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La nazionale azzurra e i suoi eroi per caso: una questione di specialisti?

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Le nazionali che hanno lasciato un segno più profondo nella storia del calcio, come noto, sono il Brasile, la Germania e l’Italia – potremmo includere l’Argentina ma il discorso diventerebbe più complesso.

Brasile, Italia e Germania si sono però incamminati su strade diverse per affermarsi con continuità, e a mio parere la storia degli azzurri è al tempo stesso forse la meno convincente (pochi i successi limpidi e indiscutibili) ma anche la più peculiare e a suo modo epica: i successi e le cavalcate degli azzurri sono connotati da un pathos che non rivedo in quelli brasiliani (certo, molto più affascinanti da altri punti di vista) né in quelli tedeschi.

Il Brasile, salve poche eccezioni, ha incamerato titoli continentali o planetari semplicemente perché disponeva della squadra migliore, o comunque del collettivo più dotato sul piano della pura qualità tecnica. Il Brasile ha messo in campo quelle che sono a mio parere le due nazionali più belle e inattaccabili del ‘900 (alludo naturalmente alle squadre che trionfano in Svezia nel 1958 e in Messico nel 1970) e, pur avendo vinto moltissimo, può paradossalmente recriminare per i numerosi tonfi inattesi e i titoli solo sfiorati – vi dicono qualcosa le parole Maracanazo, Sarrià , Saint-Denis?

Al Brasile sono spesso mancate le qualità sfuggenti, che noi italiani e i tedeschi possediamo invece in dosi industriali (mi riferisco a concentrazione, continuità, capacità di restare sul pezzo), e del resto forse è giusto che sia andata così: se avessero avuto la cattiveria agonistica appannaggio di altre nazionali, i brasiliani sarebbero stati molto spesso “ingiocabili”, ma non sarebbero stati così speciali; il loro calcio è un omaggio alla leggerezza (nell’accezione di Italo Calvino nelle Lezioni Americane) all’estetica e al gesto tecnico in quanto tale, non importa se orientato al risultato: naturalmente questa definizione oggi suona un po’ retorica e in controtendenza rispetto ad alcune fasi anche recenti della storia brasiliana, ma a mio parere la vocazione al vezzo rimane parte del loro bagaglio culturale e ne plasma tuttora la filosofia.

La Germania e l’Italia, al contrario del Brasile, hanno saputo invece ottenere risultati inattesi anche senza disporre di squadre eccezionali, e in questa sede voglio concentrami soprattutto sulla nostra nazionale, una vera e propria fucina di eroi per caso.

La storia azzurra è infatti costellata di giocatori che, indossata la maglia della nazionale, sembrano assorbire i superpoteri e trasformarsi. Se trascuriamo i titoli degli anni ’30, i tornei migliori della storia italiana sono spesso griffati da comprimari (Fabio Grosso, Marco Materazzi, Salvatore Schillaci, volendo anche Mario Balotelli e, absit iniuria verbis, Jorginho). Anche un fuoriclasse come Paolo Rossi deve la propria celebrità, fondamentalmente, a due tornei che ha disputato con la maglia azzurra, perché diversamente sarebbe un grande talento che però ha disputato giusto due stagioni da campione e che a ventisei anni ha già imboccato il viale del tramonto.

Posso anche alzare la posta in palio: Fabio Cannavaro e Roberto Baggio sono naturalmente due fuoriclasse, ma persino nel loro caso la maglia azzurra rappresenta un quid pluris che diventa quasi preponderante nel forgiarne il ricordo nella nostra memoria collettiva; senza Usa ’94 e Germania 2006, persino due leggende come Fabio e Roberto perderebbero per strada qualche grammo della loro grandezza. Scendo di un numerosi gradini la scala della bravura per ricordare che, non più tardi di cinque anni e mezzo fa, abbiamo sfiorato una semifinale europea mettendo in campo Pellé, Giaccherini, Eder e Zaza, quattro giocatori che farebbero fatica a trovare un posto in panchina in qualsiasi squadra di vertice (e non solo) del nostro calcio attuale. Come si spiegano il paradosso Italia e il rilevante contributo degli eroi per caso alla causa azzurra?

Ho già ipotizzato e illustrato come il nostro calcio, soprattutto dal Catenaccio in avanti, sia uno sport per specialisti, in cui ciascun giocatore deve svolgere al meglio la propria funzione: ecco così che ci sono lo stopper puro, il libero (poi regista difensivo) e il terzino marcatore; il regista deve fare il regista e non è un pleonasmo, ma una sublimazione specialistica dei suoi compiti.

Nel calcio all’italiana difficilmente mancano il mediano, l’ala tornante e soprattutto il centravanti, che riveste un ruolo cruciale e spesso ha spostato/ sposta gli equilibri in serie A e anche in nazionale. Rocco diceva che «Una squadra perfetta deve avere un portiere che para tutto, un assassino in difesa, un genio a centrocampo, un mona che segna e sette asini che corrono», riassumendo così in con la sua consueta e plastica efficacia l’essenza del suo calcio e di molto calcio italiano; e del resto le figure delineate con precisione da Nereo ricorrono in quasi tutte le nostre nazionali migliori (Buffon-Cannavaro-Pirlo-Toni?).

C’è un fondo di logica nelle considerazioni del genio triestino che sembra assorbire molta della nostra storia: il nostro è un calcio un po’ paradossale, puramente individualista e avverso a quasi ogni forma di collettivismo, e spesso approssimativo nella gestione “politica”, ma di straordinari rigore e precisione nell’applicazione tattica e nella scelta dei singoli, ed è questo rigore che, combinato a una condizione psico-fisica ottimale, consente forse a tanti giocatori di esaltarsi al 110% in maglia azzurra? Un calcio individualista e specializzato, alla fine, come è giusto che sia, valorizza di più le singole abilità del giocatore e quindi lo esalta? Io credo di sì, e che credo anche che il discorso possa essere ulteriormente ampliato.

La nostra carenza di programmazione e disciplina didattica, infatti, a mio avviso è compensata da un’ipertrofia tattica senza eguali, che porta all’esaltazione delle funzioni specialistiche del singolo all’interno di un collettivo progettato con rigore quasi scientifico.

Una logica ferrea e votata al pragmatismo, che mette da parte progetti più astratti e si dimostra di grandissima efficacia, nonché spesso in grado di vanificare la supremazia tecnica degli avversari. Credo che il nostro rigore – che appunto compensa un’imprecisione molto latina in ogni altro aspetto, a partire da quelli programmatici – si riveli anche nelle opinioni dominanti nei nostri dibattiti: in Italia non digeriamo la figura del “falso nove”, perché per noi non ha molto senso parlare di un ruolo che non esiste; fatichiamo a capire come si possano esaltare terzini che sono più bravi, di fatto, a giocare come ali, o difensori centrali che sono più bravi a giocare come centrocampisti aggiunti.

Fatichiamo perché per noi ogni ruolo ha una funzione specifica che ne condensa l’essenza e che non può mai mancare, pena la vanificazione stessa del concetto di ruolo.

Ci sembrano quindi del tutto illogici scenari tattici come quello del Brasile dei mondiali di Spagna: Socrates e Falcão sono praticamente due doppioni e già questo, ai nostri occhi, ne precluderebbe la convivenza; Léo Júnior è più bravo a impostare il gioco che a difendere o a solcare la fascia, e infatti noi lo trasformiamo in un regista, quando viene in Italia, mentre in Brasile gioca terzino. Eder e Zico occupano porzioni di campo diverse ma praticamente fanno ciò che vogliono nella metà campo avversaria, e farli convivere, anche solo per tale motivo, per noi sarebbe un problema: non possiamo permetterci giocatori che non seguano uno spartito tattico disegnato in termini estremamente rigorosi, figuriamoci se questi giocatori “senza schema” sono tre o quattro.

Ora, non voglio significare che il nostro rigore disconosca il valore delle qualità individuali: Nereo Rocco invoca il genio e del resto ha costruito le sue fortune anche su Gianni Rivera, ma la qualità rappresenta un lusso (circondato da sette asini che corrono) che deve assolvere a compiti specifici, affidandosi all’estro e al velluto che ha nei piedi, senza preoccuparsi di altro. Se chi ha qualità alza l’asticella, anche i giocatori meno bravi ne beneficiano e possono dedicarsi solo a ciò che gli riesce bene, trasformandosi in giocatori decisivi, in eroi per caso. Ecco allora che le nostre fortune sono associate a Schillaci in versione Re Mida, a Grosso che piange incredulo per ciò che ha appena fatto, a Materazzi che vola in cielo e sovrasta Vieira, a Del Vecchio che quasi ci porta in dote un titolo europeo.

Questo è tuttavia un discorso che vale soprattutto in Italia e che funziona meno bene in altre nazionali, laddove le funzioni sono distribuite in maniera meno rigorosa e dove il concetto di ruolo riveste un’importanza secondaria, in quanto la completezza e la duttilità dei singoli consentono di metterlo in secondo piano. Ho già citato il Brasile del 1982 e aggiungo quello del 2002, che è a sua volta un enigma tattico per i nostri opinionisti, perché, pur essendo meno incline al vezzo rispetto a quello di vent’anni prima schiera un centravanti che però da noi non gioca come vero centravanti, ma come seconda punta (Ronaldo), un numero dieci compassato che gioca anche da punta pura (Rivaldo) e un numero dieci più elettrico e mobile (Ronaldinho), cui concede assoli che sono slogature jazz in una partitura che già possiede un’essenza jazzistica. A proposito di Brasile: come spieghiamo l’allontanamento di Roberto Carlos da parte dell’Inter?

A posteriori è facile additare Roy Hodgson come incompetente, ma chi scrive non dimentica che nel corso del 1995/1996, nonostante un impatto sul miglior campionato del mondo degno di quello di una punta, Roberto Carlos era il bersaglio degli strali velenosi di una fetta importante della stampa, che gli rimproverava di giocare da terzino pur non essendo un terzino. Capello bacchetterà Hodgson, nel corso del suo interregno madrileno, rivendicando di aver migliorato Carlos in fase difensiva, ma avrà gioco relativamente facile a tessere le proprie lodi in una squadra e in un calcio in cui il terzino può anche permettersi di essere un’ala a tutto campo. Dani Alves a Torino decolla quando avanza il raggio d’azione, perché come terzino puro da noi non può dare il meglio; Cancelo alla Juve è un pesce fuor d’acqua e al City può invece sprigionare la sua propensione a fare ciò che vuole, diventando una mezzala che solo in origine occupa la posizione di laterale sinistro. Potrei proseguire a lungo: non sappiamo dove collocare un giocatore atipico come Dejan Savićević e infatti lo obblighiamo a giocare come seconda punta, nonostante possa concludere una stagione con quattro reti; fatichiamo a capire dove giochi Alen Bokšić e infatti a Torino se ne sbarazzano rapidamente, nonostante un rendimento più che positivo, perché non è un vero centravanti un calciatore che parte da metacampo e segna cinque gol all’anno. E Henry? Ancelotti lo inventa laterale sinistro nel centrocampo a cinque, perché non è chiaro dove possa giocare; sappiamo tutti che diventerà invece un fuoriclasse come centravanti – ma per noi non è un centravanti, uno che gioca come Henry, che infatti giocherà con un’altra prima punta e poi ala sinistra a Barcellona.

Mi fermo qui, sperando di aver centrato il bersaglio: giocatori che hanno ruolo e caratteristiche che non combaciano, secondo i nostri schemi concettuali, e faticano quindi a inserirsi in una griglia tattica che pretende invece una distribuzione specifica delle funzioni.

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