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Spagna e Argentina, un legame di magia nel segno del fútbol

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Immagine di copertina: Yamal e Messi

Spagna e Argentina illuminano un sogno di una notte di mezza estate che attraversa il globo e intercetta la gloria calcistica, futbolistica. Quella di popoli imparentati forse da un’antica prepotenza dell’uno sull’altro e oggi accomunati da lingua e molti altri riferimenti culturali, ma che, ciascuno con il suo stile, pone nell’arte pedatoria moltissime ambizioni di supremazia, se non addirittura di dominio.

Anzi, paradossalmente, è proprio il lessico relativo al calcio uno degli elementi che meno avvicina queste genti e sono proprio le ambizioni ad esso relative che, in qualche modo, allargano una forbice ormai quasi arrugginita, pressoché bloccata, impossibile da chiudersi. Ambedue avendo come platea l’universo mondo e non solo il rivale dirimpettaio ma ispanico, la Spagna per ribadire e l’Argentina per negare un diritto di impero e di imperio.

La Roja e l’Albiceleste azzerano adesso, lunedì 15 luglio, un fuso orario che forse sta piegando gli insonni e i patiti, quelli che adesso ciondolano e che capiranno bene solo domani. E sono due trionfi molto diversi, per certi versi quasi opposti. Quello europeo incorona la squadra migliore, più bella, più forte e più vincente e convincente in una unanimità di punti di vista sacrosanta e senza precedenti. Una totalità di fattori in cui ne vanno aggiunti altri due di non poco conto: la Spagna 2024 è la squadra più rinnovata nel modo di giocare di tutto il Vecchio Continente e quella che, anagrafe alla mano, ha più prospettive tranquille e promettenti avanti a sé.

Forse solo gli inglesi, da quest’ultimo lato, possono vantare un futuro altrettanto roseo. Gli iberici alzano al cielo di Berlino, avvezzo alla Storia, una Coppa meritata e una coppia straordinaria di frecce ancora attaccate all’arco ma già potenti e saettanti, gioiose e acuminate. Il sorriso di Rodri e Carvajal è quello di padri consapevoli, quello di Lamine e Nico è quello dei ragazzi che giocano e si divertono a essere se stessi e si vede da lontano che non hanno dovuto giustificare a nessuno di essere vivi e di esserlo lì.

La Spagna ha vinto perché ha mescolato bene le carte, quelle etniche e anche quelle temporali, affondando il destino e la fantasia nel passato, nel presente e nel futuro. Voglio citare, per concludere il capitolo spagnolo, tre emblemi viventi dell’intelligenza in fieri, l’unica in grado di inventare.

Il primo è il coach De La Fuente, padrone discreto di dubbi che diventano prove e di tentativi che diventano certezze, il secondo è Dani Olmo, riserva senza polemiche di Pedri, che era fuggito giovanissimo dalla cantera più prolifica del mondo per andare a intaccare il proprio sapere calcistico, latino e catalano, con assonanze e incursioni balcaniche. E facendo così è riuscito a creare un’armonia, una sinfonia calcistica senza precedenti, una sapienza priva di paternità avendo troppe tracce, troppi padri.

Il terzo emblema ha la faccia teutonica di Fabian Ruiz, giocatore vintage e fromboliere siderale, uno che usa il corpo come Mariolino Corso e la mente come Gianni, il Rivera. Avrà anche la parlata ispanica e una certa eleganza perfino madrilista, ma arrota le giocate come fossero aperitivi al tramonto. Ecco, ha la postura del maitre, discreto nelle mosse, ma molto audace negli sguardi.

Il trionfo albiceleste ha quasi invece le sinfonie decadenti della nostalgia. Un mix di marpioni d’esperienza che sanno come si fa, ma fanno sempre più fatica a farlo, vecchi saggi che quasi non si ricordano più e pochi giovani con il futuro già indossato che imitano gli altri, per rispetto e per mancanza di supponenza. L’Argentina attraversa il suo tempo come una nave orgogliosa del suo viaggio, ma anche del suo molo di arrivo.

Qualche analogia con quell’Italia dei Bonucci e degli Spinazzola del 2021 affiora qua e là e sembra quasi un sopruso, un insulto, anche se non si capisce bene chi lo lanci e chi lo riceva. Messi si è arreso a questa vittoria senza di lui, ma con lui e per lui. E Lautaro, il mio figlio toro e nerazzurro si immola al suo ruolo di goleador, lui che ha capito solo quest’anno, già quest’anno, la bellezza di giocare lontano dai pali altrui.

L’Argentina intravede i due fari dei moli di fine viaggio e suona una sirena lunghissima, come quella che accompagnava friulani e calabresi a cercar pane là in cambio di fatica e obbedienza. Ora i figli di quei figli di marmo e nostalgia cantano e ballano sugli spalti al ritmo bianco e celeste di una nuova meraviglia, al ritmo segreto di un’ennesima rivalsa verso quelli che gli hanno rubato il cuore e perfino la lingua. Quelli là, che stanno urlando la felicità sotto il cielo di Berlino, come in un sogno di una notte di mezza estate, nel tragitto lunghissimo di stelle tra il 14 e il 15 luglio 2024.

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