Immagine di copertina: un allenamento dell’Italia al Mondiale 2014. Si vedono Ogbonna, Balotelli ed El Shaarawy
Con questo articolo voglio analizzare i motivi della crisi che attanaglia il calcio italiano a livello della Nazionale maggiore da molto tempo e, temo, per molto tempo ancora. Essa non è solo di risultati, ma anche di gioco, di evoluzione tattica e, soprattutto, di prospettiva. A chi obietta sul primo di questi aspetti che tre anni fa di questi giorni gli Azzurri giravano per Roma con il pullman scoperto agitando il trofeo europeo appena conquistato e fendendo una folla osannante e impazzita di gioia, rispondo che, giustamente, quella vittoria inaspettata non fu salutata come un successo di un movimento in fieri, ma come il coronamento della carriera di molti giocatori giunti all’ultimo chilometro della carriera.
Al di là, ripeto, della incredulità e dello stupore generale che accolse quell’evento festoso, non è un caso che, a distanza di soli tre anni pochissimi protagonisti di allora abbiano fatto parte dell’ultimo roster impegnato in Germania. È cambiato pure l’allenatore/selezionatore, dal momento che quello precedente, capendo forse che il materiale umano su cui poter lavorare non fosse di livello accettabile, ha preferito virare altrove, mentre il successore, forse obnubilato dallo specchio bugiardo di uno scudetto appena vinto, ha presunto l’impossibile.
Chiuso l’argomento della vittoria di tre anni fa e restando alla crisi di risultati, ritengo superfluo ricordare che sono dieci anni che la nostra nazionale non partecipa ai Mondiali e che l’ultima volta che riuscì a superare la fase a gironi fu addirittura nel 2006, nell’edizione che peraltro vinse anche con merito. Nell’immaginario collettivo, gli azzurri appartengono ancora all’élite mondiale, ma in realtà da 18 anni, nella massima competizione calcistica, si è persa qualsiasi nostra traccia.
Venendo quindi senza indugi ai motivi di questa complessa quanto indiscutibile crisi, credo che tra questi il più importante sia un fenomeno sociale e politico molto dibattuto nel nostro Paese oramai da decenni. Mi riferisco ovviamente all’immigrazione che molta, troppa gente delle nostre regioni ha visto e vede ancora come un pericolo piuttosto che come una risorsa, come un fenomeno da combattere e non un’occasione di generosità e accoglienza. Sono alcune forze politiche italiane che, sia quando governano sia quando sono all’opposizione, fomentano la paura dello straniero, specie se becero e povero, impedendo di fatto quello che altri Paesi svolgono con naturalezza, la giusta naturalezza, da anni: l’integrazione.
In Italia siamo molto indietro. Nel 1991 c’era l’1% di bambini nati da immigrati, nel 2012 sono diventati il 15%. Ma nella serie A attuale c’è l’1% di figli di stranieri, in Primavera il 3,5%. Eppure negli ultimi anni l’incidenza degli iscritti nei settori giovanili è in crescita. Molti mollano o vanno all’estero perché da noi continuano a essere considerati stranieri e in LegaPro incappano nelle rose a numero chiuso. La procedura per i tesseramenti è macchinosa, molti ragazzi non riescono a iscriversi e per diventare italiani bisogna aspettare i 18 anni. E si verificano troppi episodi di razzismo. La squalifica di 10 giornate è troppo pesante – in Germania e in Francia il massimo è 5 turni – se parliamo di ragazzini, e non è accompagnata da un percorso educativo. Il sistema fa poco. In Germania invece hanno favorito l’integrazione attraverso lo sport, come si vede dalla nazionale.
Max Mauro, docente di giornalismo sportivo all’università di Southampton e autore di “Balotelli generation”, in un’intervista recente rilasciata a “La Repubblica”
È bene essere chiari su questo punto per non scivolare nella faziosità: se ci limitiamo all’Europa, ci sono paesi che sono multietnici per colonialismo, per sopraffazione, tipo Inghilterra, Francia, Portogallo e Olanda e ce ne sono altri che lo sono per accoglienza e corretta integrazione, come la Germania, la Svizzera, la Spagna e altre. In ogni caso, e anche non prendendo a paragone le prime, dove il fenomeno è ormai storico, il ritardo che noi abbiamo accumulato, come Paese ma anche come espressione sportiva e soprattutto calcistica, nei confronti degli altri è diventato impressionante e forse incolmabile.
Come fortunatamente molti, anch’io penso che la commistione di idee, di origini, di costumi, usi e culture produca ricchezza umana e ulteriore cultura in ogni ambito scientifico, civico, sociale e sportivo. E penso anche che, anche nel piccolo mondo del grande calcio questa antica regola abbia i suoi effetti positivi. Laddove però, è ovvio, venga applicata. Se un Paese, per uno dei mille motivi purtroppo possibili, fa fatica anche solo ad accogliere chi proviene da lontano offrendo lavoro in cambio di aiuto, l’integrazione diventa un miraggio e, nel migliore dei casi, un processo lunghissimo.
Ecco perché la nazionale tedesca vinceva i Mondiali del 2014 con Ozil, Khedira, i fratelli Boateng, Klose, Podolski, negli anni in cui, ancora sotto la “caudina”’” della legge Bossi.Fini, noi si discuteva se era giusto che, moralmente!, uno come Balotelli vestisse l’azzurro. Nel 2009, addirittura, la Germania under 19 aveva vinto l’Europeo di categoria con una rosa che più multietnica non si può immaginare, ma non vorrei che lo snocciolare successi e vittorie ci portasse fuori strada rispetto al discorso dell’integrazione. Nel senso che è più facile, anche in Italia, accettare il “diverso”, il non perfettamente italico nel nome e nel soma, a patto che vinca e che continui a farlo.
Gli esempi si sprecano, da Gustav Thoeni a Zurbriggen, da Fiona Mey ai più recenti Jacobs e Jasmine Paolini (leggi un recente approfondimento del Corriere della Sera qui), ma sono tutti esempi che fanno storcere il naso a puristi e sciovinisti e che reggono, appunto, solo fino a quando il vento soffia in poppa. L’integrazione vera ci sarebbe solo quando e se questi ‘nuovi italiani’ fossero acclamati, o almeno solo sostenuti, anche a fronte di risultati normali o modesti. Il già citato Balotelli, al di là delle sue tare comportamentali, ha cominciato ad essere considerato ‘altro da noi’ appena la sua parabola talentuosa ha cominciato a deflettere l’ascesa. Così dicasi, per rimanere nel calcio, per gli Ogbonna o gli Udogie.
Ma il rapporto tra calcio e cultura calcistica non può limitarsi solo all’utilizzo dei giocatori. Esso viaggia a livelli più alti e comporta proprio i concetti tecnico tattici che sono l’espressione profonda della qualità di ogni rappresentativa nazionale. Il nostro Niccolò Mello faceva recentemente e giustamente notare come il gioco della Francia si sia evoluto, o semplicemente sviluppato, in relazione alle struttura fisica dei giocatori impiegati, nella quasi totalità dei casi di grossa stazza, neri, dotati di arti lunghi e possenti di movenza. Lontanissimi dai Platini, Giresse e Tigana dell’aurea storia gallica.
Ripeto fino all’esasperazione: cultura è commistione, è intaccamento, è incursione nella purezza, è accettazione del nuovo e diverso, è miscela d’intelligenze, è sensibilità di sviluppo.
E questo riguarda anche gli allenatori, i selezionatori di rappresentative nazionali. Se essi sono visti come i depositari della tradizione nazionale, come in Italia e forse in America Latina, il loro compito è quello di chiudere i porti e di evitare contaminazioni.
Se invece sono visti come studiosi dell’evoluzione, ecco che non solo accettano le nuove cittadinanze, ma accettano anche le nuove proposte tecnico tattiche che quelle culture di provenienza possono portare come prezioso bagaglio.
Solo la fusione di questi aromi calcistici può produrre quelle novità stilistiche che intravvediamo qua e là ma che non sono mai tinte d’azzurro. Non dimentichiamoci infatti che noi siamo il Paese che fino a vent’anni fa aveva affidato la Nazionale maggiore ad allenatori federali, senza esperienze di club, e che ancora adesso il nostro settore giovanile ufficiale è affidato a questi tecnici, diciamo, centralizzati. I cui risultati, tra l’altro, a livello di manifestazioni internazionali, sono tutt’altro che disprezzabili.
Tanto che moltissimi ritengono che il vero profondo motivo del flop della nazionale sia il fatto che i nostri giovani di talento non trovino abbastanza spazio nella Serie A e finiscano per intristirsi e sparire dai radar. Personalmente, penso invece che, al di là di quanto detto a proposito dell’integrazione molto parziale, sia sbagliata proprio l’impostazione della preparazione nei vari settori giovanili e, di conseguenza, in quello federale.
A mio parere è sempre un errore, quando si parla di futuri talenti anche in un gioco di squadra come il calcio, puntare sulle vittorie, perfino quelle di prestigio. Anche se sembra un controsenso, è invece molto più produttivo insegnare il gioco al singolo giocatore, magari anche cambiandogli ruolo, magari spesso o anche solo ogni tanto. Ogni volta, lo dico per esperienza diretta nel basket, si privilegi il risultato all’insegnamento si fa un passo indietro, convinti di farne due in avanti.
Mi fermo qui, con il timore purtroppo che la crisi del nostro calcio azzurro sia profonda e lungi dall’essere superata. Spero di sbagliarmi, ma credo che servano troppe mutazioni di dogmi e messe in discussione di certezze per poter accorciare una notte che vedo poco luminosa e lunghissima.