meazza in Francia. Rossi non toccherà più l’apice di quell’estate spagnola, ma il suo palmares negli anni seguenti si amplia ed è uno dei protagonisti della Juventus che finalmente vince anche in Europa: Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni, Supercoppa Europea. Nell’Intercontinentale del 1985-86 lui non c’è già più, la Juve ha preso al suo posto Aldo Serena. Rossi va al Milan, poi al Verona, dove chiude la carriera a 31 anni, vinto dalla stanchezza e da problemi alle ginocchia. Viene convocato ancora per il Mondiale del 1986 in Messico, ma non gioca mai.
Il dopocalcio lo vede dirigente, commentatore tv apprezzato per la competenza e la misura che mostrava anche in campo, testimonial della FAO e sostenitore di diverse iniziative a tutela dei bambini e dei ragazzi meno fortunati.
Cosa è stato Paolorossi – tutto attaccato come si usava alla moda dell’epoca – per il calcio italiano e per l’Italia in generale lo abbiamo toccato con mano nei giorni della sua morte, a soli 64 anni. Un marchio. Un simbolo popolare. Un’icona. L’uomo che ha reso possibile un sogno ritenuto impossibile. Ed è anche grazie a quell’inaspettato trionfo mundial dove lui è diventato per tutti Pablito, che l’Italia ha avviato la riscossa, il nuovo boom degli anni ’80, crescita, benessere, rinnovata fiducia nel futuro. Pastasciutta. Mandolino. Paolorossi.
Pochi giocatori nella storia del nostro calcio hanno avuto un simile impatto a livello nazional-popolare. E nel dopoguerra solamente Roberto Baggio, tra i calciatori offensivi italiani, ha offerto un rendimento paragonabile al suo nella competizione principe, il Mondiale. Paolorossi, un mito che non tramonta, un nome che ha fatto sognare una generazione intera e ha affascinato quelle successive. Predatore che si muove furtivo nell’ombra, pronto a piazzare la stoccata vincente, il colpo beffardo e irridente che nessun portiere del mondo può fermare.
PAOLO ROSSI (1956-2020)
CARRIERA |
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CLUB Como (1975-76, 6 presenze) Vicenza (1976-79, 108 presenze e 66 gol) Perugia (1979-80, 36 presenze e 14 gol) Juventus (1981-1985, 138 presenze e 34 gol) NAZIONALE 48 presenze e 20 gol (di cui 9 ai Mondiali) |
SUCCESSI DI SQUADRA |
• 1 campionato di serie B (1976/77) • 2 campionati di serie A (1981/82 e 1983/84) • 1 Coppa Italia (1982/83) • 1 Coppa delle Coppe (1983/84) • 1 Supercoppa Europea (1984) • 1 Coppa dei Campioni (1984/85) • 1 Mondiale (1982) |
SUCCESSI INDIVIDUALI |
• 1 capocannoniere di serie B (1976/77) • 1 capocannoniere di serie A (1977/78) • 1 capocannoniere del Mondiale (1982) • 1 capocannoniere della Coppa dei Campioni (1982/83) • 1 Pallone d’Oro (1982) |