È il 16 giugno 2013 e lo stadio Maracanã di Rio De Janiero ospita Italia-Messico, valida per la Confederations Cup, trofeo minore che costituisce un antipasto, una prova generale per il Mondiale che si sarebbe svolto l’anno seguente. Quell’impianto, intriso di oltre mezzo secolo di storia – i lavori iniziarono nel 1948 in previsione dei Mondiali 1950 e i cui ciottoli sono pregni dell’anima dei trionfi e delle tragedie sportive e non solo – fa da splendida cornice al giocatore della nazionale italiana con la maglia bianca numero 21, che si appresta a battere un calcio di punizione da circa 28 metri, mentre il sole volgeva verso il tramonto, illuminando di un colore rosso fuoco gli spalti circostanti. Andrea Pirlo, alla centesima presenza in nazionale, calcia una parabola perfetta, che va a spegnersi all’incrocio dei pali (nel sette, come si dice in gergo) alla destra del portiere messicano.
I tifosi italiani esultano, seguiti a ruota dai tifosi brasiliani, neutrali e allo stesso tempo tifosi di un certo “stile di gioco” fatto di colpi estrosi e futbol bailado. Il pubblico verde-oro esulta, forse abbacinato da tanta meraviglia, forse in preda alla saudade per le espressioni artistiche di Zico, che al posto del piede destro aveva un pennello con cui disegnava polvere di stelle. Andrea Pirlo in Brasile è un idolo e l’accoglienza ricevuta a Manaus l’anno seguente durante il ritiro azzurro in vista del Mondiale è l’ulteriore conferma di come i brasiliani lo sentano affine al proprio tipo di calcio. Non è un caso che per molto tempo Pirlo è stato spesso definito “il più brasiliano tra gli italiani” o anche “il più spagnolo”, l’unico che poteva reggere il confronto nella dittatura tecnica di Xavi e Iniesta e non pochi lo avrebbero voluto al Camp Nou a completare il “terzetto impossibile” insieme ai due folletti del Barcellona.
Prendendo in prestito la brillante locuzione dal nostro Francesco Buffoli, definisco giocatori asimmetrici tutti quei giocatori che sono dotati di qualità tecniche eccellenti, con cui compensano determinati limiti di varia natura – atletismo, potenza fisica, velocità, altezza, e via discorrendo.
Pirlo è un perfetto esempio di giocatore asimmetrico: non è un fulmine di guerra, non è fisicamente imperioso come Zidane o come Paul Scholes (che non era altissimo, ma aveva una potenza atletica fisica e muscolare seconda a pochi), non è cattivo e duro nei contrasti come l’amico Gennaro Gattuso, né ha la completezza tecnico-atletica di Toni Kroos.
Questi limiti, più o meno marcati, sono superati da un estro e da una qualità tecnica fuori dal comune, che non a caso scaldano i cuori dei sudamericani e degli spagnoli, dove tale qualità è ritenuta la caratteristica più importante nel calcio. E se da una parte un certo mondo ha adorato Pirlo quasi all’unanimità, per molto tempo nei nostri confini Pirlo è stato snobbato, o non sempre trattato con i guanti bianchi, almeno fino al 2012, quando dopo avere disputato una delle migliori stagioni della carriera dopo diversi anni bui e giocato un Europeo da protagonista e trascinatore il pubblico nostrano lo ha amato in massa, anche se Pirlo era già Pirlo da poco meno di una decina di anni, seppur con qualche momento di appannamento.
Eppure, una frase che ancora oggi sento mossa nei suoi confronti da una infinitesimale ma rumorosa minoranza è che “Pirlo aveva bisogno di essere protetto tatticamente”, come per sminuirlo e per far intendere che “sì, era forte, ma aveva delle controindicazioni”.
Ora, in questa frase c’è un fondo di verità. È evidente che Andrea da Brescia abbia notevolmente alzato il livello delle sue prestazioni giocando accanto al mastino Gattuso, o quando Antonio Conte ha protetto il suo genio e la sua capacità creativa affiancandogli centrocampisti di intensità come Arturo Vidal, Claudio Marchisio e anche il giovane Paul Pogba e che un dualismo con un altro grande genio asimmetrico come Manuel Rui Costa è stato un enigma tattico di difficile soluzione per il calcio di casa nostra, votato sempre alla ricerca di equilibrio e di un perfetto bilanciamento tra le qualità e caratteristiche in campo.
Credo però che il nocciolo della questione sia un altro, e cioè come cambia la squadra la presenza di Andrea Pirlo. Come tutti i grandi registi, il rapporto tra lui e la squadra è biunivoco: se da una parte la sua presenza deve essere supportata da giocatori che possano esaltare al meglio le sue caratteristiche di visione di gioco, dall’altra è innegabile che la presenza di un giocatore così cambia il volto alla squadra e la fa volteggiare ad altezze siderali, che senza di lui sarebbero accessibili con una difficoltà estremamente maggiore. La già citata Juventus di Conte ha costruito la sua fortuna sulla centralità nel gioco di Pirlo, con i due summenzionati scudieri ad affiancarlo ed esterni di gamba, non necessariamente fenomeni (Lichtsteiner, Estigarribia, Pepe, Asamoah, ma anche Jankulovski se pensiamo al periodo di gloria rossonero non lo erano) ma in grado di seguire lo spartito del direttore d’orchestra.
Andatevi a ripescare la Supercoppa Europea 2007 oppure, se volete perdervi nei cunicoli polverosi delle partite dimenticate, virate su un anonimo Milan-Ascoli della stagione 2006-2007, quella in cui il Milan partendo dai preliminari di Champions a seguito delle controverse sentenze di Calciopoli terminava la sua corsa trionfale ad Atene contro la nemesi del Liverpool, vendicando l’onta di Instanbul. Ebbene, in entrambe le partite Jankulovski segna allo stesso modo, ossia con un colpo di testa in corsa dopo un bagliore di Andrea Pirlo, che dal nulla estrae dal cilindro la specialità della casa, una sventagliata da lontano, apparentemente senza senso, ma che acquisisce significato solamente con la sua destinazione finale.
Abilissimo nel passaggio corto, ancora di più in quello lungo, eccellente nel tiro da fuori anche su calcio piazzato, veloce nel pensiero – sempre una frazione di gioco davanti gli altri – Trilli Campanellino (come lo chiamava il tarantolato Carlo Pellegatti) debutta giovanissimo, da bimbo prodigio, con la maglia del Brescia nella stagione 1994/95 dopo avere bruciato le tappe nelle squadre giovanili nella squadra della sua città.
Eppure, nonostante la presenza del talento nei piedi del giocatore non sia in discussione, il giocatore vive una piccola Odissea in cerca di se stesso e di quel clic in grado di connetterlo con il calcio che conta. Gioca in Serie B con le Rondinelle, va all’Inter (due volte), va in Calabria con la maglia granata a farsi le ossa, si fa onore anche in azzurro con le nazionali di categoria, di cui diventa una colonna (ricorderete addirittura la sua presenza nella nazionale olimpica Under-21 alle Olimpiadi del 2004, da fuori quota). La storia di Carlo Mazzone che decide di spostarlo da trequartista – ruolo per cui possiede a pieno titolo i requisiti della fantasia e della visione superiore, ma non quello della “gamba” e del passo – a regista davanti alla difesa è nota e non serve ripeterla ulteriormente.
Carlo Ancelotti ripropone la medesima ricetta al Milan e la storia la conoscete già: dopo un anno di apprendistato, nel 2002/03 inizia ad alzare i giri e ad imporsi come centrocampista di livello – e come rigorista: 8 rigori calciati, 8 reti – per poi consacrarsi definitivamente nel 2003/04, in una delle sue migliori annate in carriera, conclusa con uno scudetto da protagonista e la chiamata del ct Giovanni Trapattoni per la spedizione – che si rivelerà amara – di Euro 2004.
Due anni dopo Pirlo è il grande protagonista della cavalcata mondiale, dopo le prestazioni monstre di Fabio Cannavaro e Gianluigi Buffon: apre il torneo con un affilato destro da fuori al debutto contro il Ghana e lo chiude con il colpo di genio per Fabio Grosso nel catino bollente di Dortmund e con il calcio d’angolo per Materazzi che va in cielo e trafigge (per la prima volta) Barthez nella finalissima di Berlino. Nel mezzo, gioca un torneo in cui è il faro della manovra azzurra, tra aperture, suggerimenti, assist ed una gestione del pallone da Maestro, e farà altrettanto due anni dopo nella sfida cruciale contro i cugini francesi all’ultima gara del girone: dopo una tremenda sconfitta contro l’Olanda ed un risicato pareggio con la Romania, Pirlo sale in cattedra: trasforma il rigore del vantaggio e illumina il gioco con aperture e palloni per gli attaccanti, purtroppo in giornata di scarsa vena, ed è premiato dai giornalisti sportivi del giorno dopo come “migliore in campo”. Riveriano, dice qualcuno. Un’ammonizione gli fa saltare la sfida contro la Spagna ai quarti di finale, e chissà come sarebbe andata.
Se però è troppo facile parlare dell’importanza di Pirlo nelle vittorie, è meno scontato parlare della sua importanza anche nelle sconfitte. E’ sempre facile generalizzare o scrivere teorie posteriori ad hoc su un giocatore, a seconda di quanto si vuole dimostrare. Gli assenti hanno sempre ragione e con il senno di poi è sempre troppo facile. Ci sono però esempi lampanti sull’importanza della presenza – o assenza – di un giocatore, soprattutto se sono giocatori che cambiano volto alla squadra, trasformano il gioco e lo plasmano a propria immagine e somiglianza.
Se scorriamo il nostro libro dei ricordi e ci fermiamo al tremendo capitolo dei Mondiali in Sudafrica del 2010, in quel naufragio azzurro partito nelle più avverse condizioni – convocazioni discutibili, giocatori finiti e/o non all’altezza, infortuni di giocatori-chiave – e terminato ancor peggio con un’eliminazione precoce in un girone non esattamente irresistibile con Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia, non possiamo fare a meno di notare un fatto: l’Italia crea di più con Pirlo su una gamba sola in un tempo, che in tutto il resto del torneo.
Sì, perché Andrea si fa male prima del debutto e al suo posto giocano Montolivo (neanche male, in realtà) e Palombo. Marcello Lippi, nella disperata rincorsa ad una qualificazione immeritata, decide di recuperarlo in fretta e furia per raddrizzare una partita nefasta, contro la Slovacchia di Marek Hamsik. Le precarie condizioni fisiche del bresciano non gli permettono di giocare nemmeno una frazione di gioco intera, così il tecnico viareggino lo butta nella mischia al 56’: in quella mezzora una squadra fin lì amorfa e senza sale acquisisce una linea ed una forma, i movimenti corali diventano più armonici ed acquistano un senso logico, seppur in circostanze drammatiche. Arrivano anche i gol di Di Natale e Quagliarella, che non bastano, ma Pirlo ha dimostrato ancora una volta cosa significa avere uno come lui dalla propria parte.
Disquisire su chi sia meglio tra lui, Xavi, Iniesta, Modric è interessante e stimolante, ma non ci sono risposte certe, perché potrebbero essere tutte giuste, a seconda della dote e della qualità presa come riferimento e punto di partenza della discussione, che lasciamo a voi che ci leggete. Chi ama il calcio non può che ringraziare di aver vissuto un’epoca simile, in cui i grandi centrocampisti hanno fatto da padrone.