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La classe “vintage” di Juan Román Riquelme

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Non molte sere fa ho deciso di sciropparmi la Coppa Intercontinentale del 2000, disputata il 28 novembre a Tokyo tra il Boca Juniors e il Real Madrid. La partita è passata alla storia perché i Blancos, campioni d’Europa in carica, dovettero inchinarsi al cospetto dei Xeneizes campioni di Sudamerica, che andarono in vantaggio nei primi minuti con un doppio cazzotto di Martin Palermo, dal quale i madridisti di fatto non si riprendono più. Non basta una fantastica rete di Roberto Carlos dopo una brillante azione personale, che serve solo ad accorciare le distanze. Gli argentini resistono e ripartono in verticale per penetrare nelle retrovie azzurro e oro, per infilzare il nemico, guidati da uno straordinario Juan Roman Riquelme, in una delle prestazioni più belle e significative di tutta la carriera. E’ dal suo destro fatato che parte il lancio morbido di 40 metri che culmina con il raddoppio del Boca: i suoi deliziosi filtranti per le punte, la bellezza e l’eleganza dei suoi calci di punizione (uno di questi si stampò sulla traversa…), i dribbling morbidi e felpati che mandano fuori tempo i frettolosi campioni d’Europa obbligandoli a inseguire e a ripiegare costituiscono un corollario di perle di una prestazione che consacrò definitivamente El Mudo – così era chiamato da giovane, per via del carattere taciturno e di poche parole – come uno dei migliori giocatori del mondo.

Boca Juniors – Real Madrid, Coppa Intercontinentale 2000. Quando Riquelme incantò il mondo.

Accostabile a Zinedine Zidane per le movenze, ma senza avere il fisico da corazziere e la potenza della falcata palla al piede, Riquelme era un concentrato di tecnica pura e visione di gioco, che ne faceva di lui uno dei trequartisti-rifinitori più belli e più forti in circolazione. Come Zico, aveva un pennello nel piede destro con il quale disegnava traccianti luminosi, ma se il brasiliano sgusciava via nel dribbling come un rettile in fuga, l’argentino invece toglieva un tempo di gioco agli avversari, che rimanevano disorientati e uscivano dal quadro.

La storia di Juan Roman Riquelme al Boca Juniors iniziò cinque anni prima, nel 1995, quando il club azul y oro bruciò sul tempo la concorrenza dei nemici del River Plate. Ci furono un paio d’anni di apprendistato, alternati tra campo e panchina, fino al 25 ottobre 1997, giorno del Superclasico, quando il giovane Riquelme entrò all’inizio del secondo tempo al posto di un certo Diego Armando Maradona alla sua ultima partita in carriera, in uno storico passaggio di consegne tra il vecchio 10, il Diez per eccellenza che si consacrò al Boca Juniors in gioventù rimanendone eternamente legato, e il nuovo Diez che per la storia del club di Buenos Aires sarà ancora più cardinale e cruciale del suo predecessore.

Nessuno ha saputo rendere grande il Boca Juniors e farsi amare più di Juan Roman Riquelme, l’idolo della Bombonera

Sotto la guida di Roman, il Boca Juniors portò a casa ben due Coppe Libertadores di fila (ed una terza nel 2007) e soprattutto dimostrò di sapere giocare un calcio in grado di tenere testa anche ai campioni di Europa di Real Madrid e Bayern, in un calcio che da anni stava diventando – per motivi economici in primis – un calcio sempre più eurocentrico.

Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi.

Jorge Valdano

Nel corso degli anni, parlando di Romàn con amici, conoscenti e appassionati di calcio, non ho mai trovato un’opinione univoca. C’è chi – come il sottoscritto – stravede per lui, considerandolo l’espressione del talento più puro e cristallino, che non deve essere imbrigliato e che deve essere libero di sprigionare scintille e bagliori che illuminano la partita. Altri invece lo considerano un “soprammobile di lusso”, totalmente fuori contesto nel calcio frenetico e muscolare di oggi. A questo secondo gruppo appartenne Louis Van Gaal, allenatore dall’ego maniacale, tremendamente integralista e poco incline al compromesso con i giocatori. Quando l’allenatore olandese ebbe Romàn tra le mani, lo trattò con una sufficienza ai limiti del disprezzo:

Quando hai la palla tra i piedi sei il migliore giocatore del mondo. Quando la palla ce l’hanno gli avversari ci fai giocare in dieci.

Louis Van Gaal

Fedele al suo modulo che mette al centro del gioco le ali e gli esterni offensivi – ebbe problemi del medesimo tipo anche con Rivaldo, che voleva far partire da sinistra mentre il giocatore preferiva giostrare in una posizione centrale – non esitò a schierare Riquelme fuori ruolo, cosicché i bagliori in blaugrana dell’ex Boca furono molto pochi e dopo una stagione l’argentino passò al Villareal, dove la musica fu totalmente diversa, anche se non da subito: il primo anno fu di transizione – ma Riquelme vinse comunque l’Interrotto -, mentre dall’anno successivo il gatto di marmo ritornò a suonare gli stessi spartiti che suonava in terra d’Argentina. L’allenatore Manuel Pellegrini gli affidò le chiavi del gioco e gli costruì attorno un collettivo che vedeva la partecipazione attiva di campioni come Diego Forlan, Marcos Senna, Juan Pablo Sorin e i risultati arrivarono ben presto: in due anni, il Sottomarino Giallo raggiunse un terzo posto in Liga ed una storica semifinale di Champions League l’anno successivo, trascinato dalla classe pura del Mudo, votato come “giocatore più artistico” del campionato, nonché candidato a suon di grandi prestazioni al premio FIFA World Player.

Riquelme durante i Mondiali del 2006: la sua sostituzione contro la Germania fece abbassare il baricentro della Seleccion, che perse le redini della partita e, forse, la qualificazione.

C’è qualcosa di profondamente asimmetrico in Riquelme, non solo nelle caratteristiche di gioco – il minimalismo atletico contrapposto all’estro e all’intuizione pura – ma anche nella stessa essenza: Riquelme è patrimonio degli esteti, non dei tattici; degli artisti, non degli scienziati; dei poeti, non degli ingegneri. 

Quel ragazzo dall’aria triste malinconica, che poteva essere l’erede del Diez argentino per eccellenza, quel rigore contro l’Arsenal nel 2006 non avrebbe mai potuto buttarlo dentro. Gli avrebbe spalancato la porta di una finale di Champions League, l’avrebbe portato ad un palmo dalla Coppa dalle Grandi Orecchie, da spartirsi in una finale “fratricida” con il Barcellona.

Anche nell’atto finale della Coppa America 2007, da lui disputata in modo divino con ben 5 reti e giocate di altissima qualità – insieme a Robinho, il miglior giocatore della competizione a mio parere -, nella finale contro un Brasile sulla carta più debole rimane invischiato nella tela della cattiva sorte facendosi sopraffare dagli episodi – prese un palo sull’1-0 verdeoro – e deve cedere la coppa agli arcinemici.

Ma probabilmente tutto questo per lui era troppo. D’altronde aveva già vinto la sua battaglia: era riuscito a farsi amare e a fare la differenza anche nel “Vecchio Mondo”, nonostante la partenza in salita. Il suo nome era accostato a quello di Xavi, di Ronaldinho, di Eto’o, senza sfigurare. 

Probabilmente nel suo inconscio non aveva la cattiveria per andare davvero fino in fondo, rimanere lucido e spaccare la porta in due, come avrebbe fatto l’altro grande dieci del Boca del millennio – l’Apache Carlos Tevez, amato tanto quanto lui eppure così diametralmente opposto per indole e punti di forza. Ma in fondo, a Juan Romàn, andava bene così.

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