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Io di te non mi stanco. Ode ad Alessandro Del Piero

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Ho pensato a lungo a cosa scrivere su Alessandro Del Piero, in occasione del suo quarantasettesimo compleanno. Mi sono venuti in mente tantissimi modi per aprire l’articolo, ma poi li ho scartati tutti uno dopo l’altro.

La verità è che per me parlare di Alex non è facile. Ho sempre paura di non essere sufficientemente abile a descrivere esattamente il mio pensiero su di lui e su cosa stato per me il Pinturicchio nella mia infanzia e nella mia adolescenza. 

Dante nella Divina Commedia ha dovuto fare i conti con l’ineffabilità di Dio e del Paradiso, e oggi nella mia dimensione infinitamente minore e in un argomento assai più “terreno” e profano mi sento un po’ come lui (permettetemi di dirlo!).

Alessandro Del Piero è il giocatore che ha acceso in me la scintilla, poi divampata in un fuoco di passione, per il calcio. E, come ogni innamoramento, non ha logiche razionali e lineari, a maggior ragione quando si è ancora bambini: il mio primo nitido ricordo calcistico su di lui è quel gol con un colpo di testa in tuffo contro il Messico ai mondiali di Corea e Giappone del 2002, che – anche grazie alla contemporanea sconfitta della Croazia contro l’Ecuador – portò l’Italia agli ottavi di finale. Un gol di testa che non è esattamente la specialità della casa, e di una “bellezza” assolutamente normale.

Italia-Messico 1-1, mondiale 2002. A sei minuti dalla fine, Del Piero pareggia di testa in tuffo.

Eppure è proprio quello il momento in cui nel mio inconscio il nome di Del Piero venne marchiato con il fuoco. Cominciai a seguirlo assiduamente e rimasi folgorato dalla sua classe “lenta” – e dico “lenta” perché era già il giocatore post infortunio di Udine e non aveva più la velocità supersonica con la palla al piede che aveva nei primi mesi del 1998 –  e dal suo tocco di velluto. Nacque così una passione che è arrivata fino ad oggi e che mi porta in una giornata di novembre a scrivere queste righe per ricordare il mio idolo, ora che sono in un età più vicina ai trenta che ai venti e che Del Piero si è ritirato dal calcio giocato ormai da molti anni.

Il gol alla Del Piero

1996/97, Juventus-Verona 3-2 in rimonta. La discesa dalla sinistra, il dribbling e l’arcobaleno sul palo più lontano. Una delle pennellate più belle del Pinturicchio.

C’è un marchio, una firma indelebile e inconfondibile, che Alex ha lasciato nel mondo del calcio: il suo inconfondibile destro a giro a palombella sul palo più lontano. Certamente non è un tiro che è stato inventato da Alex, è sempre esistito.

E allora perché si chiama “Gol alla Del Piero”, sebbene tantissimi altri abbiano segnato in quel modo, prima e dopo di lui?

Credo che la risposta stia nell’analisi dell’ascesa di Del Piero tra i grandi: a seguito del suo debutto in un Foggia-Juventus del settembre 1993 e del suo primo gol in bianconero, arrivato la settimana seguente contro la Reggiana (un sinistro sporco che sigilla il 4-0), nel primo anno juventino Alex si divise tra prima squadra e primavera, con cui vinse il Torneo di Viareggio e il campionato di categoria, e il giocatore decisivo (manco a dirlo) fu lui. Nella stagione 1994/95 fu invece impiegato con regolarità e continuità da Marcello Lippi: a causa dei guai fisici che tormentavano il ginocchio di Roberto Baggio, non di rado Alex si prese i galloni del titolare, mettendo a segno reti di una bellezza accecante, a partire dal famoso esterno al volo contro la Fiorentina nel dicembre 1994, fino ad arrivare all’arcobaleno di pochi giorni dopo contro la Lazio: discesa da sinistra in serpentina tra due giocatori e destro che disegnò una parola che scavalcò Marchegiani e andò a morire nell’incrocio dei pali. Quel ragazzino dalle movenze agili e aggraziate – che agli addetti ai lavori ai tempi del Padova ricordava Van Basten – e dai lunghi capelloni incolti stava incominciando a conquistare la platea italiana e lo scudetto di fine anno portava anche la firma del Pinturicchio, così soprannominato dall’Avvocato Gianni Agnelli, come un pittore semi sconosciuto in grado di dipingere capolavori degni di Raffaello (ossia Roberto Baggio?).

1994/95 Lazio-Juventus 3-4, Alex fece due gol, di cui uno così.

Alessandro Del Piero ripeté in sequenza quelle pennellate, come in una rincorsa alla ricerca delle perfezione, nella successiva campagna europea, che si concluse con la vittoria ai rigori contro l’Ajax nello Stadio Olimpico di Roma il 22 maggio 1996. Le sue reti contro il Borussia Dortmund, lo Steaua Bucarest, i Rangers di Glasgow ebbero tutte come minimo comune denominatore la parabola sul palo più lontano che il portiere poté solo sfiorare, ma mai toccare. Le sue notti europee da protagonista lo resero uno dei più famosi calciatori d’Europa e, sul finire di quell’anno, con il gol vittoria nella Coppa Intercontinentale contro il River Plate a Tokyo, la sua fama divenne mondiale.

Alex ripeté quel tipo di gol lungo tutto l’arco della carriera, con tante varianti, fino ad arrivare alla rete a Torino contro il Real Madrid ai gironi nel 2008 – meno famosa della doppietta al Bernabeu di due settimane dopo, ma ugualmente bella e importante – o nelle scomode sfide di Europa League nel 2010 contro lo Sturm Graz o in Coppa Italia contro la Roma l’anno successivo con il suo primo gol allo Juventus Stadium, a dimostrazione che l’arte e la classe sono eterne e senza tempo.

Gli anni passano, la classe resta. Juventus-Sturm Graz, Europa League 2010/11.

Perdersi per ritrovarsi

Se mi chiedessero quale fu la miglior versione di Del Piero, senza troppi dubbi indicherei l’annata 1997/98. Non solo per i risultati e il numero di reti messe a segno – Del Piero trascinò la Juventus alla vittoria dello scudetto in un logorante duello contro l’Inter di Ronaldo con 21 reti, nonché in finale di Champions, con 10 reti, da capocannoniere del torneo – ma soprattutto per le incredibili condizioni psicofisiche del fantasista bianconero, in grado di abbinare qualità delle giocate a strappi supersonici con la palla al piede, domenica dopo domenica. Se il migliore giocatore del mondo era Ronaldo Il Fenomeno, Del Piero era l’unico, in quell’anno, in grado di tenergli testa. 

C’è una sliding door nella carriera di Alex, e – a differenza di quanto potreste pensare – non è l’infortunio al ginocchio avvenuto a Udine ad ottobre 1998. Non solo, almeno: la straordinaria stagione 1997/98 si concluse nel modo più amaro possibile, con la sconfitta della Juventus in finale contro il Real Madrid, a seguito di un contestato gol di Mijatovic per fuorigioco, e con un infortunio muscolare per Del Piero, che pregiudicò anche il suo rendimento al mondiale francese, dove era atteso da grande protagonista di fronte alla storia. L’onda lunga della spirale negativa dove era incappato Alex non poteva non ripercuotersi sul rendimento agli inizi della stagione seguente, con pochi lampi – uno dei quali è la fantastica doppietta alla Svizzera proprio ad Udine – e tanti momenti di appannamento, culminati con la tragica rottura del legamento crociato del ginocchio sinistro all’ultimo minuto della partita in trasferta contro l’Udinese, dopo un normale contrasto di gioco con Zanchi.

I nove mesi di stop furono durissimi, per lui e per la squadra, e dal rientro contro il Rostov dell’agosto 1999 iniziò per Del Piero una lunga ricerca di se stesso: un giocatore con volontà e impegno da gregario cercava il fantasma di un se stesso che non c’era più. I gol arrivavano per lo più su rigore, i dribbling in velocità erano sempre più rari e meno armonici, il vento delle polemiche intorno ad Alex e alla sua capacità di poter fare la differenza con la Juventus e con la nazionale – Agnelli coniò per lui il soprannome Godot, dalla celebre opera teatrale di Beckett, dove il protagonista tanto atteso non arrivava mai – soffiava sempre più forte, eppure a volte basta una scintilla per innescare un incendio. Il 18 febbraio 2001, a pochi giorni dalla scomparsa del padre Gino – elettricista di San Vendemmiano e figura tanto riservata e silenziosa quanto rispettata dai figli – Del Piero si accentrò dalla fascia, fece un doppio passo sul difensore e scavalcò Gillet in uscita con un pallonetto mancino, per poi lasciarsi andare in un urlo e in un pianto liberatorio sulla spalla del compagno Alessio Tacchinardi. Dalla polvere ci si può rialzare, con il lavoro, la dedizione e la fatica. Alex tornò a segnare con regolarità e a Udine, dove quattro anni prima avvenne la caduta, resuscitò con la firma su uno dei trionfi più belli della storia bianconera: era il 5 maggio 2002.

La bellezza della storia di Del Piero è che Pinturicchio ha sempre dovuto dimostrare qualcosa, come se la sua classe e la sua professionalità non fossero sufficienti. Ha saputo perdersi e ritrovarsi, rischiando anche di perdersi di nuovo. Ha dovuto convincere una volta e poi due, non solo i tifosi e la critica, ma anche gli allenatori, soprattutto quel sergente di ferro da San Canzian d’Isonzo, famoso per non guardare in faccia nessuno e per prendere decisioni impopolari, che per due anni lo mise in panchina per Zlatan Ibrahimovic, astro nascente del calcio europeo. Eppure la rovesciata per Trezeguet contro il Milan e la splendida punizione a San Siro – i due episodi-chiave dei due campionati bianconeri sotto la guida di Fabio Capello – nacquero dai piedi di Alex. Perché a chi sa attendere, il tempo apre ogni porta.

Nemmeno un tremendo processo giudiziario, più simile ad un plotone di esecuzione, nei confronti della Juventus – che si concluse con la retrocessione in Serie B, gettò ombre sul Capitano, che nell’anno di Purgatorio della serie cadetta e in quelli successivi sembrò vivere una seconda giovinezza per brillantezza fisica, continuità e qualità delle giocate. Arrivò il titolo di capocannoniere prima della Serie B, e poi della Serie A. Arrivarono le grandi notti in campionato e si sentì nuovamente il profumo d’Europa, quella che conta.

La notte di applausi del 5 novembre 2008 al Bernabeu è solo l’apice di una lenta risalita che ha ricompensato Alex dalle montagne russe della sua carriera, tra altari e polveri in poco tempo, eventi e circostanze che – come disse una volta Marcello Lippi – “avrebbero ammazzato un toro”. Persino negli anni grigi di Ferrara, Zaccheroni e Delneri – quando ad esultare erano i rivali – Del Piero salvava una bagnarola che stava per affondare, finendo per essere sempre il miglior marcatore bianconero della stagione.

L’ultimo regalo di Alex, prima dell’esilio dorato di Sidney, fu il calcio di punizione nel 2012 che superò la Lazio in casa per 2-1 a pochi minuti dal termine, tenendo in testa alla classifica la squadra di Antonio Conte, che centellinò Del Piero per tutto l’anno, schierandolo però nei momenti decisivi del finale di stagione, dove con la sua classe fece ancora la differenza, a trentasette anni suonati.

In azzurro tra Baggio e Totti

La carriera di Del Piero è sempre stata lastricata di dualismi con altri giocatori, a volte sensati, altre volte molto meno (non serve che vi ricordi i dualismi con Miccoli e Giovinco, gente che – con tutto il rispetto – si pone su livelli abissalmente inferiori rispetto a Del Piero).

Uno dei giocatori più spesso contrapposti a Del Piero è stato Roberto Baggio: i due, entrambi veneti dal carattere riservato e taciturno, si sono incontrati alla Juventus, quando il Divin Codino era uno dei migliori in circolazione e Del Piero un giovane di belle speranze. Sotto la guida di Giovanni Trapattoni, all’ultimo anno in bianconero, il Codino fece da chioccia al giovane fantasista, e in diverse occasioni l’allenatore li schierò insieme. Con l’arrivo di Marcello Lippi, invece, Del Piero si alternò a Baggio – fuori dai giochi per infortunio durante i mesi invernali del 94/95 – come terzo uomo da aggiungere al tridente con Vialli e Ravanelli. Le declinanti condizioni fisiche di Baggio e l’esplosione di Del Piero convinsero la dirigenza a non rinnovare il contratto a Baggio, in scadenza a giugno, che si trasferì dai rivali del Milan.

L’emblema del dualismo tra i due – dualismo mediatico, dal momento che i rapporti personali tra i due furono sempre ottimi e orientati al rispetto reciproco – fu il mondiale francese. Il CT Cesare Maldini non li schierò mai insieme, li alternò in quasi tutte le partite. Del Piero deluse, mostrandosi poco brillante al tiro e soprattutto nello spunto palla al piede, ben lontano da quello dei giorni belli, Baggio invece regalò gli ultimi lampi di magie in azzurro.

L’altro grande dualismo che caratterizzò la carriera azzurra di Alex fu quello con Francesco Totti, che fu messo al centro del progetto da ben tre allenatori azzurri (Zoff, Trapattoni, Lippi), costringendo Del Piero ad un ruolo da comprimario, almeno nelle gerarchie iniziali, quando non addirittura fuori ruolo. A causa di queste circostanze – tra la sfortuna di non essere arrivato in buone condizioni e il suo uso in ruoli che non gli appartengono, non dimentico il ruolo da ala sinistra contro l’Australia nel 2006, o da quarto di centrocampo al debutto negli europei di Sacchi – il suo rendimento in nazionale nei grandi tornei è lontano dai suoi standard in bianconero. Non va dimenticato però che rimane pur sempre il quinto migliore marcatore azzurro di sempre, con 27 reti in 91 presenze. La sua dedizione all’azzurro, a differenza di altri colleghi, non è mai stata in discussione, e spesso Alex ha preso parte a scomode trasferte nei gironi di qualificazione negli angoli più remoti d’Europa, mettendo a referto reti importanti ai fini della qualificazione a mondiali ed europei – che noi italiani abbiamo sempre dato per scontato, almeno fino al 2017 -. Ricordo le reti su punizione all’Ungheria nel 2001, che vale il pass per la Corea, o i gol su punizione nelle insidiose trasferte gallesi e montenegrine nell’anno successivo.

Un gol che non ha bisogno di presentazioni. Chiudete le valigie, si va a Berlino.

Lo splendido destro a giro in contropiede allo scadere nelle semifinali del mondiale 2006 contro la Germania e il rigore a Berlino nella “serie finale” contro la Francia – per lui, spesso deludente quando non addirittura “capro espiatorio”, psicologicamente più pesante del normale – riappacificano almeno parzialmente il rapporto tra la nazionale e Del Piero, un rapporto che per lungo tempo avrebbe potuto essere definito come “vorrei ma non posso”, all’insegna dei due gravi errori a tu per tu con Barthez nella finale di Rotterdam degli europei del 2000.

Bandiera della Juventus

Del Piero è l’unico per cui avrei fatto follie. Dopo una sfida di Champions fra il Manchester e la Juventus in cui aveva fatto ammattire mezza difesa, Ryan Giggs e Gary Neville vennero da me e mi chiesero di acquistarlo a tutti i costi, perché uno così ci avrebbe fatto vincere tutto per decenni. Così contattai la dirigenza bianconera e l’agente del ragazzo. Rifiutò ancor prima di ascoltare la mia proposta dicendomi che la Juventus era il miglior posto in cui stare e che anche se rispettava il Manchester United non avrebbe mai potuto tradire i colori bianconeri. Peccato, perché non ho mai più visto uno come lui”

Sir Alex Ferguson

La storia d’amore quasi ventennale tra Del Piero e la Vecchia Signora può essere riassunta solamente leggendo le cifre: 290 reti in 705 presenze, mai nessuno ha giocato quanto lui con la maglia juventina addosso e mai nessuno ha segnato quanto lui.

Tra gli alti e bassi di un’intera carriera, Pinturicchio è stato una garanzia di rendimento che lo ha portato a segnare in semifinali di Champions League (i quattro gol al Monaco tra andata e ritorno nel 1998, la rete nella memorabile semifinale contro il Real Madrid nel 2003), in finale di Champions League (il sontuoso tacco di Monaco, ininfluente ai fini del risultato finale, ma che avrebbe potuto cambiare la gara), nelle finali di Coppa in giro per il mondo (Supercoppa Europea, oltre alla già citata finale di Tokyo), nei big match contro le rivali che sono spesso valse una fetta di scudetto (la serpentina e il tiro all’angolino contro l’Inter di Simoni, il diagonale a Julio Cesar nell’anno del primo trionfo di Antonio Conte e tanto altro).

Ha garantito, esclusi i pochi anni bui, la sua solita quantità di gol e assist stagionali, affinando un’intesa con i suoi centravanti, da Vialli a Trezeguet, passando per Inzaghi con cui, screzi personali a parte, ci fu un ottimo feeling, almeno nei primi anni.

Ha spesso dato l’esempio, consapevole di essere una figura sportiva seguita da milioni di persone, evitando comportamenti plateali e polemiche sterili, richiamando i giovani compagni all’ordine e al rispetto delle regole sacre dello spogliatoio (ricordate Palladino?).

E’ stato il volto pulito del calcio, anche quando il calcio era (e forse lo è ancora) più fare polemica per gli arbitraggi che vedere una palla verde rotolare su un campo. Ne è uscito a testa alta, “in smoking bianco da una discarica” – per citare Fabio Caressa – anche quando una guerra tra società calcistiche e gruppi di potere hanno spinto a suon di processi sommari la Juventus nella serie cadetta, gettando un’ombra di disonorabilità vile e ipocrita, che non ha nulla a che vedere con il pallone.

Capitano dal 1998, si è guadagnato la gratitudine eterna della tifoseria juventina, quando nell’estate 2006 non esitò a scendere nella serie cadetta da campione del mondo, insieme agli altri quattro “senatori” (Nedved, Buffon, Camoranesi e Trezeguet) per affrontare la più inattesa e straniante avventura sportiva della sua vita, che partì in un afoso e surreale sabato pomeriggio di settembre, a Rimini.

Tra i grandi numeri dieci, se come apice assoluto il più forte è stato Platini e forse anche il miglior Baggio, Alex ha rappresentato una storia d’amore come poche, nella quale la simbiosi tra lui e la Vecchia Signora è stata praticamente totale. La pioggia di lacrime dello Juventus Stadium il 13 maggio 2012 non ha bisogno di commenti e parole: piangevano bambini, ragazzi, adulti, chiunque abbia avuto l’onore, in un periodo più o meno ampio, di vivere Del Piero. Rimango stupito di come, a differenza di altri stendardi bianconeri come David Trezeguet e Pavel Nedved, Alex non abbia ancora trovato posto nella società Juventus, e l’unica spiegazione che mi do sono i persistenti dissapori con il presidente Andrea Agnelli, malgrado le distensive dichiarazioni (di facciata?). Se dovessi citare nomi che rappresentino a pieno titolo la juventinità, ne direi tre, uno per ogni epoca: Giampiero Boniperti, Gaetano Scirea, Alessandro Del Piero.

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