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Le 10 partite non visionabili che hanno fatto la storia

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Immagine di copertina: Pelé al tiro contro il Benfica nella mitica finale di ritorno dell’Intercontinentale 1962

Nel corso degli anni sempre più vecchie partite sono state caricate e diffuse in rete, a disposizione degli utenti su canali come YouTube, Footballia o DailyMotion. Si parla solo di gare del dopoguerra, le prime datate 1953: la finale di FA Cup tra Blackpool e Bolton Wanderers (la famosa “finale di Stanley Matthews” con l’ala inglese che disputò una prestazione favolosa consentendo al suo Blackpool di rimontare dall’1-3 a 25 minuti dalla fine) e la mitica amichevole internazionale tra Inghilterra e Ungheria disputata a novembre, con il soverchiante successo dei magiari per 6-3. Ma per tantissime partite che oggi chiunque – armato di pazienza, passione e buona volontà – può vedere, ve ne sono tantissime non visibili: tutte quelle di prima della guerra, ovviamente, ma non solo. Anche diverse già di epoca televisiva, degli anni ’50, ’60 e persino più recenti. In questo articolo elencherò, in ordine cronologico, dieci partite che hanno fatto la storia che non sono visionabili in rete se non per una manciata di minuti. È sottinteso che selezionarne solo 10 è impossibile e che la scelta è dettata da sensazioni personali: l’unico criterio seguito è stato quello di puntare su incontri internazionali e non dei campionati nazionali. Ho escluso anche le sfide visionabili con ampie sintesi, che consentono comunque di formarsi un’idea generale sull’andamento del match e sulle prestazioni dei giocatori: per fare degli esempi, la semifinale Ungheria-Uruguay del Mondiale 1954, la finale Ungheria-Germania Ovest, oppure ancora la finale di spareggio della Libertadores 1962 tra Santos e Peñarol.

Uruguay-Argentina 2-1

13 giugno 1928, finale dei Giochi Olimpici, stadio Olimpico di Amsterdam

Il gol di Scarone nella finale del 1928

Più che la finale del Mondiale di due anni dopo, suscita probabilmente un interesse qualitativo superiore la finale dei Giochi Olimpici di due anni prima. Una resa dei conti per stabilire la miglior nazionale del mondo. Da un lato, l’Uruguay già campione olimpico nel 1924 a Parigi, con un nucleo di giocatori formidabili (il portiere saltimbanco Mazali, il caudillo Nasazzi, l’esterno a tutta fascia Andrade, la sublime coppia di mezzali ScaroneCea, il centravanti Petrone) e capace di eliminare rivali complicate nel suo cammino, dalle coriacee Olanda e Germania alla fortissima Italia. Dall’altro, l’Argentina che si sente la nuova numero uno dopo aver superato i rivali in Coppa América nel 1927. Ad Amsterdam l’Albiceleste vola e per diversi addetti ai lavori è la favorita: 23 gol fatti in 3 partite e una serie di giocatori favolosi: il centromediano Monti fulcro del gioco e poi un indimenticabile quartetto offensivo, la funambolica ala destra Caricaberry, il prodigioso bomber Tarasconi, il cervello Ferreira e la sopraffina ala mancina Orsi, stella del torneo. La finale viene giocata due volte: 1-1 la prima volta con l’Uruguay privo del faro Scarone; 2-1 nella ripetizione, con Scarone divino: assist per il vantaggio di Figueroa, gol meraviglioso sotto il “sette” per il punto definitivo dopo il pari di Monti. Uruguay ancora in cima al mondo, la formica batte la cicala. Il grande successo tecnico e di pubblico di quell’edizione dei Giochi fa capire a tutti che il calcio è oramai sport globale e la FIFA si convince a creare un campionato del mondo ad hoc.

Italia-Austria 1-0

3 giugno 1934, semifinale del campionato del mondo di calcio, stadio San Siro di Milano

Il gol contro l’Austria: Meazza è finito in fondo alla rete, Guaita anticipa Platzer e infila [www.storiadellaroma.it]

Due modi diversi di intendere il calcio e, forse, il mondo. Il pragmatismo italiano, che bada al sodo e punta tutto su difesa e ripartenze veloci. La raffinatezza austriaca, che insegue l’estetica, lo spettacolo e un gioco di possesso palla e occupazione degli spazi come da prassi mitteleuropea. Italia e Austria sono nei primi anni ’30 le due massime potenze calcistiche mondiali. Hanno due geni in panchina, amici e diversi – Pozzo e Meisl: non solo allenatori straordinari, ma uomini di calcio con una visione del futuro, avanti di decenni rispetto alla loro epoca. E in campo Italia e Austria schierano anche i due migliori giocatori del momento, pure loro profondamente diversi: da un lato la tecnica essenziale, la velocità e la verticalità di Meazza; dall’altro l’eleganza e i tocchi da artista di Sindelar. Già rivali a livello di club, con l’Austria Vienna di Sindelar che batte nella finale di Mitropa Cup (la Coppa dei Campioni del periodo prebellico) l’Ambrosiana Inter di Meazza nel 1933, vincitori di una Coppa Internazionale (antesignana dei moderni Europei) a testa, il Mondiale 1934 sembra la contesa definitiva per dirimere chi dei due sia più forte. Entrambe favorite alla vigilia, entrambe soffrono non poco nei primi turni, riuscendo comunque a qualificarsi per una semifinale attesissima, una vera e propria finale anticipata. Si gioca allo stadio San Siro di Milano: è una partita tesa, maschia, più agonistica che tecnica. Sindelar è controllato in modo molto rude da Monti, ma smarca alcune volte i compagni (che sprecano) con tocchi deliziosi. Dall’altra parte Seszta, arcigno difensore austriaco, non va troppo per il sottile, a leggere le cronache di Gianni Brera. Meazza e Sindelar sono le stelle annunciate, ma quasi si annullano. E a decidere la sfida in favore degli azzurri di casa è l’oriundo Guaita al 19°. Gli austriaci accusano l’arbitro svedese Eklind di una condotta di gara molto casalinga, ma poco cambia: vince l’Italia, che si ripete anche nella vera finale di Roma contro la Cecoslovacchia e sale sul tetto del mondo.

Italia-Ungheria 4-2

19 giugno 1938, finale del campionato del mondo di calcio, stadio Colombes di Parigi

Breve filmato di Italia-Ungheria

Due nazionali formidabili, che negli anni precedenti si erano date battaglia tante volte per il dominio dell’Europa nella Coppa Internazionale insieme all’Austria. L’Italia campione del mondo in carica si conferma sul tetto del pianeta dopo un cammino favoloso: soffre nell’esordio con la Norvegia, piegata solo ai supplementari, poi è un crescendo rossiniano: Francia e Brasile vengono spazzate via e in finale è gran duello contro la fortissima Ungheria. Gli azzurri schierano l’inarrivabile duo FerrariMeazza nel cuore del gioco, il guizzante Biavati a destra, il concreto Colaussi a sinistra e il portentoso Piola al centro dell’attacco. Ma è la consapevolezza dei propri mezzi che rende la nazionale allenata da Pozzo una squadra quasi invincibile. L’Ungheria si affida al factotum Sarosi e al bomber Zsengeller, entrambi in una forma sensazionale. È una partita, da quello che si legge, meravigliosa per contenuti tecnici, emozioni e qualità di gioco. I pochi highlights mostrano azioni dell’Italia, tra cui un gol corale che vede coinvolti 5 giocatori, con passaggi rasoterra che ricordano il tiki-taka di guardioliana memoria. A fine gara il presidente della Repubblica francese Lebrun consegna la Coppa a capitan Meazza e commenta: «Ils gangent tout, ces italiens» (vincono tutto, questi italiani). È il sigillo del calcio azzurro, l’ultima parentesi prima di una guerra devastante per l’umanità intera.

Brasile-Uruguay 1-2

16 luglio 1950, “finale” del campionato del mondo di calcio, stadio Maracanã di Rio de Janeiro

Ghiggia esulta dopo il gol del 2-1

È forse la partita più famosa della storia. Il Maracanazo. Unica volta in cui il Mondiale non viene deciso da una finale secca, ma da un girone conclusivo a quattro: chi totalizza più punti è campione. Per un beffardo gioco del destino l’ultima gara, tra Brasile e Uruguay, diventa però decisiva per l’assegnazione del titolo. Il Brasile ha sconfitto Svezia e Spagna proponendo un gioco meraviglioso: 4 punti in classifica. L’Uruguay ha battuto a fatica la Svezia e pareggiato con la Spagna: 3 punti in classifica. Tradotto: ai brasiliani basta un pari per laurearsi campioni. Ma la gente, che per l’occasione ha costruito il Maracanã – il più grande stadio del mondo – vuole gol, spettacolo e vittoria. Tutti ne sono convinti. Alla viglia i negozi espongono cartelloni che celebrano il trionfo, le poste emettono francobolli che recano le immagini dei giocatori brasiliani, il sindaco di Rio Angelo Mendes de Moraes annuncia: «Gloria a voi che tra poche ore sarete proclamati campioni da milioni di compatrioti». Il Brasile va sull’1-0 a inizio secondo tempo e la folla (si parla di 200mila persone) esplode. Ma l’Uruguay – guidato dal carisma di Obdulio Varela – è maestro di tattica e con solidità e calma ricuce lo strappo: pareggio di Schiaffino, poi a dieci minuti dalla fine Ghiggia beffa il portiere Barbosa sul suo palo e sul Maracanã cala il silenzio. Da trionfo annunciato a tragedia massima. Il Brasile manca l’appuntamento con una vittoria data da tutti come certa e si scopre fragile, inconcludente, perdente. Una sconfitta sociale e non solo sportiva: sul banco degli imputati finiscono i giocatori di colore come Barbosa e Bigode e tornano a fare capolino idee di divisioni razziali e di classe. Serviranno otto anni per cambiare lo stato dell’arte e portare il calcio brasiliano nella reale e vera età dell’oro: ai Mondiali di Svezia, con 6 neri e mulatti in campo su 11 nella finalissima contro i padroni di casa e nel solco di una generazione irripetibile.

Ungheria-Jugoslavia 2-0

2 agosto 1952, finale dei Giochi Olimpici, stadio di Helsinki

Il racconto della finale

Probabilmente la più straordinaria finale, come qualità di singoli, nella storia delle Olimpiadi. Anche più di quelle del grande Uruguay negli anni ’20. Da una parte l’Aranycsapat, la squadra d’oro, la Grande Ungheria che l’anno dopo avrebbe dominato l’Inghilterra a Wembley: il portiere Grosics, il mediano d’oro Bozsik, il terzetto offensivo ingiocabile HidegkutiPuskásKocsis, l’uccello pazzo Czibor all’ala. Dall’altra, la portentosa Jugoslavia che come tasso tecnico non è tanto da meno: il ballerino Beara tra i pali, Stankovic, Cajkovski e il futuro grande allenatore Boskov (fortissimo anche da giocatore) nella metà campo difensiva e poi il quartetto magico MiticVukasBobecZebec a sprigionare qualità assoluta in attacco. Raramente su un campo di calcio si è vista una partita con simili forze in campo. Nei 4 turni precedenti l’Ungheria ha segnato 18 gol subendone appena 2, la Jugoslavia ha realizzato 26 gol, ma ne ha subiti 11 e ha superato l’Unione Sovietica solo allo spareggio. È una finale al cardiopalma. Puskás sbaglia un rigore, ipnotizzato dal grande Beara, poi nella ripresa lo aggira con un gioco di gambe sontuoso e porta avanti i magiari. Nel finale Czibor chiude i conti. È il trionfo della scuola ungherese, la migliore del momento. Il successivo Mondiale in Svizzera appare una passeggiata, ma clamorosamente l’Ungheria perderà nell’ultimo atto contro la Germania Ovest: una finale maledetta con gli ungheresi fermati da un monumentale Turek e incapaci di tradurre in gol una miriade di occasioni.

Real Madrid-Milan 3-2

28 maggio 1958, finale di Coppa dei Campioni, stadio Heysel di Bruxelles

Un momento della sfida tra Real Madrid e Milan

Se gli inglesi inventano il calcio, i francesi lo organizzano: sono loro a creare il Mondiale, gli Europei moderni, il Pallone d’oro e la Coppa dei Campioni, che mette di fronte le squadre vincitrici dei vari campionati nazionali in una competizione deputata a eleggere la squadra di club più forte d’Europa. Il Real Madrid domina le prime 5 edizioni e solo l’ultima è in parte visionabile. Delle prime quattro, sono disponibili in rete unicamente sparuti highlights. Due volte (1956 e 1959) gli spagnoli battono lo Stade de Reims e si legge che soprattutto la prima finale – 4-3 per Di Stéfano e compagni in rimonta dallo 0-2 – è epica. Nel 1957 è la Fiorentina ad arrendersi, penalizzata (anche) da errori arbitrali. Ma è la finalissima del 1958 quella più incredibile: il Real di Di Stéfano, Gento, Rial e Santamaria; il Milan di Schiaffino, Liedholm, Grillo, Cucchiaroni. Una meraviglia. La partita non tradisce le attese e vive sul filo dell’equilibrio. Succede tutto nella ripresa: apre Schiaffino, pareggia Di Stéfano. Grillo segna il 2-1 per i rossoneri a 12 minuti dalla fine, ma 60 secondi più tardi Rial fa 2-2. Nei supplementari Gento a 13 minuti dal termine fa esultare gli spagnoli. A fine gara Di Stéfano, lider maximo del Real, omaggia il Milan: «Avrebbero meritato di vincere come noi».

Brasile-Unione Sovietica 2-0

15 giugno 1958, girone D del campionato del mondo di calcio, stadio Ullevi di Göteborg

Garrincha al tiro contro l’URSS

Del Mondiale 1958 sono visionabili diverse partite: del Brasile ad esempio le somme semifinali contro la Francia e la finale contro la Svezia. Ma non c’è la partita che dà il via a tutto, quella che cambia per sempre la storia del calcio brasiliano. L’ultima del girone, contro l’Unione Sovietica. Il Brasile aveva sconfitto 3-0 l’Austria al debutto, ma si era poi impantanato nella seconda partita contro l’Inghilterra (0-0), facendo riaffiorare antichi fantasmi e ataviche paure. L’ultimo match contro i sovietici è decisivo e in caso di sconfitta il Brasile sarebbe nuovamente estromesso dal Mondiale. La formazione sovietica, che due anni dopo si laureerà prima campionessa d’Europa, pratica un calcio organizzato e collettivo ed è ricca di nomi di altissimo profilo: il mitico portiere Jascin, il ragno nero, il jolly Voinov, l’autoritario centrocampista Netto, il temibilissimo attaccante Simonyan, solo per citare i più noti. Il ct brasiliano Feola, convinto anche dai senatori Bellini, Didi e Nilton Santos, decide di giocarsi il tutto per tutto: fuori Altafini, Joel e Sani; al loro posto il 17enne Pelé, l’angelo dalle gambe storte Garrincha e Zito. È la scelta vincente. Al 1° Garrincha irride il terzino Kuznecov e colpisce il palo da posizione impossibile. Al 2° il prodigio Pelé centra la traversa dopo una combinazione sontuosa sull’asse GarrinchaDidiVavá. Al 3° gol dell’1-0: carezza d’esterno di Didi per Vavá e palla nell’angolo. Gabriel Hanot, padre della Coppa dei Campioni e del Pallone d’oro, definisce quei tre minuti «i più devastanti nella storia del gioco». Secondo le cronache il portiere Jascin deve sventare più di 10 palle-gol. Capitola di nuovo al 32° della ripresa, quando Vavá dopo un meraviglioso balletto nello stretto con Pelé spedisce in rete. Il Brasile vince le sue paure e decolla verso il trionfo, cambiando per sempre la propria storia.

Real Madrid-Santos 5-3

17 giugno 1959, amichevole internazionale, stadio Santiago Bernabeu di Madrid

Un’amichevole internazionale? Ebbene sì. Perché le amichevoli una volta contavano molto più di oggi. A volte poteva capitare valessero anche più di match ufficiali: vedi Inghilterra-Ungheria 3-6; vedi le sfide tra inglesi e Resto del mondo che molti calciatori non avrebbero barattato forse nemmeno per una partita di Coppa del mondo; vedi i duelli tra formazioni europee e sudamericane, su tutti quelli contro il Santos che diventa una sorta di Harlem Globetrotters del pallone per mostrare ovunque il prodigio nero Pelé. Già Pelé. Eccolo, 19enne al Santiago Bernabeu, affrontare per l’occasione i totem Di Stéfano e Puskás. Tre dei primi 5 calciatori del ‘900 (Cruijff e Maradona gli altri 2) a sfidarsi sul campo: si può dunque ignorare una partita così? È la sola volta in cui Real e Santos giocano l’una contro l’altra. Secondo i brasiliani, il Real avrà timore nei primi anni ’60 di misurarsi al cospetto di una formazione che vince 2 Libertadores e 2 Intercontinentali di fila: il Real declina nel momento in cui il Santos cresce. Ma se si fossero affrontate entrambe al loro prime? Inutile girarci intorno: nonostante Pelé, il Real di fine anni ’50 sembra onestamente di un altro livello, con molti più campioni distribuiti lungo tutti i 110 metri di campo. L’amichevole del Bernabeu per la cronaca finisce 5-3 e il protagonista assoluto non è né PeléDi StéfanoPuskás… bensì lo spagnolo Mateos, autore di una tripletta. Di Puskás e Gento le altre due reti madridiste, mentre nelle file brasiliane vanno in rete Pelé, Pepe e Coutinho.

Real Madrid-Peñarol 5-1

4 settembre 1960, finale di ritorno Coppa Intercontinentale, stadio Santiago Bernabeu di Madrid

Il capitano del Real Zarraga solleva la Coppa Intercontinentale [https://sport660.wordpress.com]

La prima Coppa Intercontinentale. A lungo un affascinante ed equilibrato duello fino all’avvento della legge Bosman del 1995 che stravolge le coordinate del calcio trasformando i campionati sudamericani in mera terra di conquista per i paperoni europei. La storia di una competizione unica, per eleggere la miglior formazione di club del mondo tra i due continenti principi, inizia con un duello rusticano. Tra quelle che sono state elette dalle rispettive federazioni continentali le due squadre di club migliori del XX secolo: il Real Madrid per l’Europa e il Peñarol per il Sud America. La partita di andata si gioca a Montevideo e finisce 0-0. Il ritorno è decisivo e attesissimo: partita trasmessa in diretta TV (e allora il dubbio ci viene: sarà resa disponibile agli utenti prima o poi?), 150 milioni di tele-spettatori, 90mila sulle tribune del Santiago Bernabeu e in campo uno spettacolo unico. Il Real ha i soliti due inarrivabili mostri – Di Stéfano e Puskás – oltre a Gento, Del Sol, Santamaria. Il Peñarol risponde con campionissimi quali Spencer, Cubilla, il veterano Hohberg che fu grande protagonista del Mondiale 1954. Ma in campo non c’è storia e i primi 10 minuti del Real sono fantascienza: doppio Puskás, gol di Di Stéfano e pratica risolta. Herrera e Gento portano i blancos addirittura sul 5-0, prima dell’acuto dell’ecuadoregno Spencer, Cabeza Magica. Il Peñarol si rifa l’anno seguente, dimostrando di essere una formazione fortissima, quando disintegra il Benfica. E si prende la rivincita sul Real nel 1966, quando vince sia all’andata 2-0 sia al ritorno 2-0 con uno Spencer superbo. Ma quello non è più il Grande Real e Di Stéfano e Puskás non ci sono più…

Benfica-Santos 2-5

11 ottobre 1962, finale di ritorno Coppa Intercontinentale, stadio Da Luz di Lisbona

Benfica-Santos 2-5: un video mitico, ma che dura appena 4 minuti e 56 secondi…

«La più straordinaria prestazione di un singolo nella storia». Così Peter Lorenzo, storico capo dello sport della BBC, definisce la partita di Pelé. Non servirebbe aggiungere altro. Accelerazioni, spunti, tre gol (uno in tapin e due dove mette a sedere mezzo Portogallo), un assist a Coutinho dopo un’altra azione in slalom senza senso. Di questa partita ci sono solo 4 minuti e 56 secondi di sintesi: un insulto a chi ama la storia del calcio. La dimostrazione che anche di Pelé, non solo di Di Stéfano o Puskás, il meglio non lo abbiamo visto. E Benfica-Santos 1962 è solo la punta dell’iceberg perché la lista delle partite indimenticabili di O Rei non visionabili è infinita. I lusitani, che all’andata in Brasile hanno perso 3-2 (altri 2 gol di Pelé e nemmeno questa è visibile), sono convinti di poter ribaltare la contesa facendo leva sul fattore campo e sulla spinta del pubblico e accolgono i rivali con un po’ di supponenza. Il Santos non si scompone e trascinato da un Pelé immarcabile, che stravince la sfida a distanza con Eusébio, chiude i conti andando sul 5-0, prima che i padroni di casa rendano il passivo meno pesante. Un peccato che il Benfica abbia rifiutato di trasmettere la partita in eurovisione – il club luisitano pretendeva di essere pagato. Solo chi era allo stadio ha avuto dunque piena contezza della prestazione del Santos e di Pelé. Tra questi, non solo Peter Lorenzo, ma anche due allenatori di casa nostra, Vittorio Pozzo (due volte campione del mondo con l’Italia) e il milanista Nereo Rocco, che parleranno di O Rei come del più grande giocatore mai visto nelle loro vite.

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