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Quando un fuoriclasse diventa un Re Mida

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Chiunque faccia il mio lavoro (che è l’avvocato… ma vale anche per il medico) sa benissimo che il concetto di relazione causale non è di semplice definizione né applicazione. In diritto penale si parla di superamento di ogni ragionevole dubbio, mentre in diritto civile la giurisprudenza si accontenta di un più blando “più probabile che non”, per cercare di fornire un’idea il più possibile univoca di qualcosa che ha un’essenza statistica e quindi, per definizione, probabilistica.

Come trasportiamo nel mondo del calcio l’indagine sulla relazione eziologica? Nel calcio convivono e confliggono tra loro decine di variabili, alcune endogene (qualità tecniche e agonistiche, mentalità, resilienza etc..) e altre, di gran lunga più determinanti, esogene (ambiente, squadra, amalgama tra i vari singoli, feeling con il tecnico e i compagni etc..).

Tutto questo impedisce di ipotizzare l’esistenza di un nesso di causa tra la presenza di un giocatore e il rendimento/i risultati della squadra dove milita?

Ferme le premesse del caso e quindi l’esistenza di una lunga serie di fattori che non dipendono dal singolo, non è così rara e improbabile la sensazione che un singolo abbia ribaltato la storia di un club come un guanto, contribuendo in modo determinante ai suoi successi.

Esistono a mio parere casi paradigmatici, in cui – a dispetto di tutto – è possibile perorare questa tesi con una certa convinzione.

Il primo cui viene naturale pensare riguarda Diego Armando Maradona e il Napoli, ma forse sarebbe più corretto parlare di Napoli in quanto città. Intendiamoci, la lunga epopea di Diego in Campania è anche l’esito di un percorso di crescita che coinvolge l’intera squadra e la società, nonché di un’epoca in cui il calcio italiano ha le tasche piene di soldi e può quindi permettersi di investirne molti in giocatori di fama internazionale, senza per forza di cose vestirli di una maglia strisciata (superfluo ricordare Zico a Udine, Falcao a Roma o Leovegildo Júnior a Torino e Pescara).
Aggiungo anche che il Napoli non decolla solo perché acquista Maradona, ma che il suo percorso di affermazione tra le grandi si articola nel corso di un paio di stagioni e presuppone l’approdo nel Golfo di altri giocatori di spessore (Bagni e De Napoli, i due titolari della nazionale italiana in Messico, ndr), in un circolo virtuoso che culminerà con l’arrivo di un altro fenomeno come Careca.

Ciò premesso, non può essere solo una coincidenza fortuita che i progressi si materializzino alla corte di Maradona, perché il genio argentino contribuisce a calamitare a Napoli giocatori di caratura mondiale e sposta poi l’asticella verso l’alto, in campo, partita dopo partita. Il suo impatto investe l’intero ambiente, anche in termini di sicurezza e corazza mentale e specie quando si tratta di salire su certi palcoscenici, in una sorta di trionfale ascesa psicologica collettiva che è possibile solo quando tra le tue fila milita un guru, un personaggio in qualche modo dotato di un alone e di poteri sciamanici.

Il Napoli dell’era post Maradona, quello dei primi anni ’90, declina certamente per una serie di fattori, ma è a mio parere chiaro che il travagliato addio del 10 argentino (che già nel 1989 chiede di potersi trasferire alla corte di Tapie, a Marsiglia, ma senza successo) affossa definitivamente le ambizioni di grandezza degli azzurri, decretando la fine prematura della loro Belle Époque.

Non si tratta solo di Maradona, in sintesi, ma è abbastanza chiaro che sia durante la fase ascendente sia durante quella discendente Diego ricopre il ruolo di attore principale, per ciò che la sua presenza significa per società, città, tifosi e compagni. Durante l’ultima stagione (1990/1991) Diego è già un fantasma e la conseguenza per il Napoli è un ottavo posto vissuto come una tragedia greca; l’anno successivo le cose andranno decisamente meglio, perché la squadra aggiusta i suoi meccanismi, ritrova un po’ di equilibrio (guidata da Claudio Ranieri e rinforzata da Laurent Blanc e Massimo Tarantino nel reparto difensivo) e conquista un quarto posto inatteso. Le cose però precipitano la stagione successiva, quando i partenopei galleggiano a metà classifica, nonostante uno Zola in formato deluxe, abbandonando definitivamente l’allure e le ambizioni della formazione di vertice.

Lo splendore della seconda metà degli anni ’80 resterà pertanto a lungo un lontano ricordo, evocato vagamente, e in un calcio italiano sicuramente meno competitivo, solo dal Napoli di Sarri.

Il secondo caso emblematico per cui ritengo di spendere alcune considerazioni è quello del Barcellona e di Lionel Messi (e non potrebbe essere altrimenti, i due talenti più grandi dell’era moderna vanno a braccetto anche sotto questo profilo).

Anche qui sono indispensabili alcuni prolegomeni: il Barcellona è naturalmente società di prima importanza, nel panorama europeo, sin dagli albori e comunque, con una certa continuità, almeno dagli anni ’50. Qualcosa però ha impedito ai catalani di accomodarsi nell’Olimpo dove invece siede comodamente il Real Madrid: Xavi ha parlato a lungo dell’abitudine alla sconfitta come habitus mentale dei barcellonisti, di una sorta di narcisismo (che possiede sempre una sfumatura di compiacimento) che ha impedito loro di scrollarsi di dosso una certa assuefazione alla sconfitta fragorosa, al tracollo inatteso, al gusto per l’autosabotaggio un po’ melodrammatico.

La vocazione estetica alberga in Catalogna da sempre, è parte del suo bagaglio genetico, e si è sublimata prima con gli ungheresi e il loro calcio votato alla bellezza, quindi con l’ossessione per la tecnica di gruppo di Michels, Cruijff e successori.

Quando Messi diventa titolare, tra 2005 e 2006, il Barcellona ha in bacheca una sola Coppa dei Campioni ed è reduce da molte stagioni di alti e bassi, per quanto la triade Ronaldinho-Eto’o-Deco, supportata da un cast stellare (i giovani Xavi e Iniesta, una riserva di extra lusso come Larsson) abbia già rimesso le Ramblas sulla mappa del calcio che conta. Siamo in ogni caso ben lontani dall’aura di meraviglia che avrebbe circondato il calcio dei catalani da lì a poche stagioni, e Messi riveste un ruolo cardinale nel percorso di crescita, per quanto chiaramente vi sia una convergenza di fattori determinanti: la maturazione del calcio spagnolo come movimento globale, la conferma e/o l’inserimento (quasi sempre oculato) di campioni funzionali al progetto come Daniel Alves, Samuel Eto’o etc.., l’arrivo in panchina di un giovane tecnico catalano, Guardiola, maturato nell’ambiente e quindi in perfetta sintonia con le sue idee di fondo.

Ciò non toglie che il decennio magico del calcio catalano (e spagnolo) coincida con due triadi, la prima (di gran lunga la più significativa) vede due piccoli geni del centrocampo unire le forze a Leo Messi per imporre un nuovo paradigma, la seconda (spettacolare ma poco duratura) colloca il fenomeno di Rosario in mezzo ad altri due fuoriclasse sudamericani. Messi, in altri termini, riveste sempre una funzione centrale e così sarà sino al suo recente, doloroso abbandono della città e della società che l’hanno curato e fatto crescere, ricambiate con una lunga serie di successi e con un calcio di una bellezza stordente.

Ma non è finita qui: Messi ha in qualche modo trascinato i suoi fuori dalla palude della mediocrità anche dopo il tramonto delle due triadi di cui è stato il sovrano. Parlo fuori dai denti: nelle ultime tre o quattro stagioni, Messi ha quasi “da solo” consentito al Barcellona di iscriversi ancora, per quanto a fatica, nella cerchia delle squadre di primo livello. Il suo trasferimento a Parigi ha invece decapitato la squadra e l’ha ridotta al rango di buona comprimaria che può giusto ambire al quarto posto nella Liga. Anche in questo caso, ovviamente, ci sono molti aspetti e varie concause da considerare, più numerose e significative di quelle registrate a Napoli a inizio anni ’90, ma il Barcellona balbettante che stiamo vedendo quest’anno è anche la vittima del repentino allontanamento del suo uomo chiave.

Dedico poche righe anche ad altri casi in cui si è registrata una completa sinergia tra singolo fuoriclasse, crescita collettiva della squadra, maturazione della società, trionfi.

Luigi Riva per il Cagliari non è stato tanto Cruijff quanto una sorta di incrocio tra Cruijff e Neeskens, se parliamo di giocatore franchigia che trasforma la dimensione e le aspirazioni della squadra. Anche con lui, assistiamo a una felice convergenza di concause (la presenza in Sardegna di numerosi nazionali, la solidità del Cagliari società) che culminano nel posizionamento di Gigirriva al centro del progetto: la squadra gioca per lui e quando il fuoriclasse lombardo si rompe non può che risentirne in modo fragoroso, rinunciando alle ambizioni di scudetto (nel 1970/1971) e quindi anche all’allure da squadra che può competere per il titolo.

Quando Johann Cruijff abbandona Amsterdam, dopo la nota vicenda che l’ha privato della fascia di capitano, il giocattolo più spettacolare dell’epoca si smantella: l’Ajax improvvisamente si ridimensiona e d’altra parte lo stesso Johann, pur facendo benissimo, non potrà portare il Barcellona a imporsi in Europa. Ciò non toglie che l’epopea dell’Ajax si identifichi in lui, e e che nell’armonica coesistenza tra vari fuoriclasse maturati all’unisono risiedesse il segreto della più grande macchina da calcio, forse, di ogni epoca.

Lo sbarco di Michel Platini a Torino, a conti fatti, non ha conseguenze troppo diverse da quelle sopra sintetizzate: la Juventus nel 1982 è una delle squadre migliori in circolazione, ma si trasforma nella formazione più temuta anche sui palcoscenici europei dopo che Platini, superato un inizio imbronciato, si ambienta e aumenta la cilindrata dei bianconeri. Nel suo caso, c’è una felice serie di concidenze (la Juve aveva regalato all’Italia l’ossatura della squadra campione, nel 1982), ma è innegabile a mio parere che Platini non sia solo la ciliegina sulla torta, ma la fetta più grossa e succosa della torta stessa. Il suo precoce ritiro coinciderà con il declino di tutta una generazione, ma anche per lui valgono le considerazioni spese, se non per Diego, almeno per Leo a Barcellona: il definitivo salto di qualità lo assicura il genio francese ed è naturale che il suo abbandono abbia ripercussioni su tutta la squadra e su tutto l’ambiente.

Ma ogni fuoriclasse epocale condiziona in modo prepotente il club in cui gioca. Il Real Madrid prima di Alfredo Di Stéfano aveva vinto due Liga negli anni ’30. Con il fuoriclasse argentino al centro del progetto conquista 8 scudetti in 11 stagioni, le prime 5 edizioni della Coppa dei Campioni, la prima edizione della Coppa Intercontinentale. E diventa per tutti il vero Real Madrid, ovvero l’imprescindibile punto di riferimento per chiunque nel calcio europeo, la squadra più temuta e più rispettata, quella del Miedo escenico, la paura del palcoscenico che ammalia gli arbitri e intimorisce gli avversari, espressione coniata da Gabriel Garcia Marquez e ripresa da Jorge Valdano

La Honved sotto l’egida di Ferenc Puskás e dei meravigliosi fuoriclasse ungheresi degli anni ’50 è la stella d’Europa un decennio prima del Real. Nel momento in cui i giocatori fuggono in Occidente per scappare dalle storture di un comunismo disumano la Honved si sgretola e cessa di fatto di esistere ai massimi livelli.

E un percorso simile è quello fatto dal Santos. Il nulla o quasi prima di Pelé. Una sorta di Harlem Globetrotters nell’epoca d’oro di O Rei (1957-1974), con 25 titoli conquistati, tra cui 6 campionati nazionali (le 5 Taça Brasil consecutive dal 1961 al 1965 più il Torneo Roberto Gomes Pedrosa che equivalevano al campionato nazionale prima dell’avvento nel 1971 del Brasileirão), 2 Libertadores e 2 Intercontinentali. Nuovamente il nulla o quasi dopo, almeno fino all’epoca più recente con il ritorno sul tetto del Sudamerica nel 2011 grazie alla generazione Neymar.

Pelé che per altro vanta un clamoroso impatto simile anche a livello di nazionale. Quando O Rei spunta sul proscenio internazionale il Brasile è l’eterna seconda, la bella incompiuta con 3 Coppe América in bacheca contro le 11 dell’Argentina e le 9 dell’Uruguay e l’onta dei fallimenti nel Mondiale 1938 e ancor più 1950 sul groppone. Nell’era Pelé, il Brasile vince 3 Mondiali su 4, sposa l’estetica alla concretezza, diventa il simbolo del calcio spettacolo universalmente riconosciuto e la patria del calcio per come la conosciamo ancora oggi, punto di riferimento globale a cui si rifanno tutti e in tutto il mondo (vedi tra gli altri il famosissimo e fortunatissimo cartone animato giapponese Holly e Benji, dove il protagonista Holly sogna un giorno di giocare nel Paese del calcio, appunto in Brasile).

Chiaramente, va sottolineato, nessun fuoriclasse da solo può spostare a tal punto gli equilibri.
Intorno ha bisogno di progetti solidi e di compagni adeguati. Poi lui è la ciliegina indispensabile per rendere la torta indimenticabile, la chiave decisiva per aprire la porta di una nuova era di successi.

L’avvento di Pelé ha cambiato la storia del Santos e del calcio brasiliano

Quando il vecchio Roby Baggio lascia Brescia, le Rondinelle precipitano, retrocedono e di fatto saranno incapaci anche solo di riavvicinare vagamente i risultati dei primi anni del nuovo millennio; quando Gabriel Omar Batistuta lascia Firenze, la viola subisce un contraccolpo pesante che verrà assorbito solo dopo lungo tempo, ma non tornerà più, di fatto, a essere una squadra che può dire la sua nella lotta per il titolo.

In altri casi, complici vari fattori (di solito, il fatto che il ritiro e/o l’addio di un giocatore non coincidono con il declino della squadra, ma la costringono solo a rivedere i propri assunti di fondo), l’improvvisa scomparsa di un fenomeno è stata metabolizzata meglio.

Quando Marco Van Basten lascia il calcio giocato (di fatto, a maggio del 1993, ma forse sarebbe più corretto dire a dicembre del 1992) il Milan riesce a compensare la sua assenza arretrando il baricentro, puntando sulla difesa e modificando quindi la sintassi e le coordinate di riferimento del proprio gioco. Si tratta in ogni caso della miglior squadra del mondo e di una rosa che lascia la concorrenza a distanza siderale: naturale quindi che anche il ritiro del giocatore più importante possa in qualche modo essere stato non dico neutralizzato, ma quantomeno assorbito senza conseguenze disastrose.

Anche il passaggio di Roberto Baggio dalla Juventus al Milan non ha inciso negativamente sulla squadra bianconera, ma per il semplice fatto che la Juventus sta tornando grande proprio nell’ultima stagione di Baggio, una stagione per lui costellata di problemi fisici, e che pertanto la cessione dell’uomo franchigia è stata ampiamente neutralizzata dalla crescita di un altro uomo franchigia quasi di pari valore e più giovane (Del Piero) e dalla maturazione di tutta la squadra.

Come dicevo sopra, ipotizzare relazione eziologiche univoche e inconfutabili non esiste in uno sport di squadra dove coesistono migliaia di variabili. Rimane però a mio parere sostenibile la tesi per cui, in alcune ipotesi, lo strapotere del singolo e la crescita parallela dello stesso singolo e della squadra (all’unisono con la società) hanno dato vita a un’epopea irripetibile che si interrompe quando il singolo più importante, per qualsiasi motivo, non può più fornire il suo contributo.

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