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Il flop dell’Italia nasce da lontano: i perché di un fallimento annunciato

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Immagine di copertina: Gravina e Spalletti

Lo spunto ci è arrivato dalla diretta con l’allenatore Gianni De Biasi, che potete riascoltare qui o qui.
De Biasi ha sostenuto che il calcio italiano primeggi con grande costanza a livello di selezioni giovanili. Ha citato la nazionale azzurra Under 17 campione d’Europa. Ha parlato del fatto che – malgrado un elevato numero di calciatori stranieri nei vivai – gli allenatori continuino a lavorare in un certo modo e a produrre calciatori di qualità.

Secondo lui non siamo diventati di colpo una nazione incapace di generare talento.
Ma poi, una volta che questi talenti devono salire di livello e affacciarsi in prima squadra, si perdono. O meglio: si perdono perché non vengono impiegati abbastanza, non si dà loro fiducia. «In Sudamerica e nel Nord Europa» ha detto invece De Biasi «questo avviene con grande continuità e frequenza».

È innegabile che un fondo di verità ci sia e che da noi sarebbe alquanto improbabile vedere un 17enne come Lamine Yamal già titolare in nazionale o Jamal Musiala con alle spalle oltre 30 presenze in nazionale e più di cento in prima squadra a livello di club. Ma è davvero questo l’unico motivo per cui l’Italia continua ad andare incontro a figuracce nei grandi tornei internazionali dopo il 2006 – se si esclude il clamoroso successo della Mancini-band nel 2021 e qualche altra timida comparsata qua e là, come la finale conquista a Euro 2012?

Secondo noi si possono trovare anche altre motivazioni.
De Biasi ha parlato di «italiani troppo mammoni», troppo coccolati e viziati, incapaci cioè di prendere armi&bagagli e partire per misurarsi all’estero, in un calcio differente. Continuiamo a esportare pochissimi giocatori: una volta era perché la Serie A era una sorta di Bengodi, oggi probabilmente è perché i nostri calciatori sono poco richiesti e appetibili, soprattutto ai massimi livelli internazionali.

Di chi è la colpa?
Delle società italiane che non hanno pazienza e non danno fiducia ai giovani? O dei giovani che non sono pronti a misurarsi ai livelli più alti, perché dopo un’ottima trafila nei vivai, si perdono fallendo l’ultimo e decisivo step?
Probabilmente sono vere entrambe le ipotesi. Una non esclude l’altra, e anzi la alimenta e la fortifica.

Resta, alla fine di tutto, un’amara domanda che presuppone una ancora più amara risposta: tra i calciatori nati in Italia – una delle nazioni guida del calcio, con un palmares che pochi possono vantare – dopo il 1980 quanti possono essere definiti fuoriclasse o meglio giocatori capaci di spostare l’asticella nei più alti prosceni mondiali? Parliamo di un plateau di scelta di oltre vent’anni, dato che a questi Europei abbiamo schierato tra i titolari (ed è stato uno dei meno negativi) un classe 2002.

Ecco la risposta che ci siamo dati.

Tra i fuoriclasse o giocatori capaci di spostare l’asticella nei più alti prosceni mondiali, c’è sicuramente Gianluigi Donnarumma, portiere classe ’99. Il solo a tenere alto l’orgoglio italiano nell’infausta spedizione di Germania 2024 e che a 22 anni si prese, con pieno merito, il titolo di miglior giocatore del Campionato Europeo.

Gianluigi Donnarumma, faro dell’Italia [Photo by Claudio Villa/Getty Images]

Poteva esserci Antonio Cassano, classe ’82, talento sopraffino e mezzi straordinari, arenatosi però sulle contraddizioni di una testa e un carattere difficili da gestire. Qualcuno potrebbe, forse, avanzare la candidatura di Mario Balotelli, classe ’90, che però rispetto a Cassano non possedeva già le stimmate del genio e che ha avuto una carriera, a conti fatti, ancora più limitata di quella del talento di Bari Vecchia. Qualcun altro potrebbe poi alzare il ditino e sussurrare il nome di Federico Chiesa, in virtù di un Euro 2021 a tratti disarmante, ma che a 27 anni sembra il classico calciatore a cui manchi sempre una lira per fare un milione.

Si possono quindi annoverare alcuni ottimi, grandi giocatori, a cui però sembra un po’ azzardato attribuire la patente di fuoriclasse.
C’è Daniele De Rossi, centrocampista classe ’83, forte, completo e carismatico, eppure mai davvero una stella di prima grandezza nel ruolo su scala mondiale. Sulla sua stessa lunghezza d’onda si possono collocare Nicolò Barella, il factotum dell’Inter classe ’97; Marco Verratti, classe ’92, uscito da qualche anno però dal giro che conta; e – almeno in alcuni momenti della carriera, uno proprio a Euro 2021 – il compassato e metodico Jorginho, classe ’91, decisamente calante oggi.
E poi tra i difensori la famigerata Bbc juventina, formata dal classe ’81 Andrea Barzagli, dal classe ’84 Giorgio Chiellini e dal classe ’88 Leonardo Bonucci. Tre giocatori che nei rispettivi ruoli sono stati effettivamente di alto profilo internazionale. Ma anche nel loro caso la parola fuoriclasse appare un po’ eccessiva. Chissà che un Alessandro Bastoni, classe ’99, e la novità Riccardo Calafiori, classe 2002, possano posizionarsi almeno sul loro stesso piano.

Non ci vengono in mente altri esempi.
E onestamente non è uno scenario degno di una nazione che, per storia, dna e tradizione, punta a recitare un ruolo da protagonista nel calcio che conta.
Il confronto con altre scuole europee, a partire da quella francese e inglese, è impietoso, ma lo è anche con la generazione italiana nata negli anni ’70. Quella dei Gianluigi Buffon, degli Andrea Pirlo, dei Francesco Totti, degli Alessandro Del Piero, degli Alessandro Nesta, dei Fabio Cannavaro.
Ognuno di loro – tutti venuti al mondo tra il 1973 di Cannavaro e il 1979 di Pirlo, dunque in un arco temporale di sei anni – è superiore a qualsiasi altro calciatore italiano nato tra il 1980 e la fine degli anni ’90, dunque nell’arco di oltre un ventennio. A naso, forse solo Donnarumma a fine carriera potrà sedersi, a grandi linee, al loro stesso tavolo.

Del Piero e Totti, tra i simboli di una generazione, quella dei nati negli anni ’70, ricchissima di talento per il nostro calcio

Dunque, c’è – ed è innegabile – un problema di produzione di talenti, di valore internazionale dei calciatori che in Italia oramai terribilmente manca.

Però nella preoccupante uscita di scena degli ultimi Campionati Europei hanno inciso anche altri fattori.
L’allenatore ha sicuramente le sue responsabilità, anche se sempre Gianni De Biasi lo ha difeso a spada tratta, dicendo che fosse la scelta migliore.

Il confronto con la Svizzera è stato impietoso, non solamente sul piano del risultato, ma anche della proposta di gioco, dell’agonismo, dell’intensità.
Da una parte c’era una nazionale organizzata, quadrata, in forma e con un’identità ben definita. Dall’altra no. È sempre difficile in casi come questi pesare i meriti di una squadra e i demeriti dell’altra, ma gli elvetici ci hanno dimostrato come anche in assenza di campionissimi sia possibile fare strada in tornei importanti e competere con chi sulla carta è più attrezzato.

Paradossalmente, potrebbe addirittura aiutare il fatto di essere in pochi e dover essere costretti a creare un’amalgama attorno ad un gruppo ristretto di calciatori che nel tempo imparano a giocare assieme. E così è successo che una nazione di nemmeno 10 milioni di abitanti, il cui sport nazionale non è mai stato il calcio, ha vinto largamente contro una di 60 milioni il cui sport nazionale è il calcio da 100 anni.

Sintesi del 2-0 della Svizzera all’Italia

Il successo degli svizzeri consente di aprire una parentesi su un altro punto fondamentale: l’integrazione e l’inclusione della società in cui vivamo.
Da diversi anni ci sono nazioni – come appunto la Svizzera, ma anche la Germania – che hanno cambiato totalmente pelle e modo di giocare.

Il modo di giocare risente inevitabilmente degli influssi culturali e sociali.
La Svizzera e la Germania sono diventate sempre più, negli ultimi decenni, Paesi multietnici, dove nei vivai trovano spazio moltissimi figli di immigrati, i quali però sono tendenzialmente ben inseriti e amalgamati nel tessuto della nazione di riferimento. Crescono portando sui campi di gioco le caratteristiche morfologiche e di dna delle loro nazioni di origine, ma le uniscono agli insegnamenti tecnici e alle lezioni tattiche delle nazioni che li hanno accolti e fatti crescere.

Nascono così giocatori e squadre ibride: che accanto ai Freuler e agli Aebischer, ai Kimmich e ai Wirtz, propongono Xkaha, Vargas ed Embolo oppure Gundogan, Musiala e Sané. Mescolando etnie e culture differenti, si genera un calcio nuovo, diverso, che conserva alcune caratteristiche tipiche di un Paese, ma ne abbina altre, frutto dei territori da cui questa gente proviene.

Ma in Italia non lo abbiamo ancora recepito. Non del tutto, almeno. La nostra nazione è molto autarchica, fatica più di altre ad assorbire e includere cittadini di altre parti del mondo, ad aprirsi concretamente al diverso senza pregiudizi.

Così il nostro calcio, a differenza di quello svizzero o tedesco, si sta evolvendo con maggiore fatica. Per certi versi l’Italia del calcio è ancora ferma al ‘900. A un calcio fatto di grande organizzazione difensiva e poco possesso, di ruoli specialistici e iniziative individuali.

In un mondo globalizzato è stato inevitabile farsi influenzare anche da alcune idee che arrivavano da fuori confine, ma da noi queste idee sembrano attecchire meno – o meglio: funzionare meno. E questo capita proprio perché, mancando alle spalle una vera società multietnica, non nascono e non si sviluppano dalle fondamenta, ma vengono recepite quando la struttura è già formata.

È un po’ come quando si vuole imparare una cosa nuova: se la si apprende da bambini, tendenzialmente, si radicherà in modo molto più profondo che se la si apprenderà da adulti.

Infine, questa eliminazione ha portato a un altro nodo al pettine, tipicamente italiano.
La mancanza, o quanto meno la scarsità, di un vero senso di responsabilità.

Dopo un fallimento di questa entità, il presidente della Federazione italiana gioco calcio Gabriele Gravina avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni.
E così avrebbe dovuto fare il ct Luciano Spalletti.

Perché è vero, nel caso di Spalletti, che come visto sopra il materiale umano non è dei più rilevanti, però questo non può bastare per giustificare simili figuracce.
Il materiale era scadente anche nelle mani di Antonio Conte all’Europeo del 2016. Eppure in quell’occasione, l’Italia superò 2-0 Belgio e Spagna e si arrese nei quarti, solamente ai calci di rigori, alla Germania campione del mondo in carica.

Tutta la grinta di Antonio Conte a Euro 2016

E quell’Italia, appunto, difesa a parte (Buffon più la Bbc juventina) da centrocampo in su aveva ancora meno valori individuali di questa. Con gente come De Sciglio, Giaccherini, Parolo, Zaza, Pellé, Eder tra i titolari. Che non valgono di certo i Barella e i Chiesa ammirati in questa edizione.

Spalletti non ha saputo motivare i giocatori nel modo adeguato, perché è pieno il mondo – lo dimostra proprio l’Italia di Conte nel 2016, ma di esempi ve ne sono stati anche in questo Europeo – di squadre che pur con limiti tecnici giocano con il classico coltello tra i denti, compiendo autentiche imprese o andandoci comunque vicine. L’Italia invece è stato il nulla assoluto.

Senza dimenticare che Spalletti ha cambiato formazione quattro volte in quattro partite, inventandosi giocatori fuori posizione e fuori ruolo e barcamenandosi tra la difesa a 4 – da lui tanto amata ma poco incline alle caratteristiche dei difensori a disposizione – e la difesa a 3 – da lui poco sopportata, ma più in linea con quanto oggi proponga il nostro movimento (banalmente, è il sistema difensivo applicato dall’Inter, la miglior formazione italiana da qualche anno a questa parte).

Anche in questo caso, la piccola e multietnica Svizzera ci ha dato una lezione. Perché Yakin ha adattato il modulo ai giocatori, mentre Spalletti ha fatto esattamente il contrario.

Articolo a cura di NICCOLÒ MELLO e JO ARAF

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