«Vedi quel tipo basso e ciccione? Lo faremo a pezzi, insieme a tutti i suoi compagni. Sarà una passeggiata. Non sono neanche attrezzati, giocano in pantofole». Vera o no, la frase che il capitano inglese Billy Wright rivolge ai suoi compagni, per apostrofare il capitano ungherese Ferenc Puskás, poco prima dell’inizio di Inghilterra-Ungheria – stadio di Wembley, 100mila spettatori, 25 novembre 1953 – è entrata nell’immaginario collettivo.
Specchio della spocchia inglese, ingiustificato senso di superiorità di fronte al mondo, poco prima di una disfatta epocale, 6-3 per i magiari, 35 tiri in porta a 5, un’umiliazione seconda solo alla “rivincita” di sette mesi più tardi a Budapest, quando i “rossi” di casa umiliano i presunti maestri per 7-1.
Alla fine di quella partita da leggenda (per gli ungheresi) e da tragedia (per gli inglesi) né Billy Wright né nessuno dei suoi compagni avrebbe osato parlare ancora in quel modo di Ferenc Puskás. Anzi.
Il nome di Puskás è degno della fama imperitura e merita qualsiasi superlativo.
Billy Wright, dopo essere stato umiliato dal “Colonnello” a Wembley nel 1953
È quella un’epoca di scarsa conoscenza dei Paesi stranieri, a maggior ragione se provenienti da un altro continente o dalle nazioni situate oltre la cortina di ferro. Est e Ovest. Due mondi diversi, ideologicamente e spiritualmente, destinati a non attrarsi ancora per lungo tempo.
Internet è un concetto astratto. La televisione agli esordi. Qualche timido segnale dalla radio o dalla carta stampata. Il modo migliore per conoscere e ammirare fenomeni lontani è la prova diretta. Partite amichevoli e tournée che a quei tempi rivestono un’importanza capitale, quasi quanto match ufficiali, forse a volte persino di più, soprattutto se ci sono alle spalle motivazioni politiche e ideologiche come per quell’Inghilterra-Ungheria.
In quella partita Ferenc Puskás delizia la platea dall’alto di una classe sovrumana: numeri, accelerazioni, un fantascientifico assist oltre la difesa schierata per il gol di Hidegkuti e due reti. La prima, un concentrato di genio purissimo, controllo con la suola per eludere l’intervento di Billy Wright (sì, proprio lui), shot a bruciapelo sul primo palo che fulmina Merrick. La seconda, un tocco d’astuzia, deviazione con il tacco su una punizione da destra di Bozsik.
Attaccante totale, mobile, scaltro e veloce, il destro usato per camminare, il sinistro capace di qualsiasi prodezza. Di origini tedesche, nasce a Budapest nel 1927 come Ferenc Purczeld, ma il padre Franz Senior, nel 1937 decide di cambiare il cognome che suona troppo germanico in Puskás. Il ragazzino brucia le tappe, ha un talento naturale, a 14 anni gioca con quelli più grandi di lui e fa la differenza. Öcsi, lo chiamano, tradotto dal magiaro significa “fratellino”. Ben presto diventerà per tutti “il Colonnello”, retaggio del grado che raggiunge nell’esercito, anche se non imbraccerà mai un fucile. Non serve che spari, basta che giochi.
A 16 anni debutta in prima squadra nel Kispest, futura Honved, squadra dell’Esercito. A 17 assiste allo spettrale spettacolo di Budapest messa a ferro e fuoco dai carri armati della Wehrmacht, prima della “liberazione” dell’Armata Rossa. Qualche mese più tardi esordisce in nazionale andando subito in gol, in un 5-2 all’Austria.
È il 1945. È l’inizio di un decennio d’oro che si concluderà nel 1956 quando altri carri armati, sovietici stavolta, invaderanno di nuovo Budapest, come i nazisti 11 anni prima, soffocando nel sangue la rivolta di un popolo che invocava la libertà. In quei dieci anni Puskás e i suoi compagni sono per gli ungheresi l’unica flebile speranza di vita normale. Giocano a calcio e lo fanno stupendamente, come mai nessuno prima e – da un certo punto di vista – come mai nessuno dopo.
Dal 1950 al 1956 l’Ungheria disputa 50 partite, ne vince 43, ne pareggia sei e ne perde una, peccato che sia la più importante, la finale del Campionato del mondo del 1954. I gol fatti sono 219 (media di 4,38 a gara), quelli subiti 57 (1,14). Per tutti diventa l’Aranycsapat, la squadra d’oro. Ma più che i risultati è il gioco espresso che incanta.
Palla negli spazi chiusi, sovrapposizioni, scambi sistematici, giocatori che sanno muoversi senza palla in 2-3-4 posizioni. È il calcio totale, vent’anni prima degli olandesi. Ma è diverso dal totaalvoetbal. Meno scientifico e studiato, più influenzato dall’estro individuale, dal genio senza eccessivi tatticismi perché i magiari non sono come gli altri. Arrivano dagli Urali, sono un crogiolo di popoli, culture e stili, un po’ slavi, un po’ tedeschi, un po’ ebrei, un po’ asiatici.
Come gli olandesi, anche gli ungheresi mancano di un soffio il titolo mondiale.
Come gli olandesi, anche gli ungheresi vengono fermati in finale dal pragmatismo della Germania Ovest.
Come gli olandesi, anche gli ungheresi cambiano il calcio e in quel Mondiale incantano il mondo.
Ma a differenza degli olandesi, che la finale meritano di perderla, gli ungheresi dovrebbero vincerla: un mare di occasioni costruite, il portiere tedesco Toni Turek, ex fornaio e soldato della Wehrmacht uscito vivo per miracolo dalla guerra in Russia, in giornata di grazia. E un Puskás non al meglio, dopo che nel girone iniziale, sempre contro la Germania Ovest, il rude Liebrich lo ha azzoppato. “Il Colonnello” torna per quella finale, segna un gol, gliene annullano un altro probabilmente valido, gioca splendidamente, pur in precarie condizioni fisiche.
In quel momento è – indiscutibilmente – il miglior calciatore al mondo. Così lo definisce Herr Zimmermann, radiocronista tedesco, nel presentare la finale. Così l’anno prima lo ha etichettato il telecronista italiano dell’Istituto Luce in occasione del match di Coppa Internazionale, giocato a Roma per l’inaugurazione dello stadio Olimpico, tra Italia e Ungheria, che vede una doppietta di Puskás nel 3-0 finale. Quella vittoria dà all’Ungheria il successo nella competizione, antesignana dei moderni Europei, un anno dopo il titolo olimpico conquistato a Helsinki, 2-0 alla Jugoslavia in finale, Puskás ipnotizzato dal dischetto dal grande Beara ma poi capace di riscattarsi nella ripresa con un gol dei suoi, dribbling al portiere e palla in rete.
Seconda punta di genio, abile ad arretrare per tessere i fili del gioco, in accordo con i due “cervelli” della squadra, Hidegkuti e Bozsik, stupefacente cannoniere dalle medie-gol paurose, magie, spunti e raffinatezza estetica. Qualche pausa nel gioco, perché Puskás ama sonnecchiare per poi piazzare la stoccata, che fosse un assist al miele o un gol da cineteca, una sorta di Roberto Baggio ma più sano fisicamente, più continuo e più vincente.
Personalità, tecnica, senso del gol, dribbling. Quando lo vidi capii la mia fortuna: stavo giocando con un immortale del calcio.
Raymond Kopa
La sua carriera professionistica dura 23 anni, dal 1945 al 1966. In questi 23 anni milita solo in tre squadre, se si escludono 4 presenze senza reti con la nazionale spagnola. E tutte e tre queste squadre sono le migliori del mondo quando lui ci gioca. Non può essere un caso. Tra club e nazionale mantiene di fatto la media di un gol a partita: 746 reti ufficiali in 754 incontri: 383 in 367 con la Honved; 242 in 264 con il Real Madrid; 84 in 85 con la nazionale ungherese; 0 in 4 con la nazionale spagnola; 37 in 34 in alcuni tornei ufficiali disputati nel suo periodo ungherese, dal 1946 al 1956, tra le selezioni di Budapest e le Universiadi.
Dopo essere stato il miglior calciatore del pianeta, il faro della Grande Ungheria, l’uomo simbolo di un calcio nuovo e rivoluzionario che spira dall’Est e sconvolge il mondo, Puskás scappa dal suo Paese all’indomani dei fatti del 1956. Si fa raggiungere a Vienna dalla moglie Erzsébet e dalla figlia Anikó. A raggiungerlo è anche la squalifica della sua federazione. Un anno e mezzo a Bordighera, a oziare, bere e mangiare. Ingrassa di 15 chili e per molti è un ex giocatore. Qualche esibizione per spolverare il sinistro. Contatti con la Pro Patria, l’Inter, il Manchester United. Ma non se ne fa nulla.
Nell’estate del 1958 si muove il Real Madrid, stella d’Europa. La squalifica di due anni è terminata, Puskás accetta l’offerta degli spagnoli, accolto tra lo scetticismo generale per le forme decisamente rotonde e il lungo periodo di inattività. Ma la voglia di imporsi anche al di qua del muro è tanta. Qualche mese per entrare in forma, poi è una cavalcata. Conquista la stima e l’affetto del lìder maximo merengue, Alfredo Di Stéfano. I due sono in lotta per vincere la classifica marcatori della Liga 1958-59, nell’ultima giornata Puskás cede al compagno un gol facile, perde il duello, ma conquista il rispetto dell’altro e consolida un legame unico.
Un duo così non si è più veduto nella storia. Il Puskás madridista è meno mobile e scattante di quello ungherese, è un giocatore più classico e meno irruento, cannoniere sontuoso o regale uomo assist, corre poco ma dispensa perle di classe. Resta una sentenza: vince 5 campionati spagnoli, 4 volte la classifica marcatori, 4 quella di miglior cannoniere della Coppa del Re. Gioca la Coppa Campioni dai 31 ai 39 anni, la vince 3 volte con 3 titoli di capocannoniere, 7 reti in 2 finali, la prima Intercontinentale della storia contro il grande Peñarol di Rocha e Spencer.
Ma oltre ai numeri c’è l’infinita classe di un calciatore intramontabile, che a 39 anni mette ancora la sua firma sulla Coppa Campioni 1965-66 vinta dal Real in finale sul Partizan con 5 reti globali, miglior marcatore degli spagnoli nella competizione, ponte di collegamento tra la generazione aurea di Di Stéfano, Gento, Rial, Santamaria e Kopa e il nuovo che avanza, Grosso, Pirri, Serena, Amancio.
Ferenc Puskás ha segnato a livello di club 508 gol in 521 partite: uno score che nessun Cristiano Ronaldo o Messi potrà mai uguagliare
Massimo Fini, giornalista e scrittore
Puskás allora ha l’umiltà di capire che ha fatto il suo tempo e si fa da parte con garbo e in punta di piedi, fedele all’immagine di un personaggio mai sopra le righe, un uomo vero che ai tempi della feroce dittatura comunista si è anche prodigato in prima persona per aiutare tante persone (tra cui il compagno Gyula Grosics, inviso al regime perché di destra), lui che poteva permettersi di alzare la voce contro la tirannia, perché in Ungheria era una divinità, come Santa Elisabetta, icona intoccabile, mito da tramandare in eterno.
E gli ungheresi infatti continuano ad amarlo. Alla sua morte, tra il 16 e il 17 novembre 2006, il primo ministro Ferenc Gyurcsany lo ha definito «il più famoso ungherese del ventesimo secolo». Le sue spoglie riposano nella cattedrale di Santo Stefano, nel cuore di Budapest. Sempre a Budapest si sprecano le fotografie e i cimeli. Addirittura esiste una statua in bronzo, in un quartiere periferico, che ritrae il “Colonnello” intento a palleggiare sotto lo sguardo ammirato di un gruppo di bambini.
Peccato che oggi un fuoriclasse così meraviglioso venga a volte un po’ dimenticato. Forse perché l’Ungheria è oramai finita ai margini del calcio che conta. Forse perché per un decennio e oltre Puskás ha giocato al di là del muro, in un Paese “nemico“ dell’Occidente. Forse perché i moderni mezzi informatici, per quanto qualcosa permettano di visionare – anche del Puskás più brillante, quello degli anni ungheresi – non sono sufficienti per far conoscere nel modo adeguato un giocatore che appartiene a un’epoca remota e che si muove sullo sfondo di immagini in bianco e nero.
Eppure Ferenc Puskás è stato un dio dei prati verdi. Precoce, talentuoso e longevo come pochissimi. Carismatico come Cristiano Ronaldo, geniale come Messi.
Dunque – per rispondere alla domanda del titolo – che posto occupa nella storia?
Gli sta davanti Pelé, sicuramente.
Forse, gli sta davanti il compagno Di Stéfano. O meglio: il Di Stéfano degli anni di Madrid. Però quello è un Di Stéfano all’apice, uomo a tutto campo, leader assoluto dello spogliatoio e della squadra. Puskás, come abbiamo visto, non è invece il miglior Puskás. È diventato un meraviglioso secondo violino, ma non è più un uomo-orchestra. Tuttavia quando nel primo lustro degli anni ’50 Puskás era davvero Puskás e Di Stéfano era comunque già un giocatore affermato in Colombia, le testimonianze raccolte parlano dell’ungherese come del numero uno al mondo.
Ci sta di preferirgli la Saeta Rubia, ma lascio quanto meno aperta la porta del dubbio.
Maradona e Messi sono accomunati dallo stesso genio naturale di Puskás. Gli apici di entrambi [il Maradona degli anni giovanili in Argentina – per me il Diego più brillante, prima che conoscesse la droga e prima del tremendo infortunio subito da Andoni Goikoetxea nel 1983 che pare gli fece perdere il 30 per cento della mobilità alla caviglia sinistra – e il Maradona del Mondiale ’86; il Messi del periodo d’oro al Barcellona, triennio 2009-2012] sono superiori all’apice del “Colonnello”. Ma nelle altre tappe della loro carriera non ne sono convinto, anzi.
Globalmente ritengo che Puskás possa giocarsela alla pari con Diego e sia ancora leggermente davanti a Leo, penalizzato dai suoi limiti carismatici fuori dal dorato mondo blaugrana. Certo, se Messi dovesse finalmente vincere da protagonista in nazionale e lontano da Barcellona, allora potremmo riparlarne…
Poi c’è Cruijff, con il quale a occhio e croce Puskás divide la palma di miglior calciatore europeo della storia. Il Papero olandese è più iconico e universale, ma meno creativo, continuo e longevo.
Ai punti (perché a certi livelli le distanze sono sempre labili) io voto per il “Colonnello”.
Vale sempre la pena ricordare che si tratta di valutazioni personali e soggettive, per quanto frutto di anni di studio, e che in una materia opinabile come il calcio di verità incontrovertibili non ne esistano. Il mio obiettivo è più che altro ridare dignità a un fuoriclasse impagabile, che teme pochissimi confronti.
Puskás è uno dei cinque migliori giocatori nella storia del calcio, con Di Stéfano, Pelé, Cruijff e Maradona
Josep Maria Fusté
Non dimentichiamo oltre tutto che Puskás è il solo dei grandi a essere tornato al top a 31 anni dopo due di inattività. Quanti dopo un simile stop forzato sarebbero declinati prematuramente senza più riuscire a brillare e incidere come prima? Puskás al contrario ha saputo reinventarsi, ha modificato il suo modo di giocare, meno incursore e più attaccante, ma è rimasto al vertice ancora per quasi un decennio.
Di tanto in tanto il suo nome risale agli onori della cronaca. Ogni anno viene assegnato il FIFA Puskás Award al calciatore o alla calciatrice che abbiano segnato la rete più bella dell’anno. Recentemente si è tornato a scrivere di lui perché Cristiano Ronaldo lo ha raggiunto a quota 746 reti nella classifica dei migliori marcatori all time, dal cui calcolo vengono esclusi i gol con le nazionali giovanili od olimpiche. Peccato che non tutti riescano a comprendere che più che al computo totale delle reti (a parte che i gol, parafrasando Gianluca Vialli, andrebbero pesati più che contati) è fondamentale guardare le presenze perché ciò che conta davvero è la media-gol. Banalmente, segnare 100 gol in 100 partite non è come segnare 100 gol in 200 partite…
E proprio facendo questo calcolo si fa una scoperta sconvolgente. Lasciando stare Josef Bican, che ha giocato in un’epoca oggi non valutabile, senza il decisivo supporto della TV, e per la maggior parte della sua carriera in un campionato poco performante come quello cecoslovacco degli anni ’40, si scoprirà che nell’epoca televisiva, nel calcio cosiddetto “moderno”, nessuno dei grandi ha la media-gol di Ferenc Puskás. E l’aspetto ancora più clamoroso è che come abbiamo evidenziato non si trattava neppure di un centravanti, di un giocatore esclusivamente dedito alla finalizzazione, ma di un attaccante capace soprattutto negli anni ungheresi di muoversi molto sul fronte offensivo, di impostare e servire assist dall’alto di una classe inarrivabile.
La classifica dei migliori marcatori all time non va letta da chi ha segnato più gol a chi ne ha segnati meno. Ma da chi ha la miglior media-gol a chi ce l’ha di meno. Ecco come andrebbe letta…
CALCIATORE | MEDIA GOL | GOL | PRESENZE |
---|---|---|---|
1 Ferenc Puskás | 0,99 | 746 | 754 |
2 Eusébio | 0,98 | 626 | 638 |
3 Gerd Müller 3 Pelé | 0,93 | 732 761 | 792 821 |
4 Lionel Messi | 0,79 | 722 | 913 |
5 Romário | 0,78 | 746 | 958 |
6 Cristiano Ronaldo | 0,73 | 746 | 1023 |
Lo ha portato via l’Alzheimer, una malattia degenerativa devastante perché imprigiona la mente e stritola i ricordi. E anche il ricordo che le giovani generazioni hanno di lui è un po’ sbiadito, schiacciato dall’impellenza dell’attualità e di una conoscenza troppe volte frammentaria, superficiale, frivola. È per questo che occorre riannodare il filo con la memoria e ricollocare Ferenc Puskás là dove merita di stare. Lui, con la consueta umiltà, forse non avrebbe gradito.
«È partito un calciatore ed è tornato un monumento. Spero non mi mettano subito in un museo» disse una volta al direttore della Gazzetta dello Sport Candido Cannavò, dopo il suo ritorno a Budapest negli ultimi anni di vita. Invece non solo – fortunatamente – è successo. Ma lo hanno addirittura tumulato al fianco di re e santi. Perché Puskás per la sua gente è stato molto più di un semplice calciatore. È stato un’ancora a cui aggrapparsi in tempi bui, il condottiero di un Paese carico di fascino e romanticismo che, stretto nella morsa di una esasperante quotidianità, si affidava al suo sinistro e alle sue magiche prodezze per sognare un futuro di pace, prosperità e ricchezza.
VITTORIE CON I CLUB • 5 campionati ungheresi (1949-50, 1950, 1952, 1954, 1955) • 5 campionati spagnoli (1961, 1962, 1963, 1964, 1965) • 1 Coppa di Spagna (1962) • 3 Coppe dei Campioni (1959, 1960, 1966) • 1 Coppa Intercontinentale (1960) |
VITTORIE CON LA NAZIONALE • 1 Coppa dei Balcani (1947) • 1 oro olimpico (1952) • 1 Coppa Internazionale (1953) antesignana dei moderni Campionati Europei |
NUMERI INDIVIDUALI • 746 gol ufficiali in 754 partite: 383 gol in 367 partite con la Honved 242 gol in 264 partite con il Real Madrid 84 gol in 85 partite con l’Ungheria 0 gol in 4 partite con la Spagna 37 gol in 34 partite in altri tornei ufficiali tra il 1946 e il 1956 • 4 volte capocannoniere del campionato ungherese (1948, 1949-50, 1950, 1953) • 4 volte capocannoniere della Liga spagnola (1960, 1961, 1963, 1964) • 3 volte capocannoniere della Coppa dei Campioni (1960, 1962, 1964) con un bottino totale di 36 gol in 41 partite • 1 titolo di capocannoniere della Coppa Internazionale (1953) |
GOL NELLE FINALI • 1 gol nella finale olimpica 1952: Ungheria-Jugoslavia 2-0 (70°) • 1 gol nella finale del Mondiale 1954: Germania Ovest-Ungheria 3-2 (6°) • 4 gol nella finale di Coppa dei Campioni 1960: Real Madrid-Eintracht Francoforte 7-3 (45°, 54°, 60°, 70°) • 3 gol nella finale di Coppa dei Campioni 1962: Benfica-Real Madrid 5-3 (17°, 23°, 38°) • 2 gol nella finale Intercontinentale 1960: Real Madrid-Peñarol 5-1 (3°, 9°) |