Pier Paolo Pasolini, dopo la finale giocata a Città del Messico il 21 giugno 1970, azzeccava una splendida metafora per differenziare il nostro calcio da quello degli avversari verdeoro, scrivendo che la poesia dei sudamericani aveva superato la nostra prosa estetizzante, e contribuendo così a forgiare il topos del Brasile dei cinque numeri dieci, topos che tuttora occupa un ruolo importante nel nostro immaginario sportivo e che forse è anche la concausa di alcuni malintesi e di alcune polemiche, sia coeve che successive.
Cerco di riassumerle per arrivare al nocciolo della questione: perché i brasiliani schieravano in campo cinque fantasisti mentre il nostro tecnico si vedeva costretto ad alternare Rivera (come noto, invocato dagli attaccanti) e Mazzola (prediletto invece dal reparto difensivo)?
Perché 28 anni più tardi, in Francia, il buon Cesarone Maldini non trova soluzione migliore dell’alternanza tra il redivivo Roby Baggio e un Del Piero “stella annunciata” e però in precarie condizioni fisiche, mentre il Brasile (benché decisamente più europeo rispetto a quello del mondiale messicano) non esita a schierare Rivaldo, Leonardo, Bebeto e Ronaldo (per tacere dell’Animale Edmundo e di Romario, che rimane a casa solo per problemi fisici), peraltro affiancati da due terzini che sono due ali mascherate?
Non credo che il profondo solco che separa la filosofia dei due Paesi (loro giocano un calcio bailado e noi siamo catenacciari), per quanto ovviamente abbia il suo peso specifico, spieghi tutto da solo, e reputo quindi opportuna un’indagine un po’ più accurata.
Io ritengo infatti che alla base delle polemiche che hanno infuocato almeno due spedizioni mondiali degli azzurri ci sia un malinteso che merita di essere superato, e il malinteso nasce dalla sostanziale – ma a mio parere erronea – equiparazione tra i nostri numeri dieci e i loro numeri dieci.
Mi spiego meglio: neanche il Brasile avrebbe mai potuto schierare cinque giocatori come Gianni Rivera, e difficilmente avrebbe fatto coesistere Roberto Baggio e Alessandro Del Piero, perché i nostri numeri dieci sono il prodotto di un calcio pensato e impostato sulla specializzazione, e l’uso del medesimo numero di maglia (quello riservato, tradizionalmente, alla mezzala sinistra) non deve trarre in inganno.
Azzardo un’ulteriore valutazione: il concetto di numero dieci, così come si è sedimentato nella coscienza collettiva italiana nel corso degli ultimi decenni, è particolare e riflette una concezione del ruolo appannaggio (non esclusivo chiaramente) nostro e dei nostri cugini argentini.
Il Brasile è la patria di un certo tipo di calcio e il numero dieci è il suo emblema più nobile, siamo d’accordo, ma l’idea che i brasiliani hanno del dieci è leggermente diversa dalla nostra: Pelé era un attaccante, per quanto potesse fare un po’ tutto; Zico idem, per quanto fosse anche un trequartista sui generis, ma non così specializzato come i nostri.
Gianni Rivera doveva giocare invece nella terra di nessuno che si colloca tra attacco e centrocampo e non avrebbe mai potuto riciclarsi mezzala pura o punta; Roberto Baggio e Alessandro Del Piero hanno a loro volta ricoperto uno e un solo ruolo, quello del nove e mezzo, ovvero della punta di movimento che affianca il centravanti, e come loro gli omologhi Gianfranco Zola, Roberto Mancini e Francesco Totti (il più vicino al paradigma del dieci classico forgiato da Gianni Rivera).
Solo in Argentina abbiamo visto un florilegio simile di trequartisti puri, destinati alla rifinitura e specializzati in un ruolo e in una funzione tenica e tattica specifici; anzi, l’Argentina è forse ancor più dell’Italia la patria del dieci puro, come insegnano Sivori, Maradona, Messi, Bochini, Riquelme, Aimar, Ortega, Onega e decine di giocatori simili più o meno validi. Benché la filosofia albiceleste si differenzi sotto diversi profili da quella azzurra (la Nuestra da noi non è mai esistita), le due scuole sono accomunate da una predilizione per gli specialisti, che si traduce anche nella proliferazione di rifinitori classici (non è un caso se Game of Goals ha dedicato un articolo ai numeri dieci argentini).
Il diez peraltro diventa una figura importante in Argentina con la nascita del resultadismo, nei primi anni Sessanta, una sorta di impasto in salsa rioplatense del calcio organico di matrice mittel-europea ed est europea (Zubeldia, tecnico dell’Estudiantes di la Plata era un grande ammiratore del calcio sovietico e cecoslovacco), del pragmatismo e della stamina anglosassoni e dell’utilitarismo italiano, anch’esso declinato in un’ottica prettamente per specialisti del ruolo.
Se i vicini brasiliani mantengono il 4-2-4 con due ali abbastanza tradizionali (o con un’ala tuttofare e proteiforme come Zagallo) e l’accoppiata prima-seconda punta (in questo ruolo giocavano i vari Pelé, Rivelino, ecc.), gli argentini negli Anni Sessanta tagliano completamente una delle due ali, trasformata in un centrocampista a tutti gli effetti con compiti difensivi (il ventilador). In attacco restano così due punte, l’accoppiata delantero (9)- puntero (7 o 11) sostenuta alle spalle dall’enganche, cioè el diez, il dieci, chiamato così perché questo ruolo cruciale fungeva da aggancio tra il centrocampo e l’attacco.
I giocatori schierati da Saldanha e poi da Zagallo tra 1968 e 1970 non erano invece vincolati a una funzione così specifica, essendo maturati in un calcio meno incline a valorizzare gli specialisti: ecco così che Tostão sfugge alle nostre rigorose catalogazioni perché (ai mondiali) figura come centravanti, ma in realtà è un rifinitore sui generis che spesso arretra sino a posizionarsi come mezzala sinistra. Gerson è un dieci che di fatto maschera un otto, e potrebbe giocare come regista davanti alla difesa; Jairzinho è un dieci che si adatta numero sette e che anzi spesso giocherà come ala pura o come vero e proprio attaccante. Persino Clodoaldo è un regista avanzato che si reinventa mediano per assicurarsi un posto da titolare, in una sorta di metamorfosi impensabile nel nostro calcio (Mazzola che si ricicla frangiflutti?).
Se il Brasile dei mondiali messicani incarna forse un’ipotesi limite, non serve in ogni caso andare lontano per appurare come i numeri dieci veri e propri, così come li intendiamo in Italia e in Argentina, siano piuttosto rari anche al di fuori del Brasile.
La Spagna ha vinto un titolo europeo schierando un tridente composto da Iniesta, David Silva e Cesc Fàbregas, tre giocatori che secondo i nostri schemi concettuali dovrebbero essere dei numeri dieci e/o dei numeri otto, ma che di fatto non avevano un ruolo specifico: il Cavaliere Pallido ha disputato una stagione da regista puro, davanti alla difesa (nel lontano 2005/2006), salvo riadattarsi ala nel corso della semifinale di Champions della stessa stagione, e giocare poi quasi sempre da mezzala in un centrocampo a tre (a fine carriera tornerà spesso a giocare da numero 5 di fatto, peraltro); David Silva ha giocato mezzala in un centrocampo a tre, ala pura, attaccante atipico, regista atipico.
In Francia la figura del dieci classico coincide con Platini, non a caso giocatore di origini italiane, ma già fatico di più a definire come dieci puro Zizou, che ha giocato anche esterno alto a sinistra nel 4-2-3-1 e mezzala pura (ne possedeva la gamba e la struttura fisica). Altri giocatori creativi che hanno assunto le funzioni del dieci hanno peraltro giocato come ali o punte di movimento (Ribéry), come ali/ centravanti atipici/ tuttocampisti (Henry), come seconde punte anarchiche cui era concesso muoversi liberamente (Cantona). Non è un caso se fatichiamo a collocare con precisione questi giocatori nel nostro scacchiere tattico ideale: il fatto è che la loro posizione e le loro funzioni sono scentrate rispetto a quelle pure che noi assegniamo a un certo ruolo, e questo ci complica la vita.
La ex Jugoslavia è una fucina di finti dieci, ovvero di giocatori che noi probabilmente avremmo cresciuto e impostato come rifinitori puri, ma che nella sostanza erano fantasisti senza ruolo specifico: mi è capitato di vedere contemporaneamente in campo Dragan Stojković, Dejan Savićević, Robert Prosinečki e Safet Sušić, in un profluvio di qualità molto difficile da incasellare e che certo non avrebbe potuto coesistere in una cornice tattica molto più rigorosa e specialistica come quella azzurra.
Alla luce di tutto ciò, reputo fuorviante interrogarsi ancora sulla coesistenza dei nostri numeri dieci e azzardare paragoni con scuole che adottano un’impostazione radicalmente diversa dalla nostra: il Brasile poteva permettersi di schierare cinque numeri dieci semplicemente perché si trattava di cinque giocatori di grande qualità e senza un ruolo specifico che potevano armonizzarsi in un collettivo, esito decisamente più improbabile quando disponi di rifinitori puri e mezzepunte pure che sono chiamati a svolgere una funzione più specifica (ovviamente, con le dovute eccezioni, sia in Italia che in Argentina).
Contributi di FRANCESCO SCABAR