Immagini in bianco e nero. Videoclip di una manciata di minuti. Racconti e testimonianze tra realtà e leggenda, capaci di cavalcare le ali della fantasia. Di questo e di molto altro si nutre la Generación Dorada dell’Uruguay, la nazionale degli anni ’20 che dominò il mondo, la prima grande potenza calcistica a livello globale, alimentata da figure mitiche e campioni straordinari.
Come il portiere saltimbanco Andrés Mazali, amante del lusso e delle belle donne; il capitano José Nasazzi, terzino metodista insuperabile, condottiero dal carisma eccezionale, antesignano dei centrali difensivi moderni; il mediano laterale di colore José Leandro Andrade, terzino fluidificante a tutta fascia, dinamico e dotato nel tocco, emblema di un Paese che aveva già raggiunto la parità multietcnica a differenza delle altre nazioni sudamericane (e non solo sudamericane…) e dove tutti – bianchi e neri, ricchi e poveri – potevano giocare a pallone; la mezzala sinistra Pedro Cea, inesauribile stacanovista del gioco; l’attaccante Pedro Perucho Petrone detto l’Artillero, finalizzatore mortifero e dotato di un tiro al fumicotone; il Divino Manco Héctor Castro, attaccante potente e generoso, che perse una mano in una fresa a 13 anni e ritrovò miracolosamente la via per continuare a inseguire il proprio sogno, diventare un calciatore professionista.
Una serie di assi straordinari, sui quali sopra tutti loro dominava il più grande, Héctor Scarone.
Nelle opinioni di chi lo ha veduto, un assoluto dio dei prati verdi, una specie di Pelé, Messi, Maradona dell’era pionieristica, talento cristallino, prodezze in serie, longevo e vincente. Uno dei massimi calciatori della storia. Una sequela infinita di soprannomi. El Rasquetita, diminutivo di Rasqueta che era suo fratello Carlos; El Mago; il Gardel del fútbol; la Borelli (per via del suo carattere altezzoso che ricordava Lyda Borelli, diva del cinema muto); Garibaldi… Fino a quello più evocativo di tutti, che dava l’idea della considerazione che i contemporanei avevano di lui: el mejor jugadur del mundo.
Venne all’Inter a 33 anni ed era ancora il migliore al mondo. Faceva cose che noi altri potevamo soltanto immaginare. Non oso pensare cosa dovesse essere dieci anni prima, quando era al meglio della forma fisica e tecnica.
Giuseppe Meazza
Origini savonesi, Héctor Scarone era nato a Montevideo il 26 novembre 1898.
Il calcio scorreva nelle vene della famiglia: il fratello Carlos, di dieci anni più vecchio, era calciatore professionista, nel Peñarol e della nazionale. Il padre, grande tifoso del club aurinegro, non gli perdonò mai il passaggio agli odiati rivali del Nacional nel 1914, dopo che Carlos Scarone aveva tentato le fortune in Argentina, nelle file del Boca Juniors.
Il giovane Héctor crebbe sotto l’ala protettrice del fratello e si ritrovò nelle giovanili del Nacional. Talento naturale, bruciò rapidamente le tappe: a 16 anni l’esordio in prima squadra, a 19 in nazionale, subito decisivo per la vittoria del Campionato Sudamericano, come allora veniva chiamata la Coppa América: un gol al Brasile e quello decisivo all’Argentina, rivale per eccellenza: così, tanto per gradire e far capire la stoffa del ragazzo, che in carriera sarebbe salito sul trono del Sudamerica altre tre volte.
Era il 1917. Da quel momento, per 13 lunghi anni, Héctor Scarone divenne il perno della Celeste, l’uomo intorno al quale fu costruita la nazionale uruguaiana che estese il suo dominio dal subcontinente al mondo.
Scarone partiva dallo spot abituale di mezzala destra e ovunque portava il suo genio superiore. Campionario tecnico infinito, dribbling, assist con il contagiri, fantasia, gol a grappoli (fu 5 volte capocannoniere della Prima divisione uruguaiana e con 31 reti in nazionale in 52 presenze è rimasto il recordman assoluto fino al 2011 quando è stato superato prima da Diego Forlán e poi da Edinson Cavani e Luis Suárez… ma con una media-gol nettamente migliore di tutti e tre…).
Una sentenza nei tiri piazzati, infallibile in quelli dal dischetto: secondo la leggenda non sbagliò mai un rigore in tutta la carriera. E nel 1939, quando aveva già 41 anni, ne realizzò 10 su 10 per scommessa al giovani Máspoli, futuro grande guardiano della Celeste nel vittorioso Mondiale ’50.
Di tutti gli avversari incontrati in 20 anni di calcio l’unico che non mi faceva dormire la notte prima delle partite era Héctor Scarone
Luisito Monti
Venerato in patria, l’unico degli uruguaiani che veniva rispettato dai grandi rivali argentini, idoladrato ovunque giocasse, a partire dall’Europa.
Fu grande protagonista con 5 gol alle vittoriose Olimpiadi parigine del 1924, quelle che fecero scoprire agli europei le superiori qualità di gioco e palleggio dell’Uruguay.
Fu la stella assoluta dei Giochi di Amsterdam ’28, con 3 reti pesantissime, di cui l’ultima nella finale contro l’Argentina, un tiro che si infilò nell’angolino, imparabile.
Fu ancora uno dei capisaldi, a 32 anni, dell’Uruguay che vinse il primo Mondiale della storia nel 1930: un solo gol, ma una grande prestazione in finale, con un assist in girata a Cea e un’azione avviata che portò a un’altra rete, regista sopraffino che capovolse l’inerzia nel secondo tempo contro la solita Argentina, sempre sconfitta dai charrúa nei momenti importanti.
Nel 1925 fu l’uomo in più del Nacional che incantò l’Europa in una lunga tournée contro alcune delle migliori formazioni del Vecchio Continente: 38 partite, 29 gol e numeri sensazionali, il bottino di Scarone, che gli valsero la chiamata del Barcellona.
Pur con qualche acciacco fisico di troppo, el Mago incantò nelle partite amichevoli in maglia blaugrana, tenendo la media di una rete a gara.
Il club catalano stava per abbracciare il professionismo e gli sottopose un ricco contratto. Erano tutti rimasti incantanti dal suo talento e volevano tramutare Scarone non solo nel giocatore più pagato della rosa, più dell’idolo di casa Josep Pep Samitier e del portiere ungherese Franz Platko, ma anche nel perno della manovra sul fronte offensivo.
Scarone però, clamorosamente, rifiutò.
Nonostante la stima dell’ambiente e dei compagni (Samitier parlò di lui come di «un grandissimo giocatore»). Il motivo era che Scarone aveva un sogno, quello di disputare le Olimpiadi di Amsterdam del 1928, aperte solo ad atleti dilettanti: se avesse accettato l’offerta del Barça avrebbe dovuto rinunciare a quella opportunità.
«Per me sarebbe come morire» disse. Così ringraziò i dirigenti blaugrana – che in cambio gli regalarono un anello di pietre preziose con incastonato lo stemma del club – e rientrò nella sua Montevideo, giocando a pallone e tornando a fare il postino.
Era davvero un’altra epoca. Come se oggi Messi o Cristiano Ronaldo rinunciassero a montagne di soldi per inseguire un sogno.
Era un’altra epoca anche perché a quei tempi i migliori calciatori del globo erano ancora tutti dilettanti. Gente comune, che faceva i lavori più disparati e nel tempo libero si dilettava con un pallone ai piedi.
Di Scarone che faceva il portalettere, abbiamo detto.
Nasazzi era marmista e avviò poi, con quei pochi soldi che si era messo da parte, una fruttifera carriera al casinò di Montevideo che lo portò da impiegato a dirigente.
Cea consegnava lastre di ghiaccio alla comunità italiana della capitale che venivano impiegate per la preparazione del gelato.
Andrade era lustrascarpe e, di tanto in tanto, vendeva giornali.
Petrone aveva una bancarella di verdure al mercato.
Dopo aver vinto tutto in maglia Nacional e in maglia Uruguay, Scarone spese la parte finale della sua carriera nella terra d’origine dei suoi avi, in Italia. Arrivò nell’estate 1931, a 33 anni. Un anno all’Inter e due al Palermo. Stagioni piene di infortuni e problemi fisici, ma anche di perle assolute (un gol al Genoa al termine di una serpentina ubriacante; due alla Lazio nonostante una ferita in testa) e dell’affetto incondizionato dei tifosi siciliani, con il club rosanero che anche grazie a lui conquistò due meritate salvezze.
Il suo dopo calcio è stato parecchio travagliato: problemi personali con la moglie, una carriera da allenatore che non decollò mai, anche se si tolse lo sfizio di allenare il Real Madrid, nel 1951-52. Era stato chiamato da Santiago Bernabéu in persona. Scarone era il grande idolo giovanile del presidente merengue: lo considerava il migliore di tutti, al pari dell’indimenticabile portiere spagnolo Ricardo Zamora, che definì Scarone «il simbolo del calcio nella nostra epoca».
Sono trascorsi più di 120 anni dalla sua nascita, oltre 100 dal debutto calcistico tra i grandi, oltre 80 dal ritiro (anche se tornò clamorosamente a giocare una manciata di partite nel Cerro nella Prima divisone uruguaiana nei primi anni ’50).
Da allora e il calcio è cambiato in un modo pazzesco. Non solo sul campo, in termini di tattica, velocità, schemi e movimenti. Ma anche fuori. E non necessariamente è cambiato in meglio.
Scarone ha incarnato lo spirito delle origini, è stato il più grande calciatore del pianeta quando ancora non c’erano telecamere a nove angolazioni che potessero immortalarne le gesta.
Non per questo, però, è stato meno grande.
Non per questo, la sua figura oggi deve passare in secondo piano.
Perché come ha scritto il giornalista Stefano Olivari: «Giulio Cesare è esistito, così come Alessandro Magno, Leonardo da Vinci, Rembrandt, Beethoven, Dostoevskij. Ognuno nel suo campo ha fatto qualcosa, anche senza telecamere. Come Scarone».
Héctor Scarone donava passaggi come offerte votive e segnava gol con una mira che affinava negli allenamenti facendo volteggiare bottiglie da trenta metri. E malgrado fosse decisamente basso di statura, nel gioco aereo li uccellava tutti. Scarone sapeva galleggiare nell’aria, violando la legge di gravità: quando saltava a caccia del pallone, lassù in cima si staccava dai suoi avversari con una giravolta che lo lasciava con la fronte rivolta alla porta, ed era allora che incornava in gol. Lo chiamavano el Mago perché tirava fuori i gol dal cilindro, e anche el Gardel del fútbol, perché giocando cantava come nessun altro.
Eduardo Galeano
CHI È HÉCTOR SCARONE Nato a Montevideo il 26 novembre 1898 Morto a Montevideo il 4 aprile 1967 Soprannomi El Rasquetita, il Mago, il Gardel del calcio, El Mejor jugador del mundo, la Borelli, Garibaldi |
CARRIERA NEI CLUB Squadre di appartenenza Nacional Montevideo (1916-1925), Barcellona (1926), Nacional Montevideo (1927-1931), Ambrosiana Inter (1931-32), Palermo (1932-1934), Nacional Montevideo (1934-1939). Presenze e reti Nacional Montevideo 369 partite, 301 gol; Barcellona 18 partite, 19 gol; Ambrosiana Inter 14 partite, 7 gol; Palermo 56 partite, 13 gol Titoli vinti 8 campionati uruguaiani, 1 Coppa di Spagna, 1 Coppa de Honor, 3 coppe Río de la Plata |
CARRIERA IN NAZIONALE Presenze e reti 52 partite, 31 gol Titoli vinti 4 Coppe América (1917, 1923, 1923, 1926), 2 ori olimpici (1924, 1928), 1 Mondiale (1930) |