Immagine di copertina: Luka Modrić impegnato in una girata volante
Quando si valuta la dimensione di un grande atleta, non si può non prendere in esame la capacità di agire sotto pressione, risalire la corrente, tirar fuori un grande gesto tecnico nei momenti di maggior difficoltà. In uno sport di squadra come il calcio oltretutto, in cui ergersi al di sopra di altri 21 giocatori non rappresenta di certo la norma, gli attimi di brillantezza puramente individuali sono più rari che mai, dominio esclusivo di pochi eletti.
In tempi recenti, nella memoria di chi scrive, ce n’è stato uno a stagliarsi in maniera netta con toni quasi ultraterreni: il luogo dell’epifania è il Santiago Bernabeu, e l’evento è la gara di ritorno dei quarti di finale di Champions League tra Real Madrid e Chelsea. I Blues, dopo aver perso 3-1 nel match d’andata, stanno sfoderando una prestazione da 10 e lode, portandosi sul 3-0 a 15’ dal termine in uno dei templi per eccellenza del calcio europeo.
I Blancos hanno ben poche idee a disposizione e si affidano ai due totem della squadra: il primo, Karim Benzema, si sarebbe iscritto di lì a pochi mesi al club esclusivo dei Palloni d’Oro, mentre l’altro, Luka Modric, ne era entrato a far parte già da qualche anno.
Del resto il Mago di Zara ne ha già vissute tante di serate così, forse fin troppe dall’alto dei suoi quasi 37 anni, e sembra essere l’unico in campo ad avere una vaga idea di come far approdare la gara ai tempi supplementari.
Ne dà una perfetta dimostrazione quando, ricevendo sulla trequarti spostato sul centro-sinistra, si rende conto che l’unico modo possibile per fregare una retroguardia fin lì impeccabile, composta da Reece James, Thiago Silva, Rudiger e Marcos Alonso, è giocare d’anticipo; con l’esterno del piede destro, Modric disegna una parabola dolce ma al tempo stesso estremamente tagliente, che permette a Rodrygo di fiondarsi sul pallone e di battere Mendy con una rapidità d’esecuzione inaudita.
In questa singola giocata, una delle gemme più luminose lasciate sul cammino della quattordicesima Champions vinta dal Real Madrid, è condensata tutta la carriera del miglior calciatore della storia dei Balcani, un’area geografica che fin troppo spesso aveva prodotto talenti purissimi ma incostanti, incapaci di salire l’ultimo grande scalino che separa i campioni dai fuoriclasse.
Rivedendo le centinaia di partite disputate da Modric infatti, a differenza di suoi illustri predecessori come Savicevic o Stoijkovic, si farà fatica a trovare un gesto tecnico fine a sé stesso, come ogni tanto capita a chi dispone di una tecnica barocca come la sua; l’assist a Rodrygo è il momento in cui il croato si appropria definitivamente di una giocata da molti considerata frivola come la trivela, che fino a quel momento aveva avuto in un eterno incompiuto come Ricardo Quaresma il massimo esponente.
Chissà se la scintillante praticità di Modric affonda inconsciamente le proprie radici in una malinconica serata di 25 estati fa, quando la memorabile Croazia di Blazevic fu bruscamente riportata alla realtà nella semifinale mondiale contro la Francia, con Lilian Thuram, autore di una doppietta, nell’inconsueto ruolo di carnefice. Il primo gol dell’allora difensore del Parma nasce da un pallone perso banalmente al limite dell’area da Zorro Boban, capitano e numero 10 dei biancorossi, oltre che idolo dell’allora 13enne Luka, a cui i transalpini avrebbero inflitto la seconda grande delusione della sua vita nel 2018.
Al Mondiale russo, la nazionale croata raggiunge l’apice della propria parabola calcistica, giungendo contro ogni pronostico in finale; è la meritata consacrazione per una generazione cresciuta nel mito dei Suker, dei Prosinecki, del già citato Boban, e via dicendo, e che ha visto la propria terra natale, la bella e tremenda Jugoslavia, crollare sotto il peso della Storia.
Non sarebbe corretto individuare in Modric il deus ex machina di quella formazione, ma ne è indubbiamente il cuore pulsante, e nel corso del torneo regala momenti di bagliore calcistico difficilmente eguagliabili: indimenticabile in tal senso la prestazione contro l’Argentina, in cui la sua stella, per una notte, raggiunge vette siderali anche per Messi, costretto a osservarlo impotente mentre annienta l’Albiceleste. Come già detto in precedenza, soltanto una Francia troppo forte per essere vera impedisce alla Croazia di mettere le mani sul trofeo più bello e ambito del globo; la finale del Luzniki incorona Mbappé come re del calcio mondiale, in quello che sembra un minaccioso messaggio lanciato alla generazione precedente: “Spostatevi, è iniziata la mia era”.
L’ancien regime però, di cui Modric è tra i principali capofila, pare tutt’altro che intenzionato a farsi da parte: a dicembre viene infatti premiato con il Pallone d’Oro, a coronamento di un’annata che, oltre alle monumentali prestazioni al Mondiale, lo ha visto trionfare per la quarta volta in carriera in Champions League.
Eh già, la Coppa dalle Grandi Orecchie: per 12 anni, dal 2002 al 2014, a Madrid sponda blanca non ne hanno visto nemmeno l’ombra, e visti gli standard a cui il pubblico del Bernabeu era stato abituato, riconquistarla era diventata una vera e propria ossessione, specie considerando che si sarebbe trattato della “Décima”, un traguardo leggendario e tuttora irraggiungibile per qualunque altro club.
Qualunque altro club eccetto il Real Madrid ovviamente; e non è un caso che ci sia anche Luka Modric ad apparire nella fotografia più celestiale degli ultimi 50 anni di gloriosa storia “merengue”. Quella del 2014 è infatti la prima finale della storia della competizione a ospitare lo scontro tra due squadre della stessa città: i “galacticos 2.0” di Ancelotti contrapposti all’Atletico Madrid di Diego Simeone, i “villains” per eccellenza dell’ultimo decennio di calcio europeo. Ai colchoneros, in vantaggio per 1-0 allo scoccare del 90’, manca soltanto uno scalino per accedere alla gloria eterna, che però, si sa, è tanto bella quanto sfuggevole, e storicamente ha sempre preferito flirtare con quelli in maglia bianca.
Succede così anche stavolta; l’Atleti, che è nettamente la squadra più forte al mondo sulle palle inattive, deve resistere a un ultimo calcio d’angolo. Modric si appresta a batterlo con una calma quasi inspiegabile, considerando la tragica epicità del momento. Quello che succede di lì a pochi secondi è semplicemente storia; i tagliagole del Cholo, dopo essere riusciti a mettere la museruola a un cerbero chiamato “Ronaldo–Benzema–Bale”, si tramutano in semplici spettatori del destino. Il cross del croato cade sulla fronte di Sergio Ramos, che con una torsione perfetta spedisce contemporaneamente il pallone in fondo al sacco e gli eterni rivali negli inferi, con il match che terminerà sul risultato di 4-1.
Ancor più che nell’immediato, gli effetti di quel gol si vedranno a posteriori; l’aver scacciato la maledizione della “Décima” trasforma un gruppo di giocatori eccezionali in delle vere e proprie macchine da guerra. Una squadra che per tre anni consecutivi si rifiuta di abdicare al trono d’Europa ed è a tutti gli effetti un’armata “centrocampocentrica”, a partire dall’uomo in plancia di comando; dopo che Ancelotti aveva gettato le basi per l’apertura di un ciclo, Zinédine Zidane è efficacemente passato a riscuotere il bottino, senza tuttavia limitarsi alla mera gestione del gruppo. È stato lui, ad esempio, a responsabilizzare ulteriormente Modric, consegnandogli non soltanto la maglia numero 10, ma anche e soprattutto le chiavi della squadra.
Con il francese in panchina, Luka si proietta definitivamente tra i migliori centrocampisti di ogni epoca, accompagnato da due profili che più diversi non si potrebbe: un architetto tedesco capace di rasentare l’infallibilità, e un bodyguard brasiliano che, all’occorrenza, fa sempre molto più comodo avere al proprio fianco piuttosto che tra le fila avversarie. Per farla breve, sono Toni Kroos e Casemiro, il poliziotto buono e quello cattivo, insieme a Modric i maggiori depositari dell’identità tecnica di una squadra estremamente camaleontica, e per questo quasi impossibile da battere. Rinominato da Ancelotti “triangolo delle Bermuda”, questo terzetto mediano, ben assortito come pochi altri nella storia del gioco, trae la sua forza proprio dalla clamorosa complementarietà dei propri interpreti.
A posteriori dunque, dopo una ventennale carriera sfavillante, in cui ha fatto in tempo a vincere 6 Champions League (più di Di Stéfano, Maldini e Cristiano Ronaldo), e ottenere traguardi fuori scala alla guida di una nazione meno popolosa dell’area metropolitana di Roma, forse la più grande soddisfazione che Modric è stato in grado di togliersi è un’altra. Il Pallone d’Oro zaratino infatti fa parte della ben nutrita cerchia di fuoriclasse in grado di restare ai massimi livelli nonostante un fisico tutt’altro che da corazziere, che in giovane età aveva sollevato non pochi dubbi sulle sue chance di sfondare tra i professionisti. Del resto, per imporsi rapidamente in un campionato esigente come quello croato, o per convincere il Tottenham a sborsare una cifra mai spesa fino a quel momento per nessun altro giocatore della storia del club, non bastano le sole doti calcistiche, serve anche altro.
Serve una tempra che il 90% di coloro che tentano la carriera da professionisti non si sogna nemmeno lontanamente, e forse, esplorando il passato di Modric, in fondo è meglio così. Del resto, non so a quanti ragazzini convenga raffinare l’arte del dribbling su un terreno colmo di mine inesplose, simbolo di tensioni rimase sopite per decenni per poi uscire allo scoperto in tutta la loro folle brutalità, e capaci di fare a pezzi un’intera “nazione” (per quanto abbia senso provare a racchiudere ciò che è stata la Jugoslavia in una definizione così limitativa).
Tra le innumerevoli vittime innocenti di una delle pagine più buie della storia contemporanea, c’è Luka Modric, ucciso nel dicembre del 1991 da una banda di ribelli serbi di fronte alla propria abitazione. Non fraintendetemi, a perdere la vita quel giorno non fu ovviamente il futuro capitano della Croazia, ma suo nonno, con cui condivideva il nome di battesimo.
Il volto di Modric, a distanza di oltre 30 anni, non ha mai perso l’espressione sofferente di chi è dovuto diventare adulto ben prima del dovuto, e che forse non riuscirà mai del tutto a prendere a pallonate i propri fantasmi. Eppure, in fondo, noi che lo guardiamo, ci faremo bastare anche solo un suo assist di esterno per scacciare qualche nuvola di troppo.